Com-Promesso

Com-Promesso
Se “Compromesso” tornasse a significare “Fare promessa insieme”

di Maria Grazia Carnazzola

1- Cominciare dalla Costituzione.

Nella seduta della Costituente del 12 marzo 1947, Meuccio Ruini intervenne come segue “…Che cosa significa in origine compromesso? Vuol dire, nel suo etimo, che parecchi fanno promessa insieme, assumono un impegno, stipulano un patto…Vi è bensì un senso deteriore… ed è il baratto, il mercato, la combinazione oscura di interessi, non di idee…”. Togliatti sottolineava al proposito “…Per me si tratta…della ricerca di quella unità necessaria per poter fare la Costituzione non dell’uno o dell’altro partito, non dell’una o dell’altra ideologia, ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e, quindi, di tutta la Nazione”.

Leggendo gli atti della Costituente, emerge forte la consapevolezza della necessità di un confronto incessante, di un dialogo dove ciascuno rivelava la propria identità e cercava i tratti comuni con quella altrui, anche se il tema delle tre culture- liberale, cattolica e socialista- rimaneva ben presente nel dibattito e si ritrova negli interventi di Croce, Einaudi, Orlando- per fare qualche esempio- dove le differenze sono palesate senza ambiguità nella ricerca del compromesso, inteso come individuazione di terreni comuni a partire dalle diversità delle esperienze dell’antifascismo, della memoria dei tempi e dei luoghi della Resistenza e della Liberazione. Le polemiche dure, l’uso preciso delle parole negli scambi e negli incessanti confronti, testimoniano del livello politico e culturale dei protagonisti e della moralità di una politica che nessuno considerava operazione di breve respiro o riflesso di situazioni contingenti, ma fondativa di una democrazia il cui principio di maggioranza non virasse verso la sopraffazione. Nel rispetto delle libertà e dei diritti di tutti. In un momento storico confuso e svilito come quello che stiamo vivendo, dove i richiami strumentali alla Costituzione sono continui e contradditori, spesso veicolati con parole che segnalano la difficoltà della politica a fornire quelle indispensabili funzioni di governo, a contenere e regolare le istanze e gli interessi di parte che via via emergono dalla società, sarebbe necessario e urgente agire per il bene comune, con particolare attenzione ai due settori che maggiormente incidono sul futuro di un Paese: la salute e l’istruzione.

2- La ragione e il torto

Il pericolo è che la dimensione del diritto si concretizzi nell’astrazione, nella logica delle geometrie istituzionali che confondono la sovranità del popolo con quella dello Stato dando ai diritti individuali solo un carattere riflesso. In questi ultimi giorni siamo stati inondati di informazioni dissonanti sui fatti del liceo Michelangiolo di Firenze. Al di là delle polemiche, dello schierarsi con chi dirige quella scuola- e ha pensato di esercitare il proprio ruolo nel richiamare l’attenzione degli studenti su fatti accaduti – e la visione diversa che su tutta la vicenda ha espresso il titolare del Mim, una considerazione: la ragione ce l’hanno entrambi e non ce l’ha nessuno. Credo sia necessario concentrarsi più che sulle posizioni dell’uno o dell’altro, sulla soglia di intolleranza e di violenza che viene vissuta come “normale” in molti ambienti da giovani e meno giovani. Un’aggressione è un’aggressione, che venga da destra o da sinistra. E’ come se si fosse persa contezza delle conseguenze che possono derivare da certi comportamenti, come se il rapporto tra le vite individuali, le dinamiche generali e quelle interpersonali sfociassero nel “passaggio all’atto” senza mediazione né comprensione. E’ un passaggio cruciale, se si pensa che la centralità e l’interezza della persona possano continuare ad essere il senso politico, culturale e pedagogico della scuola, dell’istruire-formare-educare in una realtà in cui il fine stesso della costruzione di strumenti di cittadinanza confligge con i processi sociali e culturali in atto. La mancanza di un’educazione di un certo tipo nei primi anni da parte della famiglia lascia ampio spazio alla “pedagogia del branco” in adolescenza, quando – lo aveva chiarito bene la teoria dello sviluppo psicosociale di E. Erikson- è il desiderio di identificarsi con il gruppo dei pari a prevalere, con tutto ciò che questo comporta. È la fase evolutiva in cui sono più evidenti le trasformazioni legate alle identità di genere e ai cambiamenti motivazionali che chiedono al mondo adulto un supporto per imparare a guardarsi, a riflettere sulle proprie azioni e sulle proprie emozioni e arrivare a volersi bene. A scuola questo può avvenire attraverso un maggiore coinvolgimento nella strutturazione delle forme della didattica, nella negoziazione delle regole che governano la vita della classe come primo modello del funzionamento degli organismi sociali e della loro gestione, nel riconoscere la valutazione del proprio apprendimento mantenendo con l’adulto un consapevole contratto pedagogico- nei limiti e nel rispetto dei diversi ruoli -, nel riconoscere la responsabilità del proprio apprendere come diritto-dovere costituzionale. A scuola si va per dovere, ma anche per passione perché lo studio, ogni tipo di studio, deve essere fatto seriamente, comporta fatica e la fatica si fa per qualcosa che piace, interessa, soddisfa, altrimenti alla prima salita si lascia. Vale anche per gli insegnanti: si può insegnare scrupolosamente per senso del dovere, possiamo adempiere a tutti i compiti, ma senza passione si è già finito di essere insegnanti.

