C. Bukowski, Post Office

Charles Bukowski, come nella vita

di Antonio Stanca

   Per conto della casa editrice TEA, su licenza dell’editore Guanda, è da poco comparsa, tradotta da Simona Viciani, un’edizione speciale di Post Office, primo romanzo dello scrittore e poeta statunitense Charles Bukowski. Lo pubblicò nel 1971 quando, a cinquantuno anni, aveva lasciato definitivamente il suo lavoro presso gli Uffici Postali della periferia di Los Angeles ed era stato assunto per sempre dalla casa editrice Black Sparrow.  Il romanzo avrebbe avuto molto successo e con questa casa editrice Bukowski avrebbe pubblicato in volume non solo le opere venute dopo, altri romanzi, racconti, poesie, ma anche quanto, brevi lavori, appunti, riflessioni, ricordi, note, saggi, era comparso in precedenza su giornali locali.

   Bukowski è nato ad Andernach, Germania, nel 1920 ed è morto a San Pedro, California, nel 1994. Qui, nella periferia di Los Angeles, i genitori, lei tedesca, lui americano, si erano trasferiti quando Charles aveva due anni. Qui era cresciuto, aveva studiato fino all’Università e nel 1944, a ventiquattro anni, aveva cominciato a scrivere, soprattutto racconti. Non erano stati notati e l’autore si era messo a vagabondare tra diversi stati americani. Aveva svolto diversi mestieri, aveva cominciato a darsi all’alcol, al sesso e non si era fermato neanche quando, rientrato a Los Angeles, aveva fatto il postino. Irregolare, ribelle era risultato il suo rapporto con l’ufficio, spesso ripreso, ammonito, multato era stato finché non si era giunti, intorno agli anni ’70, al licenziamento. Il nuovo lavoro presso la casa editrice sembrerà apportare qualche beneficio nella vita, nella condotta di Bukowski ma si tratterà di una fase transitoria e ben presto l’alcol, le donne, con le quali sarà sempre difficile distinguere il tipo di legame che correva, e il gioco alle corse dei cavalli torneranno a riprendersi gli spazi principali della sua vita. Una vita disordinata, improvvisata, priva di certezze anche se altra, diversa l’avrebbe voluta. Soffriva Bukowski per quanto non riusciva ad ottenere, per quella pace, quella stabilità che continuavano a mancargli ma che non aveva modo di procurarsi, di far rientrare tra le sue cose e rimasto sarebbe a desiderarle invano, a vivere d’altro. Ne avrebbe patito ma non al punto da negare la sua condizione. L’avrebbe accettata come la più vera fino a farne il motivo, il tema principale della sua scrittura, il carattere dei suoi personaggi. L’intera opera, composta soprattutto da racconti e poesie, i romanzi sarebbero stati soltanto sei, è impegnata a dire di quella che in realtà era stata la sua vita, delle difficoltà delle quali non aveva saputo liberarsi, delle abitudini, dei vizi che aveva accumulato quasi fossero delle scelte, delle volgarità nelle quali era caduto, dei piaceri ai quali non aveva saputo rinunciare. È la vita di quella periferia americana dove Bukowski era cresciuto: tanto di volgare, di violento, di aggressivo vi faceva parte e tanto ha trovato posto nelle sue opere. Non si può negare che non siano percorse da aspirazioni diverse, da propositi, credenze di altro genere ma lo stato nel quale hanno preferito rimanere è soprattutto quello del mondo, della vita che avviene ai margini, che va alla deriva. E Post Office, proprio perché il primo romanzo di questo autore, sembra voglia preannunciare la sua maniera, la sua tendenza, la sua scrittura. Vi si dice di quanto lungo e complicato era stato il suo rapporto con le poste di quella periferia, di come gli risultassero difficili i modi, i tempi, gli scambi con l’ufficio, con il personale, di come l’alcol e il sesso avessero finito col rappresentare una soluzione o almeno un sollievo. Di sé scrive non solo in questa ma in tutte le sue opere Bukowski. Autobiografico è il suo genere narrativo. Ha sempre molto da dire, rimane sempre un disagiato, un escluso, non si acquieta mai il suo scontento, non si colma mai il suo vuoto. Non c’è, però, una lingua che si dispera ad esprimere tanto travaglio poiché facile, chiara vuole essere la lingua di chi scrive, scorrere vuole, far apparire un fenomeno naturale quanto sta dicendo. Non c’è alterazione nella forma espressiva, è una lettura che piace quella di Bukowski, è abilità la sua: letteratura riesce a fare anche di quanto non lo è!