Un nuovo appuntamento per il regionalismo differenziato

Un nuovo appuntamento per il regionalismo differenziato

di Gian Carlo Sacchi

Al varo di ogni nuova maggioranza politica viene riproposto il tema del “regionalismo differenziato”, cioè un aumento di poteri dato alle Regioni a statuto ordinario per  meglio adeguare l’azione di governo alle esigenze dei territori. C’è chi pensa che sia un’iniziativa legata al federalismo di stampo leghista, già anticipato con una legge di carattere fiscale che però non ha avuto sostanziale applicazione; anche il centro sinistra avendo sostenuto la riforma del titolo quinto della Costituzione con l’art 116, oltre al decentramento delle competenze dello Stato, proponeva una riorganizzazione istituzionale che valorizzasse le autonomie locali, comprese quelle scolastiche. Forza Italia addirittura optava per la privatizzazione del sistema formativo con la trasformazione delle scuole in Fondazioni. L’unica forza politica che non aveva espresso nessuna opinione al riguardo era Fratelli d’Italia, che oggi si trova al vertice del nuovo esecutivo di fronte alla proposta, ripresa da maggioranza e opposizione.

E’ noto che il principale partito di governo si stia battendo per il presidenzialismo e chissà potrebbe accadere che al vertice si possa avere un concentramento dei poteri nelle mani di un presidente, eletto dal popolo, come in Francia, ma alla base il governo venga attribuito a regioni ed enti locali, come accade in tanta parte d’Europa. Ci sono ancora realtà, soprattutto al sud d’Italia, che temono una penalizzazione in termini di risorse economiche, ma tutte sono ormai d’accordo sul fatto che il centralismo nazionale è sempre meno efficiente e meno equo, perché legato alla spesa storica, secondo parametri astratti e poco aderenti alle vere esigenza dei territori.       

E’ ripartito il dialogo tra il governo centrale e le regioni, attraverso una proposta di legge del ministro per le autonomie regionali, Calderoli, che nel 2009 aveva firmato la legge sul federalismo fiscale, e dopo  tredici anni torna per cercare di mettere un punto fermo sulla questione. I corsi e i ricorsi……Nel frattempo ci sono state alcune timide prove di intesa con il governo Gentiloni, referendum e deliberazioni da parte di alcune regioni in senso positivo, ma altrettante in senso contrario soprattutto al meridione.

La sfida attuale è tenere insieme tutte le istanze, sempre espresse in modo trasversale alle diverse appartenenze politiche, che oltre ad incontri tra centro e periferie sono sfociati in una proposta di legge che possa coinvolgere tutti gli attori istituzionali: governo centrale, regioni e parlamento, e non proseguire per atti bilaterali, come sembrava l’interpretazione della prima ora.

Torniamo all’applicazione del titolo quinto della Costituzione approvato nel 2001, per le materie indicate nell’art. 117,  tra le quali compare l’istruzione, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, che possono essere oggetto di trasferimento in base al predetto art. 116, con un’eventuale azione di sussidiarietà verticale prevista dall’art. 119. Nel quadro di questa legge ci stanno le richieste delle regioni, le quali, sentiti gli enti locali, presentano una delibera in tal senso per arrivare ad un’intesa che può riguardare una o più materie. L’approvazione avviene ad opera del consiglio dei ministri e poi l’intesa sottoposta alle commissioni parlamentari.

Il punto sul quale si è ricostruita l’unanimità delle regioni è la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) la cui prima comparsa si perde nella notte dei tempi, ma che ora è la conditio sine qua non perché l’iter autonomistico possa giungere al termine.  I LEP vengono ritenuti indispensabili per l’istruzione, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali, della salute e nella sicurezza sul lavoro; devono essere stabiliti dal governo nazionale a valere su tutto il territorio della Repubblica. Le risorse finanziarie non sono più stanziate mediante la spesa storica, ma vengono calcolati, com’è noto, i fabbisogni standard e i costi standard, già previsti nella predetta legge sul federalismo fiscale. In questo modo le regioni possono compartecipare al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale. Le funzioni amministrative saranno a loro volta trasferite agli enti locali.