3- Per trovare il senso: Moriah, perché non sei stato Moriah?

Un Midrash- breve racconto di interpretazione esistenziale ebraica- racconta: Rabbì Moriah usava dire “Nel mondo a venire non mi sarà chiesto perché non sei stato Mosè, perché non sei stato Abramo, ma mi verrà chiesto: Moriah perché non sei stato Moriah?” Questo è il problema che vivono i nostri ragazzi e giovani e di cui il sistema di istruzione-formazione- educazione deve farsi carico, con gli strumenti e con i fini che istituzionalmente sono attribuiti.

Le responsabilità della scuola cominciano proprio dal non saper promuovere nei giovani alcuna consapevolezza in merito alla natura della conoscenza e del suo rapporto con l’agire. Conoscenza di sé, delle norme, delle consuetudini sociali, della cultura, dell’organizzazione politica e amministrativa, delle responsabilità e dei diritti. Senza parole non c’è diritto. “Non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza” sosteneva J. Searle, il filosofo per il quale il “dire” presuppone un impegno di verità e di correttezza verso i destinatari sia nel pubblico sia nel privato: è un dovere dell’etica civile. Se parlare e scrivere in modo chiaro e comprensibile, in ogni campo e ad ogni livello, ha attinenza diretta con la strutturazione del pensiero e con la qualità del ragionamento, fondamentali per l’esercizio di una cittadinanza attiva, emergono chiare le responsabilità della scuola. “Il numero delle parole conosciute e usate è direttamente proporzionale allo sviluppo della democrazia e all’eguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica” (Zagrebelsky). La ricerca scientifica, medica e criminologica, dimostra che i ragazzi più violenti possiedono strumenti linguistici carenti e inefficaci- sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi- che ricadono sulla capacità di nominare le cose e le emozioni incidendo sul controllo della realtà e di sé stessi. Chi non sa dare un nome alla sofferenza la agisce, volgendola in violenza. La ricchezza del lessico e la qualità delle parole accrescono il dominio sulle cose che accadono e diventano potere politico, per questo devono essere garantite da una scuola, uguale per tutti, che si chieda anche il significato della cancellazione/sostituzione delle parole e delle conseguenze che ne deriveranno sulla possibilità di comunicazione chiara, precisa ed efficace. La progressiva perdita di aderenza delle parole ai concetti e alle cose è un fenomeno diffuso- in forme a volte sottili e nascoste, a volte palesi- contrabbandate come progresso sociale dall’ideologia dominante. Forse aveva ragione Humpty Dumpty quando, rivolgendosi ad Alice , sosteneva che quando si ha a che fare con le parole, una cosa sola conta: chi comanda. Certo è che la tendenza a fare un uso delle parole ideologico e non storiografico può portare alla perdita del significato originario di fatti e vicende che sarebbe bene conservare, o quando, all’opposto, si strumentalizza ambiguamente la parola- magari sfruttando l’eco emotiva che risuona- per distorcere il significato di un evento e confonderlo con altri, sperperandone il vero valore. Bisognerebbe chiedersi perché si tenda a far passare l’idea che la difesa della Costituzione sia appannaggio di una certa parte politica: la Costituzione è di tutti e la riflessione sui contenuti deve tenere conto che non è solo un documento giuridico, un insieme di regole di livello molto alto, ma nelle intenzioni di chi l’ha scritta doveva essere un momento essenziale di costruzione dell’identità di un popolo e del riconoscimento reciproco di forze e di tradizioni diverse. Partecipare non è sinonimo di parteggiare, se non si riflette sui significati la parola diventa trappola, sostiene ancora Zagrebelsky. Dovremmo averlo sempre ben presente a scuola perché insegnamento, apprendimento e cultura si basano sulla circolazione di parole che sono il mezzo che permette di leggere criticamente l’esistente, guardandosi intorno. È l’eterno problema dell’osservatore/osservato e del rapporto tra mondo/conoscenza che chiama in causa due delle” Cinque chiavi per il futuro”- ( Gardner) di cui ogni individuo ha bisogno per essere cittadino libero e autonomo: l’analisi e la sintesi. Operazioni entrambe importanti ma di per sé insufficienti, la prima più praticata della seconda a scuola. L’analisi riguarda la scienza, smonta la realtà in pezzetti sempre più piccoli, con specializzazioni crescenti per guardare sempre più in profondità la natura fino nei minimi dettagli. E’ il mondo delle scienze dure, dell’enciclopedismo, dei big-data, dell’algoritmo, le cui regole non sono applicabili al mondo delle scienze umane che sono per loro natura sintetiche, tengono insieme i “pezzi” dell’analisi restituendo loro significato e vitalità, componendo e strutturando le reciproche relazioni attraverso la lingua. Il paradigma relazionale riguarda la complessità, limitando la frammentazione e l’eccesso di astrazione, ricomponendo ragionamento e affettività, significato e senso. Ricomporre significa partire dall’esperienza e ricondurre all’esperienza, alla vita vissuta, a quello che c’è, per come è per prendersene cura. E prendersi cura è diverso da curare, per restare sul tema relativo al significato delle parole e delle realtà che evocano. Da qui, ancora una volta, la necessità di innalzare il livello di istruzione per una piena -e necessaria- partecipazione alla vita pubblica ed evitare che qualcuno si dichiari sacerdote di una nuova fede intollerante verso visioni diverse del mondo (Dorato).

