Il danno scolastico e i suoi rimedi

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Il danno scolastico e i suoi rimedi

di Francesco Scoppetta

Enzo Biagi amava raccontare i fatti: «Buttar giù un parere, in fondo, sarebbe più facile. Ma credo che la gente da me si aspetti altro: prima dei commenti, le certezze. E le sole certezze che può dare un giornalista sono i fatti. Niente è più dimostrato di ciò che è accaduto”. Questa frase di Biagi mi è tornata in mente quando ho letto che Paola Mastrocola, il cui lavoro è stato fare l’insegnante, è stata accusata (nientemeno) di voler generalizzare la sua esperienza. Se neppure una esperienza lunga una vita è un “fatto”, si capisce perché sulla scuola italiana si moltiplicano i “pareri”, però solo di ex alunni. E’ possibile descrivere cosa sia Londra oggi se uno l’ha visitata 30 anni fa o se la conosce attraverso i libri e gli articoli che ha letto? Direi di no, ma sulla scuola italiana avviene proprio questo.

Paola Mastrocola e Luca Ricolfi (M&R) ne Il danno scolastico (La nave di Teseo, 2021) hanno sostenuto “che l’abbassamento del livello scolastico avvenuto negli ultimi 50 anni ha prodotto un danno a tutti gli studenti, ma in particolare a quelli delle famiglie più povere, i quali avevano nella qualità della scuola l’unico modo (in passato) per conquistarsi posizioni elevate nella società in base ai propri meriti scolastici. Oggi invece il generale appiattimento, oltre a danneggiare tutti, favorisce i figli delle classi più benestanti che usano i loro più potenti sistemi di relazione sociale e il maggior denaro per aiutare i propri figli sia nel migliorare il livello di studi, sia per inserirsi più facilmente nelle posizioni alte della società “(Andrea Gandini). M&R individuano con precisione il mezzo con cui l’istruzione ha scatenato la rivoluzione pedagogica: le sue innovazioni si sono spinte oltre il diritto allo studio, fino ad affermare un nuovo, inaudito, diritto al successo formativo (Paolo Di Remigio e Fausto Di Biase). “M&R meritano attenzione oltre per la vasta eco che suscitano perché articolano una strategia retorica abbastanza usuale negli attuali discorsi liberal-conservatori sull’istruzione: in base a questi solo un modello di scuola e università rigoroso e selettivo promuoverebbe reali percorsi di emancipazione coerenti con l’articolo 34 della Costituzione (al terzo comma parla dei “capaci e meritevoli) (Vincenzo Sorella).

Le tappe che M&R individuano lungo il percorso dell’abbassamento sono: la riforma della scuola media del 1962; il libero accesso all’università del 1969: i decreti delegati del 1974-75; l’attività riformatrice elaborata tra il 1997 e il 2000 dal ministro Berlinguer sia a livello universitario (3+2) sia sull’autonomia scolastica e il (mai attuato) riordino dei cicli; la riforma Moratti del 2003, parzialmente inapplicata; il taglio delle spese all’istruzione voluto dal ministero Gelmini; la Buona scuoladi Renzi.

Il loro studio, oltre ad un buon successo di pubblico (e magari anche per questo), ha provocato una mole di recensioni di segno diverso, ma alcune redatte con evidente “furia ideologica”, o sarcasmo, sino al livore. Ormai M&R, così come Ernesto Galli della Loggia (L’aula vuota, Marsilio) o Adolfo Scotto di Luzio (La scuola che vorrei, B. Mondadori), sono liquidati come “reazionari” nel dibattito pubblico sull’istruzione italiana. Le categorie politiche però non discendono dal Creatore e quindi non hanno il bollino dell’eternità. Riflettono il tempo contingente in cui viviamo e soltanto in esso trovano, o non trovano più, ragion d’essere.

Un giudizio abbastanza moderato e per me significativo lo riporto perché lo considero di tutta evidenza. Un fatto. E’ di Federico Batini : “La scuola di oggi come la racconta il libro, semplicemente non esiste. Esistono molte scuole, diverse tra loro, anche negli stessi territori e dentro le scuole esistono sezioni e classi altrettanto diverse tra loro. La scuola di oggi non consente a chi parte da più indietro di “recuperare” lo svantaggio. Il primo errore è, ovviamente, pensare anche solo per un attimo che quella di una volta, invece, lo facesse. Dire che stiamo peggio di un tempo è un refrain facile e che produce consenso, spesso è, però, falso. Indubbiamente il problema della prevedibilità degli esiti sulla base dei punti di partenza è un problema reale. Il problema è che questo è il grosso limite proprio di quella scuola della quale gli autori invocano il ritorno (in realtà viva e vegeta) e non l’effetto di una didattica oggi tutta votata a favorire il successo di tutti abbassando le attese come gli autori sostengono. La scuola insomma, spesso, non riesce, suo malgrado, a ridurre le differenze e, in alcuni casi (per esempio nella scuola “selettiva” e “seria” dei “mieitempi”) finisce per amplificarle, ma non le produce, non ne è all’origine. L’origine sta nello svantaggio determinato dall’ingiustizia sociale. A volte succede persino di confondere cause ed effetti”.