Ogni anno sarà prevista una valutazione dei profili finanziari dell’intesa e la legge statale potrà stabilire in relazione al ciclo economico e all’andamento dei conti pubblici, misure transitorie a carico delle regioni a garanzia dell’equità nel concorso al risanamento della finanza pubblica con contestuale adozione di analoghe misure per altre regioni.

Oltre al nuovo governo l’occasione per affrontare di petto la questione da parte di tutti gli interlocutori istituzionali, a cominciare dal Presidente della Repubblica, è stato il primo festival delle Regioni, un appuntamento che sarà annuale, per fare il punto sull’Italia delle Regioni. Un luogo che esprime la peculiarità territoriale, ma che nell’ambito delle Conferenze offrono un contributo all’unità nazionale: far vivere insieme l’autonomia nell’unità.

La sfida per il futuro dunque è per tutti il nuovo regionalismo e la ricerca di un nuovo pensiero regionalista. Il PNRR vede tra le priorità di intervento trasversale il riequilibrio territoriale e la ripresa del processo di convergenza e di inclusione sociale e territoriale. Nel rapporto EURISPES 2022 si evidenzia che una maggiore autonomia delle regioni è auspicata da due italiani su tre, in aumento rispetto allo scorso anno, mentre un maggior potere al governo non convince la metà degli intervistati.

Siamo dunque all’ultimo miglio ? Maggiori poteri alle regioni è un’operazione ormai condivisa da tutti i Governatori, da nord a sud; tali poteri non hanno intenti destabilizzanti. Tutti si impegnano al rispetto del dettato costituzionale e dei diritti civili e sociali ed alle esigenze perequative, su tutto il territorio nazionale. Un processo da costruire in un’ottica di solidarietà e di interdipendenza, a cominciare dalla definizione dei LEP. E in questo quadro si inserisce anche il capitolo istruzione, senza gridare allo sfascio della scuola italiana, ma ripartendo dalle “norme generali” indicate dallo Stato come previsto dall’art. 117 della Costituzione, da un ordinamento che manterrà il valore dei titoli di studio per tutto il Paese, mentre di deve arrivare alla gestione decentrata dei servizi, comprese le risorse finanziarie che rientrano nel “fabbisogno standard” e del personale, un concorso tra regioni e stato, sia nell’assunzione che nella distribuzione, che già una sentenza della Corte Costituzionale del 2004 aveva sancito, applicando per quanto riguarda il curricolo le norme che già ci sono per la componente nazionale, quella regionale e di istituto, adottando ogni opportuna flessibilità, in modo che vi possa essere una maggiore intesa con le realtà locali ed il mondo del lavoro.    

Si può essere ormai tutti d’accordo che il centralismo deve essere superato, ed è proprio dalle regioni più in difficoltà che deve venire la richiesta di maggiore autonomia, per avere più margini di manovra anche nei bilanci; una volta stabilito il quadro finanziario fra stato e regioni si potrebbero verificare risparmi derivanti da migliori capacità gestionali, il che dovrebbe stimolare comportamenti virtuosi anche nella definizione dei “costi standard”.  L’elaborazione e la gestione del PNRR sono la dimostrazione che anche in questo caso il centralismo non paga e che un maggiore coinvolgimento delle regioni avrebbe da un lato avuto più riscontro rispetto alle esigenze dei territori e dall’altro avrebbero potuto meglio interagire ed aiutare gli enti locali.

Einaudi nel presentare la carta costituzionale diceva che “ognuno dovrà avere l’autonomia che gli spetta”; dopo oltre vent’anni dalla riforma del Titolo Quinto i tempi per una maggiore responsabilizzazione delle Regioni sono maturi da un punto di vista storico e culturale, per un ammodernamento ed un efficientamento delle nostre strutture istituzionali.