Senza riforma dell’istruzione la ripresa è uno slogan

da Il Messaggero

Senza riforma dell’istruzione la ripresa è uno slogan

 Giorgio Israel

«L’economia è un sistema sociale creato dalle persone per le persone». Qualsiasi opinione si abbia del pensiero del Nobel per l’economia statunitense Paul Krugman, è difficile non sottoscrivere questo aforisma. Eppure per molti l’economia è un mondo di transazioni tra “agenti” regolato da procedure formali che si sono create da sole e il cui fine è sé stesse, cioè di ottimizzare alcuni parametri: un fine che definisce anche il comportamento “razionale” degli “agenti”. Parlare di “persone” quando si tratta di economia è quasi un vezzo ridicolo e desueto. Si parla piuttosto di “capitale umano”. Si proclama che questa è la società della conoscenza, ma intendendo che le conoscenze e le competenze del capitale umano sono un “valore aggiunto”, per giunta misurabile (anche se nessuno ha un’idea seria di come si possa fare). Anche il miglioramento dell’istruzione è ridotto a un parametro quantitativo: creare altro valore aggiunto.
Questo linguaggio burocratico è divenuto così stucchevole che ogni “persona” che non si consideri solo un’utilità marginale, dovrebbe offendersi nel sentirsi definire “capitale umano”. Quanto precede non è una chiacchiera passatista ma è pertinente alla nostra situazione: elezioni da cui dipendono le sorti del Paese nel mezzo di una crisi senza precedenti e in cui latita un linguaggio rivolto alle persone per dir loro quale idea di società, quali progetti positivi si vogliono perseguire, tali da suscitare il coraggio di affrontare sacrifici. Inquadrando la soddisfazione dei parametri economici come sottoprodotto di questi progetti e non come loro essenza. È poco concreto dir questo? L’autentica astrattezza è credere che un Paese possa riprendersi mentre i suoi cittadini vegetano depressi e senza prospettive, affidati passivamente alle cure di chi ne sa. Si parla molto di “ripresa” e “sviluppo”, ma quale sviluppo economico può darsi se la società non è animata in profondità da forze vitali, se non crede in sé stessa, se non si muove verso fini positivi, verso sfide da vincere per un futuro migliore? Come avrebbe potuto riprendersi e realizzare il “miracolo economico” un’Italia devastata dalla seconda guerra mondiale e immersa nella cultura contadina, senza l’esplosione della voglia di fare, della creatività che caratterizzò quegli anni? Nessun piano Marshall sarebbe bastato.
Si parla continuamente di futuro, ma il futuro sono i giovani ai quali, invece di offrire progetti capaci di suscitare interesse e anche entusiasmo, si riservano epiteti come “bamboccioni”, “sfigati” o “choosy”, come se questi difetti non fossero quelli della società vuota di valori in cui li abbiamo messi. Prendiamo il caso dell’istruzione, di cui molti non vogliono parlare perché è un tema “noioso”. Le agende elettorali, nello scarso spazio che gli concedono, sono desolanti fotocopie su cui domina il mantra di un vacuo managerialismo. “I numeri da cambiare”, è intitolato uno dei più corposi documenti prodotti in materia. Quale curioso ossimoro declinare la “società della conoscenza” in termini di numeri! Qui, altro che numeri, si tratta di definire i contenuti di un’istruzione capace di formare una generazione che faccia restare il Paese sulla scena mondiale. Allora si capisce che la vera questione è che ruolo pensare per il futuro del Paese. Forse non vi è molto futuro in una competizione con i Paesi asiatici nel produrre magliette e sarebbe meglio puntare su una cultura tecnologica avanzata che permetta di avere un ruolo nella riorganizzazione dell’ambiente, delle comunicazioni, dell’energia nei Paesi emergenti. Ma, se così è, l’istruzione va pensata nei termini di qualificazioni elevate e la ricerca va pensata in grande, non riducendo le università a centri studio per la piccola e media impresa. Invece, siamo impantanati tra ricette tecnocratiche numerologiche, o che surrogano l’assenza di idee con le agende digitali, e la demagogia delle scuole come “centri civici”.
La “spending review” nella sanità e nell’istruzione ha indicato dove conduca l’assenza di progetti: a penalizzare indistintamente centri di eccellenza e realtà mediocri, perché i criteri puramente statistici sono ciechi e astratti. La sanità è un altro dei grandi temi del Paese che non ha senso affrontare in termini di “razionalizzazione” e “tagli” senza una chiara idea preliminare di quale tipo di sanità vogliamo. È inaccettabile che si gabelli come scelta tecnica una modificazione della natura della sanità, introducendo surrettiziamente forme di privatizzazione senza che ciò discenda da una decisione di merito. Il che significa affrontare di petto l’idea del welfare che vogliamo avere nel futuro. E non si dica che di questa tematica si discute, perché le riflessioni in materia troppo spesso si concentrano nei due poli dell’ideologia e della tecnocrazia. Più in generale, non si dovrebbe considerare che l’idea del Paese futuro non può prescindere dal fatto che le principali risorse che l’Italia possiede sono i beni culturali e ambientali? Non sarebbe quindi prioritario, per stimolare lo “sviluppo”, formulare tanti grandi e piccoli progetti che mobilitino le persone suscitando la passione di fare qualcosa autenticamente interessante? Né è possibile dimenticare che una delle qualità caratteristiche del lavoro italiano da difendere e sviluppare è la capacità di produrre cose “belle” e artistiche, il che riconduce ancora al tema della cultura.
Non continuiamo con gli esempi perché al lettore ne verranno in mente tanti da poter riempire pagine. Forse non è troppo tardi perché in questa campagna elettorale le forze politiche riescano a suscitare l’interesse dei cittadini parlando di progetti autentici e di contenuti, anziché propinare ideologia o snocciolare cifre previsionali che, com’è noto, non hanno alcuna credibilità, soprattutto se presentate come una sorta di andamento “naturale” del processo economico. In fin dei conti, vi è bisogno non di meno ma di più politica, beninteso della politica nel senso nobile del termine.