A questo giudizio vorrei aggiungere quel che sul libro ha scritto Marco Campione (del quale ricordo il libro scritto con E. Contu, Liberare la scuola -Vent’anni di scuola autonome, il Mulino, 2020) perché mi sembra allarghi la visuale:

La risposta ai problemi della scuola non può essere quella di Mastrocola e Ricolfi, ma nemmeno la negazione del fatto che la scuola ha molti problemi è una risposta. Il principale? Abbiamo realizzato in cinquant’anni la scuola di massa (oggi si iscrive alle superiori la quasi totalità dei quattordicenni, solo trent’anni fa era il 70%, cinquant’anni fa il 50%), ma non riusciamo ancora a renderla pienamente democratica, appunto (ogni riferimento a abbandoni, ripetenze e dispersione implicita non è casuale). I problemi della scuola sono questi, non quelli che molti detrattori del volume di M&R accampano.(…) Trovo, in sintesi, che le tesi del libro e quelle di un certo tipo di detrattori siano in qualche modo speculari: la responsabilità per i problemi della scuola sono per entrambi di tutti e tutto, tranne che per responsabilità della scuola stessa (il legislatore, lo spirito del tempo, la scuola democratica per M&R; il legislatore, lo stipendio basso, l’efficientismo tecnocratico, per gli altri).
E mentre i due gruppi continuano a darsele di santa ragione incolpando il mondo intero tranne loro stessi del fallimento (scolastico) di Martina, Martina subisce le conseguenze dei loro fallimenti (professionali)”.

In Italia la dispersione scolastica è al 13,1 per cento secondo l’ultimo rilevamento del 2020. Vuol dire che un ragazzo su sette non finisce le scuole superiori. Per usare le parole di Andrea Gavosto, “alla vigilia dell’esame di maturità, che supererà certamente, uno studente su due ha serie lacune nel ragionamento matematico; quasi altrettanti faticano nella comprensione di un testo. Negli indirizzi professionali a non raggiungere un livello accettabile sono quasi 8 su 10”.

La scuola deve produrre apprendimenti, se non li produce a cosa serve? La scuola in Italia non funziona perché sforna troppi ignoranti e giocoforza alcuni di questi finiscono in cattedra.

Impostata così la questione, forse si evita, come si è soliti fare in Italia, di scagliare la palla in corner e di buttare la croce addosso esclusivamente al parlamento. Sfondo una porta aperta se dico che ogni produzione legislativa è influenzata sempre da una ricerca ossessiva e prevalente di consenso, oltre che da orientamenti culturali presenti nella società, dalle pressioni delle lobby più potenti e dei gruppi sociali assunti come punti di riferimento.

E’ del tutto evidente che qualsiasi partito punterà a procurarsi il consenso dei 684 mila insegnanti (e dei 131mila addetti del personale Ata) piuttosto che quello dei 6800 dirigenti, è matematica. Non è un caso nè frutto del destino che il parlamento italiano non abbia mai stabilito con legge in cosa consista il “ruolo” del docente e siano invece i contratti collettivi a trattare la “funzione docente”. Se non sbaglio, occorre risalire addirittura al 2003 per rintracciare due proposte di legge presentate dal centrodestra per ridefinire lo stato giuridico degli insegnanti sottraendolo alla contrattazione sindacale. Non è questione di destra e sinistra, né destra né sinistra ridurranno mai l’evasione fiscale così come metteranno mano ad una legge che stabilisca lo statuto del bravo docente, inserendo accanto alle conoscenze disciplinari con altrettanta importanza le competenze relazionali.