4. Crocevia dell’educazione: la centralità della vita

Le fiabe non dicono ai bambini che esistono i draghi: i bambini lo sanno che esistono. Le fiabe dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti”. Questa citazione, che è la rielaborazione posta in esergo a N. Gaiman- Coraline- da G.K. Chesterton, può essere usata come spunto di riflessione e punto di partenza per pensare a un modello nuovo di scuola, che parta dalle criticità dell’esistente per delineare un percorso che affronti i problemi fondamentali dell’essere umano, individuo e cittadino, nella globalità del mondo e dell’universo, “…a cominciare dalla conoscenza percettiva fino alla conoscenza tramite parole, idee, teorie, credenze…” (Morin, 2015,p. 12). A cominciare dalle criticità che il mondo dell’educazione palesa, puntando sui punti di forza che ci sono, basta cercarli evitando di cadere ogni volta nella pedagogia del lamento. Andare a scuola è un lavoro ed è un privilegio, richiede partecipazione e sforzo da parte di chi insegna e di chi impara, richiede passione e coinvolgimento e la soddisfazione per il lavoro che ciascuno fa. La conoscenza ha senso solo se consente di confrontarci con le cose essenziali che ci riguardano- che sono ciò che viviamo-, con i significati più o meno evidenti delle cose che appartengono al vicino e al lontano, al reale e all’immaginario, al presente e al passato, alla superficie e alla profondità. Di questo si parla quando si fa riferimento ai sentimenti, che derivano dalle emozioni che ci riconducono alla biologia del nostro essere viventi. Basterebbe rileggere Carlo Sini, Antonio Damasio, o Maturana o Von Foerster… autori che, partendo da orizzonti diversi, convergono su questo punto con linguaggi e argomentazioni differenti. Alla superficie (l’informazione) appartengono i significati, la descrizione dei fatti, l’evidente. Il senso invece va oltre la neutralità della superficie, si collega alle esperienze soggettive, dirette o apprese, alla sfera emozionale di ciascuno: va in profondità, usa l’indagine, l’analisi, la comprensione che in sè è sintesi. Si può andare in profondità tutti insieme ma non tutti allo stesso modo, né nello stesso tempo, né alla stessa profondità. L’importante è fare in modo che nessuno si limiti alla superficie: è compito dell’educazione, dell’istruzione, della formazione. La profondità della conoscenza richiede un tempo non contratto, un insegnamento flesso sull’apprendimento di ciascuno, che spinga alla riflessione su ciò che si vive, all’associazione con ciò che è stato, alla prefigurazione di ciò che sarà. Richiede di riconoscere che il processo di apprendimento (l’imparare) postula uno sforzo da parte dell’allievo, e non solo talenti ereditati, sottolineando nel contempo la responsabilità dell’insegnare, partendo dall’improvvisa consapevolezza di dover spiegare qualcosa che l’abitudine e gli automatismi facevano sembrare ovvio. La capacità di stupirsi delle cose semplici e della complessità del mondo per progredire nella conoscenza, l’aveva già segnalata Platone in tempi non proprio recenti.

