Il dimensionamento della rete scolastica

Il dimensionamento della rete scolastica per quale modello di scuola?

di Gian Carlo Sacchi

In passato l’istituzione di una nuova scuola era il risultato di un negoziato tra il ministero centrale e le comunità locali, magari con l’intermediazione dei parlamentari del territorio. Oltre a pochi istituti storici, soprattutto licei, presenti da prima dell’unità d’Italia, la maggior parte fu istituita nel secondo dopoguerra, per assecondare l’ampliamento dell’obbligo scolastico, soprattutto nelle zone rurali, e per lo sviluppo dell’istruzione tecnica e professionale richieste dalle realtà produttive locali.

Il supporto al funzionamento veniva attribuito ai comuni e alle province ed il sistema ha goduto per anni di una certa stabilità. Con l’introduzione della gestione sociale e degli organi collegiali il rapporto tra stato ed enti locali si aprì ad altri contributi, portatori di istanze provenienti dalla società e dall’economia, iquali premevano per introdurre sperimentazioni che soprattutto nella secondaria superiore fecero mutare la fisionomia degli indirizzi. Una stagione di riforme a legislazione invariata alla quale anche il ministero partecipò con proprie iniziative innovative e in non pochi casi ci fu una oscillazione delle iscrizioni e molte scuole aumentarono le loro dimensioni oltre che l’offerta formativa.

Tali modifiche ordinamentali apportarono un notevole aggravio della spesa pubblica che la politica non seppe o non volle utilizzare per espandere il valore dell’innovazione a beneficio di un miglioramento dei rapporti tra formazione e mondo del lavoro o sviluppo dei saperi e delle strategie didattiche; con la riforma Gelmini-Tremonti tutto venne “normalizzato”, consolidando quegli aspetti che proprio riscuotevano un grande interesse sociale, ma con una stretta sugli orari e gli organici, secondo parametri praticamente imposti dal ministero dell’economia.

La stagione dell’innovazione fece compiere un passo in avanti al protagonismo delle scuole, che il ministero cercò in tanti modi di contenere, ma che ebbe un supporto politico da diversi fronti per trasformare la partecipazione in più evidente autonomia. Su questo fronte erano schierati sia coloro che pensavano ad una scuola autonoma come ad un comune, sia chi ne auspicava una prospettiva aziendale. Entrambe le posizioni costituivano una grossa preoccupazione per l’amministrazione scolastica e il compromesso fu l’attribuzione della personalità giuridica ad ogni istituto di qualsiasi ordine e grado in qualunque territorio collocato, ma la decretazione di un’autonomia “funzionale”.

Appena riconosciuta una tale prerogativa vennero stabiliti i parametri quantitativi ai quali le scuole dovevano corrispondere, accorpando abbastanza sommariamente plessi e sedi scolastiche, in modo che al nuovo istituto così formato fosse assegnato un dirigente ed un direttore dei servizi amministrativi. In quel periodoiniziarono momenti di instabilità, relativi al variare della popolazione scolastica sempre più vicina ai limiti massimi, al numero dei docenti sempre in crescita, senza tenere conto delle variazioni che erano intervenute nell’organizzazione degli enti locali, soprattutto per i comuni più piccoli nel frattempo colti dallo spopolamento, nonché dell’abolizione delle competenze originarie delle province.

Che la situazione del continuo riaccorpamento di plessi e sedi scolastiche, anche con indirizzi del tutto disomogenei , non fosse più sostenibile era cosa nota, ma i numeri restavano inflessibili, ed allora sorse lo stratagemma di mantenere le scuole ma senza dirigente/direttore, costringendo questo personale alle così dette “reggenze”, senza o con scarse figure intermedie. Dopo qualche anno le soglie furono abbassate nei comuni montani e nel frattempo progetti innovativi  venivano finanziati dai fondi europei per la coesione territoriale.

L’arrivo del PNRR poteva sembrare risolutivo in quanto prevedeva di ripensare all’organizzazione del sistema scolastico tenendo presente la riduzione del numero degli alunni, ma ponendo altresì il superamento dell’identità tra classe demografica e aula anche al fine di rivedere il modello di scuola. E’ su talemodello che si doveva fare leva per evitare di fare cassa sulla dirigenza; infatti è sulle “scuole nuove”, peraltro messe a bandonello stesso progetto europeo e di cui si cerca la presenza nell’ultimo piano nazionale per l’edilizia che si doveva insistereper riparametrare anche la rete scolastica. Esse dovevano rappresentare da un lato ambienti di apprendimento flessibili per l’esercizio di una pluralità di intelligenze e di metodologie,aumentati dall’uso delle tecnologie e dall’altro strutture inclusive e punti di riferimento per tutta la comunità.

Si tratta di  assumere la densità  degli abitanti per chilometro quadrato come principale indice di riferimento, mentre se ne parla come elemento integrativo al numero degli iscritti, salvaguardando le specificità derivanti dalle istituzioni presenti nelle zone di montagna e nelle piccole isole, come previsto nella legge sui piccoli comuni.      

I parametri indicati dalle recenti politiche di bilancio costituiscono comunque un taglio al numero delle istituzioni autonome, contribuendo ad ampliarne le dimensioni ed il numero dei docenti e costringendo ad una riorganizzazione delle sedi scolastiche che mutano le dirigenze, con un disagio maggiore per le realtà più piccole e fragili.

E’ interessante nelle indicazioni del ministero l’attribuzione alle regioni di un contingente di istituzioni scolastiche che le stesse potranno organizzare autonomamente  senza i parametri legati al numero minimo di alunni. La loro competenza nella pianificazione della rete a livello locale avrebbe richiesto un maggiore coraggio per decentrare completamente anche l’assegnazione del personale, elemento che assieme alla gestione delle risorse finanziarie contribuirebbe finalmente a realizzare la completa autonomia delle scuole e delle amministrazioni territoriali nel settore dell’istruzione.

I provvedimenti appena varati ricalcano ancora un governo centralistico del sistema per quanto riguarda classi e organici che nel corso degli ultimi decenni sono sempre andati calando, ma il mondo cambia e la didattica esige spazi diversi. Non si tratta di fare nuove scuole per coprire le esigenze demografiche, ma proprio la situazione di decremento dovrebbe farci assumere pratiche innovative che in parte il PNRR aveva intrapreso e che rischiano di arretrare. Oggi va riconsiderato lo spazio di apprendimento che non può più coincidere con l’aula e con un numero rigido dei suoi occupanti, ma come ambiente multidimensionale. Non disperdiamo le competenze architettoniche e progettuali messe insieme per le scuole nuove; la scuola può essere un presidio pedagogico ed un elemento di rigenerazione urbana.