Secondo M&R, la catastrofe sarebbe cominciata con la riforma relativa alla scuola media unica che, nel 1962, ha dato luogo al superamento della scuola di avviamento professionale, allora parallela alla scuola media, dopo i cinque anni di scuola elementare. Solo che nel 1961, secondo i dati del Censimento, poco meno dell’85% degli italiani aveva al massimo la licenza di scuola elementare, in altre parole era analfabeta o semianalfabeta. “Anche per questo” ha scritto giustamente Saul Meghnagi, il pedagogista presidente dell’ISF, “il limite più grave dell’argomentazione proposta da M&R, relativamente alle cause delle carenze, sta nella non considerazione dell’assenza, in Italia: a) di un reale sistema di educazione degli adulti e, cosa, anch’essa, totalmente ignorata dal volume, b) di un solido sistema pubblico di formazione e qualificazione professionale”. La qualità dell’istruzione e il grado di indulgenza nella valutazione non sono, dice Meghnagi, le uniche spiegazioni dei problemi di cui soffre la cultura nazionale (in aggiunta all’origine sociale, al contesto economico e alla lunghezza degli studi). “Senza un solido canale di formazione professionale il sistema formativo è monco. Su questo tutta la classe politica è responsabile. Anche, ma non solo, quella sinistra che viene additata come unica causa di tutti i mali”.

Qualche anno fa in un libro (La fabbrica dei voti finti, Armando, 2017) illustrai il sistema duale alla tedesca che differenzia, dopo il primo ciclo (elementari e media insieme), pur con opportune passerelle di passaggio, due percorsi, quello che termina con il diploma  e quello  che termina con la laurea. In Germania ci sono moltissimi tipi di scuola, ma già all’età di 10 anni si possono prendere tre indirizzi diversi che corrispondono al rendimento degli alunni. Al Gymnasium ci vanno gli alunni con un buon rendimento scolastico, corrisponde ai nostri Licei e dà accesso all’Università. Mentre alla Hauptschule e alla Realschule ci vanno gli alunni con un rendimento scolastico un pochino più debole. La Hauptschule corrisponde alle nostre scuole professionali e ne esistono di diversi indirizzi a seconda delle professioni. Il sistema duale tedesco rappresenta una modalità di alternanza scuola-lavoro con una lunga tradizione, che offre un sistema di istruzione organizzato in due luoghi di formazione: la scuola (Berufsschule) e l’azienda.

Questo sistema offre circa 350 qualifiche riconosciute, che vengono annualmente implementate. Di fatto, due terzi dei giovani ottengono una qualifica professionale, superato l’esame finale conseguono un diploma che ne certifica la qualifica di lavoratore specializzato (Facharbeiterbrief), di assistente commerciale (Kaufmanngehilfenbrief) o di artigiano qualificato (Gesellenbrief).

Nella maggior parte dei casi, al completamento della formazione in alternanza gli studenti trovano lavoro nelle stesse aziende dove hanno svolto la formazione pratica. Risulta chiara la differenza tra il sistema tedesco (la Germania ha 83 milioni di abitanti) e il nostro che invece non consente neppure con la laurea di trovare un lavoro? Non ci piacerebbe (o magari non dovremmo) riuscire in Italia a far ottenere ai due terzi dei giovani una qualifica professionale che consenta loro di intraprendere una professione? Visto che abbiamo più di 3 milioni di giovani tra i 15 e i 34 anni che né studiano né lavorano? Per noi questo oggi non è, rebus sic stantibus, un sogno, è pura utopia. Eppure: il sistema tedesco? No, grazie, noi non abbiamo mai da imparare niente da nessuno, figuriamoci dai tedeschi. Noi possiamo solo chiedere soldi europei, o il price cap sul gas, s’intende.

L’aspetto più anacronistico della governance della attuale scuola italiana, secondo me, lo si ritrova in quella che fu la risposta dei governi di centro-sinistra alla proteste studentesche del ‘68. I Decreti delegati del 1974  ridisegnarono il volto della scuola secondo il principio della “partecipazione democratica” che ogni anno si celebra con le elezioni dei “rappresentanti”, un mezzo per attuare la cogestione. Questa organizzazione è ormai miseramente fallita, eppure tutto il tempo trascorso non basta ancora per prenderne atto.

Al di sopra del preside, a presiedere l’organo che dà gli indirizzi generali della scuola, venne inserito un genitore (operazione analoga non venne fatta per le aziende sanitarie, come mai?) e pertanto occorre sapere che un dirigente scolastico (ancorchè definito sceriffo o uomo solo al comando) da solo, senza consultarsi e coordinarsi preliminarmente con nessun altro, può soltanto, sulla base delle norme vigenti, convocare un collegio docenti stilando il relativo OdG. Veramente troppo poco per uno sceriffo con o senza stella. Se l’autonomia scolastica, che ha acquisito rango costituzionale con la Legge 3 del 18 ottobre 2001, fosse scelta consapevole e convinta, ogni scuola autonoma si potrebbe costruire la sua organizzazione coinvolgendo studenti e genitori nei modi che ritiene più significativi.