I bambini sanno che i draghi esistono, ne hanno sentito parlare, quello che non sanno è come possono essere sconfitti, hanno bisogno che qualcuno insegni loro come lo possono fare e come può essere fatto. Vale per i bambini, per gli adolescenti, per i giovani. Ma può valere anche per gli adulti e per gli anziani ogni volta che il cambiamento modifica l’organizzazione del tempo e dello spazio e, di conseguenza, il modo di organizzare l’esistenza: non sempre è facile gestire la propria biografia in un ambiente nuovo o con strumenti che non si posseggono e non sempre è sufficiente – come sostiene Z. Bauman- proteggere la propria sicurezza emotiva. Non a caso tra apprendimento e identità intercorre una relazione strutturale che rende possibile, anche se non sempre facile, l’avvicinamento alla complessità che connota il mondo contemporaneo. Compito della scuola nei confronti delle nuove generazioni è quello di “educare istruendo”, ciò è possibile solo se si dà un senso all’acquisizione delle conoscenze- procedurali e dichiarative- per la promozione delle competenze che sono necessarie per vivere (Soft Skills for Life, OMS 1993) e non solo per le prove di verifica; questo è il senso della componente di sviluppo affidata dalla Costituzione alla scuola (art.3). Tutte le abilità affettive, sociali, cognitive e metacognitive costituiscono per ciascuno un patrimonio unitariamente funzionale al vivere e all’ orientarsi nel tempo e nello spazio, nelle scelte e nelle esperienze private e sociali, valutando secondo criteri definiti. Criteri – di discriminazione, di giudizio, di scelta- che se appresi nei percorsi scolastici, permettono di valutare i comportamenti, i fatti, i soggetti, le situazioni reali di vita, di riflettere sulla stessa soggettività dei criteri, sulle conseguenze diverse che comporta la scelta dell’uno o dell’altro. Scegliere da che parte stare secondo un criterio, in un litigio tra amici, in una discussione familiare, in una situazione dove c’è un forte e c’è un debole; o quando sarebbe comodo astenersi come nel caso dei grandi temi che riguardano i diritti sociali- come la morte medicalmente assistita, la questione dell’aborto o per altro verso la cancel culture- sono esercizio di pensiero critico e di cittadinanza, possono aiutare a non cadere nel tranello della contrapposizione tra libertà e sicurezza, tra diritti civili, diritti sociali e interessi personali perché sono interconnessi. Una grande giurista- Lorenza Carlassare recentemente scomparsa- si chiedeva a che cosa servisse la libertà di espressione e di stampa se poi la gente non ha i soldi e gli strumenti per accedere all’informazione. Riflettere sulla complessità è anche questo: vedere le relazioni tra le cose, tra passato e presente, tra vicino e lontano, tra mio e tuo. Costruire criteri per scegliere autonomamente cosa è bello e cosa non lo è, cosa utile e cosa no, cosa va rivendicato e cosa no diventa fondamentale per non fasi irretire dal canto delle sirene. Nel mondo complesso e disorientante i criteri esplicitati sono bussole, i propri e quelli degli altri: la scelta postula la valutazione, così come la valutazione postula i criteri; lo sviluppo del pensiero critico, di cui tanto di parla, richiede che si offrano occasioni e situazioni concrete, anche controverse, in cui esercitare questi criteri, facendoli entrare nella pratica didattica quotidiana e non solo nelle parole, in quegli aspetti che più fanno emergere le componenti educative. È il metodo che mette in evidenza il progetto educativo, la gerarchia di valori, la coerenza delle scelte e dei comportamenti, le logiche di progettazione in relazione ai bisogni effettivi che non esistono in astratto ma sono situazioni di vita. I contenuti di insegnamento, le strategie didattiche, le modalità di lavoro, la strutturazione delle attività, le modalità di relazione non ne costituiscono altro che aspetti diversi di continuità di pratiche esercitate in molte situazioni di insegnamento/apprendimento su contenuti disciplinari diversi, in situazioni di realtà diverse.

5. La politica per la Scuola: l’agenda delle priorità.

Certo è che la conoscenza che non distingue tra il necessario e il marginale, che confonde i mezzi con i fini, gli strumenti con i contenuti, diventa mera accumulazione di nozioni, non serve e può generare- come giusta difesa- atteggiamenti di rifiuto e di rigetto. La conoscenza è la forma del sapere che selezioniamo per comprendere il mondo, per orientare il nostro cammino verso il futuro, scegliendo tra il sapere che ci permette di confrontarci con le cose essenziali che ci riguardano, come i sistemi valoriali, le dinamiche relazionali, le forme e le dimensioni culturali. Dobbiamo riconoscere che spesso la società privilegia il sapere accessorio, secondario, spesso legato alla visibilità, al tornaconto, al nuovo e che la Scuola, spesso, segue questa prospettiva. Serve, invece, una conoscenza che costruisca competenze riconducibili all’autoefficacia, alla cittadinanza, che permetta a ciascuno di orientarsi nelle scelte di studio e di lavoro, nelle scelte etiche della propria esistenza che si svolge in questo tempo e in questo spazio, ma che è la rappresentazione significativa di altri tempi e di altri spazi, passati e futuri. Ma sapere cosa? E sapere come? E sapere perché? E cosa significa scegliere criticamente? Se è vero che la scuola deve educare al sapere parziale, proponendo i metodi e i contenuti delle singole discipline, deve farlo intenzionalmente ponendo al centro i problemi del mondo contemporaneo, la loro conoscenza per una equilibrata comprensione. Tutto è pratica di osservazione delle cose, di sé, degli altri, dei saperi che sono senso comune prima di diventare teoria: in questo senso il pensiero critico altro non è che il diritto di dubitare. Concetti come sviluppo sostenibile e sottosviluppo, diritto alla salute, biotecnologie, differenze di genere, globalizzazione e democrazia, informazione e comunicazione, tecnologie e metaverso (che per ora non esiste e di cui non c’è una definizione condivisa), fondamentalismi e guerre… ci propongono situazioni che ci riguardano, che coinvolgono le nostre esistenze nel quotidiano ponendo problemi reali. Il presente deve essere reso conoscibile senza depurarlo dalle ideologie, dagli interessi di parte che riguardano i partiti- e non dovrebbero riguardare la politica-, ma che costituiscono il “rumore di fondo” che induce errori di lettura e di valutazione, come descrive bene D. Kahneman. Ci sono errori occasionali e errori strutturali, errori amplificati da gruppi di potere, giudizi inadeguati a causa di bias cognitivi o da altre distorsioni del pensiero, emotive o motivate. Il rumore si riduce con l’accuratezza delle comunicazioni, non con l’espressione emotiva. Proprio per questo- credo-, per limitare la discrezionalità nelle formulazioni del testo, la bozza della Costituzione fu affidato dalla Costituente al linguista P. Pancrazi per la revisione, perché le parole e le affermazioni contenute fossero chiare nel significato e, per quanto possibile, interpretabili univocamente.

6. Concludendo.

L’acquisizione delle abilità per comunicare in forma orale e scritta, costituisce la base della costruzione del pensiero critico e della capacità di utilizzare la lingua in modo positivo e socialmente responsabile, argomentando e veicolando con frasi evolute e sintatticamente corrette pensieri lucidi e chiari. È un diritto/dovere privato e pubblico che riguarda tutti, in quanto cittadini ma anche in quanto persone, individui che intendono far valere le proprie ragioni, rendendole ben strutturate e chiare per essere comprensibili agli altri- ma prima ancora a se stessi- e produrre quei riscontri pratici che non possono essere affidati alla sola coerenza logica, per dirla con C.S. Peirce. Il confronto con qualsiasi tipo di testo- orale o scritto- comporta il passaggio dalla decifrazione, alla comprensione, all’interpretazione; quest’ultima rappresenta il punto più profondo del confronto col testo perché consente di comprenderne il senso, che altro non è che la reazione – a vari livelli- che i significati del testo possono provocare. Tornando alla Costituzione, sottolineo la necessità che la politica cerchi e trovi territori comuni per pensare il futuro del Paese e del popolo- che esprime pensieri e sensibilità diverse- perchè chi è al governo e chi è all’opposizione, sulle grandi questioni come la sanità e la scuola, trovi spazi di convergenza. In una società pluralistica non può esistere una sola idea di bene pubblico, così come non può esistere una sola idea di scuola. Per questo, se si vuole davvero costruire un sistema di istruzione-formazione- educazione che raccolga le sfide della contemporaneità e dia respiro a un futuro che non sappiamo come sarà, c’è bisogno di un patto sociale, di un compromesso che metta al centro i principi e i paradigmi di un sistema da gestire, su una linea di continuità dall’alternanza degli schieramenti di partito, fino a quando saranno proficuamente praticabili. Un patto da costruire partendo dai problemi e dal confronto sull’efficacia delle soluzioni ipotizzate, partendo dai valori di riferimento- i traguardi ideali su cui si regge la coesione sociale- passando per i problemi e per i bisogni, per finire con le risposte da dare.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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