Nel mentre persiste il rumore di fondo del dibattito incessante tra gli addetti ai lavori sul nozionismo, don Milani, il modello scolastico gentiliano e la scuola per competenze, dal 2000 in poi, con l’introduzione della dirigenza scolastica, si è aperta la infinita discussione sulla scuola-azienda. Se ci stessero a cuore i fatti e non solo lo storytelling, si dovrebbe parlare di scuola-azienda cogestita, nella quale organi collegiali eletti o istituzionali coesistono e s’intrecciano con dirigente e Dsga. Tutti quelli che le scuole di oggi le frequentano sanno che esiste una sola certezza: in esse tutti possono agire e deliberare ma c’è un unico e solo responsabile, il dirigente parafulmine. Accanto, sopra, sotto la figura del docente, intervengono figure strumentali, animatori, coordinatori, responsabili di dipartimento, referenti; le sigle e gli acronimi si moltiplicano in maniera incessante: GLI, GLO, DSA, BES, PDP, PEI, RAV, POF, PTOF, PON; si sono riempiti di carte finanche gli insegnanti di sostegno (si moltiplicano le guide alla compilazione del nuovo Pei su base ICF) come non è mai successo a nessun altro docente nella storia patria, come se l’ “inclusione” dell’alunno disabile fosse facilitata dalla mole di documentazione prodotta; i marxisti immaginari copyright Vittoria Ronchey fanno risalire ai dettami propri dell’economia aziendale e al neo-liberismo vincente la conversione degli alunni in “utenti” e la scuola in un supermercato che ogni anno propone le sue “offerte” formative. Le pagine istituzionali e facebook e i youtube delle scuole si riempiono quotidianamente di immagini e video rappresentativi del nuovo modello scolastico democratico: uscite didattiche, viaggi, inaugurazioni di giardini botanici, gemellaggi, giornate di incontro, cinema, teatro, giornate FAI, scuola digitale, settimane dell’accoglienza e di fine anno con tanto di teatro musica e spettacolo. Ogni scuola media, ogni ufficio scolastico regionale hanno la loro banda musicale che suona l’inno di Mameli e l’inno alla Gioia di Beethoven prima di qualsivoglia manifestazione al chiuso e all’aperto. Gli alunni del primo ciclo diventano ciceroni, botanici, consiglieri comunali, musicisti, critici cinematografici, guide turistiche, attori, cantanti, ballerini…E’ chiaro che la scuola moderna non può essere solo aula, libri e studio, ma cosa diremmo se in un ospedale invece di migliorare le cure si organizzassero di continuo feste per i ricoverati? La domanda posta tanti anni fa da Piero Romei ancora non trova risposta.

Ma descritto tutto ciò, il supermercato con gli organi collegiali, cosa c’è sotto l’apparenza, sotto il vestito della scuola di oggi? Ci sono i banchi disposti di fronte alla cattedra senza predellino ma la lezione è sempre frontale, i docenti svolgono sempre il programma e si angosciano perchè devono finirlo in vista degli esami. Sotto il vestito è cambiato poco o nulla rispetto al passato. Come avveniva 50 anni fa la prassi più ricorrente nelle aule vede un docente che tiene la sua brava conferenza tutti i giorni, pienamente convinto nel 2022 che ascoltando s’impara. E’ sempre stato così, fin dai tempi della tanto vituperata riforma delle medie, anzi molti proff si meravigliano che il tennis o lo sci o il calcio vengano insegnati direttamente attraverso l’esercizio senza preliminari lezioni alla lavagna. E’ sempre stato così, si può insegnare da soli senza coordinarsi con i colleghi, beninteso in nome della “libertà d’insegnamento”, un mito che nessuno si è mai preso la briga di spiegare quanto tradisca in modo inverecondo il pensiero dei padri costituenti: non intendevano creare nelle scuole il ruolo del docente “autarchico”, ma piuttosto proibire che un insegnante per lavorare debba fare il saluto romano battendo i tacchi.

Concludo con qualche rimedio approntabile per il danno scolastico attuale. Al vertice le scuole finalmente pienamente autonome vengano affidate a dirigenti valutabili, rimovibili in caso di valutazione negativa, e che guadagnino (per scuole della stessa fascia) lo stesso stipendio in qualsiasi regione italiana lavorino. “Il dirigente più ricco guadagna 15.500 euro l’anno in più del dirigente più povero” (Pietro Persiani). Ma fosse solo questo. Ho letto con interesse di un sindacato che “ ritiene inaccettabile una qualsiasi riduzione stipendiale per i dirigenti scolastici”. A parte che non si capisce che funzione abbia un sindacato che ormai di fatto non contratta più il salario, io con pochi altri restiamo gli unici esempi di dirigenti che tre anni dopo essere andati in pensione han dovuto restituire delle somme percepite anni prima per effetto di un Cir con effetto retroattivo finanche…sui pensionati.Maa parte questa scalogna di sindacati che in una regione sottoscrivono contratti a perdere (ma solo per chi ha già lasciato la scuola), che l’ammontare degli stipendi dei dirigenti dipenda dai dimensionamenti più o meno veloci di ciascuna regione, cioè da scelte politiche, è arduo comprenderlo.

I docenti viceversa oggi non hanno stipendi differenziati sulla base della regione. Sarebbe una scelta utile costruire una loro carriera. Lo scatto stipendiale potrebbe ottenersi in seguito a valutazione positiva a cui il docente liberamente domanda di essere sottoposto. Naturalmente non dopo 9 anni e dopo aver seguito corsi di aggiornamento, e neppure come premio per aver accompagnato classi a mostre, campionati, rassegne, premi, attività extra. La valutazione dovrebbe incentrarsi sul contributo che il docente fornisce con la sua attività scolastica in classe, a contatto con gli alunni e i colleghi, attraverso l’impegno e l’assiduità giornaliera, le doti di equilibrio, le capacità relazionali, la saggezza nella valutazione, che sa distinguere dalle misurazioni.

Infine, ma in realtà è la premessa di tutto il discorso, meritano di essere ponderate le parole con cui Stefano Stefanel ha motivato l’eliminazione del valore legale del titolo di studio e l’eliminazione delle bocciature.

“Non credo sia necessario enumerare tutti gli elementi che hanno prodotto la grande distorsione italiana per cui il “pezzo di carta” fa aggio su qualunque competenza sia stata acquisita per raggiungere quel “pezzo di carta”: sia quella di alto valore e livello, sia quella strappata anche attraverso tutte le varie patologie del sistema (due anni un uno, istituti che usano metodologie valutative non comparabili, e via di seguito). Se i diplomi e le lauree non avessero valore legale, in primo luogo, si abolirebbero gli esami di stato, che forniscono classifiche tanto inutili quanto deleterie.

Il secondo passaggio dovrebbe essere quello dell’abolizione della bocciatura, con la conseguenza di rendere necessaria una valutazione e una certificazione che descrivano attentamente tutti i percorsi in modo che si possano conoscere le reali competenze acquisite dagli studenti. Così si avrebbero, ad esempio, studenti che escono dai licei con il 100 e lode e studenti che escono con il 25, cioè con un semplice attestato di frequenza. Tutto questo collegato agli accessi universitari aperti solo a chi – in determinate materie – ha un voto alto. Per cui, ad esempio, se esco da un liceo scientifico con 4 in matematica non posso iscrivermi a ingegneria, dove ci vuole, poniamo, l’8. A quel punto pur provvisto di diploma devo andare a prendermi l’8 (al liceo o all’università), altrimenti a quella facoltà non posso accedere. A questo punto diventerebbe fondamentale e interessante sapere da che scuola o università viene uno studente, che percorso ha seguito, dove è di alto o medio livello e dove di basso livello. E gli unici “bocciati” sarebbero quelli che a scuola non ci vanno proprio e quindi diventano soggetti su cui si dovrebbe agire in primo luogo per via sociale.

Non credo sia molto complicato comprendere che questo sistema rivoluzionerebbe tutta la scuola italiana e – soprattutto – renderebbe evidenti, pubbliche e verificabili le valutazioni e le certificazioni delle scuole. Il voto perderebbe il suo valore e diventerebbe soltanto la descrizione di un livello di competenza, come già avviene per i livelli linguistici (anche se questi livelli a scuola assurdamente convivono con i voti). E anche gli studenti che escono dal sistema con una bassa votazione potrebbero vedersi valorizzate alcune competenze”.

Si possono esprimere meglio di così idee (abolizione del valore legale del titolo di studio e delle bocciature) che la nostra generazione non vedrà realizzate perché nella scuola italiana stiamo dalla parte del torto? Purtroppo noi italiani siamo così. Enrico Fermi dopo la guerra consigliò all’Italia di investire in informatica. Il suggerimento non venne seguito perché si preferì puntare sul sincrotone.