LEP, l’autonomia tra Scuola e Territorio

L’AUTONOMIA TRA SCUOLA E TERRITORIO I LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI

di Gian Carlo Sacchi

L’autonomia da che costituiva un miraggio per il nostro ordinamento politico e istituzionale ed anche scolastico sta diventando un tabù da esorcizzare, da che si pensava che bisognasse intervenire sulle specificità dei vari territori se si voleva davvero raggiungere un’autentica parità fra i cittadini, in quanto lo statalismo burocratico aveva provocato disuguaglianze e inefficienza, oggi si crede che sia l’autonomia a generare disparità di trattamento e la politica scolastica possa rischiare di passare dal controllo statale a quello regionale.

L’autonomia delle regioni e degli enti locali ha interessato un po’ tutte le parti politiche nella storia delle nostre istituzioni, ma oggi sembrano preferirsi battaglie politiche a caccia di consensi piuttosto che cercare percorsi parlamentari che consentano di garantire i diritti di tutti, migliorare i servizi, il che significa poi applicare la Costituzione.  

La società democratica ha fatto leva sull’autonomia dei corpi intermedi per procurare sviluppo ed equità sociale, su di essa ha basato l’organizzazione delle proprie istituzioni; l’introduzione delle regioni a statuto ordinario, il riordino degli enti locali, il decentramento delle competenze statali verso gli enti territoriali, una   pubblica amministrazione che assumeva competenze di indirizzo lasciando quelle di gestione, fino ad arrivare all’autonomia delle istituzioni scolastiche chiamate a progettare e realizzare compiti di carattere educativo, instaurando i valori della democrazia centrati sulla partecipazione.

Il decentramento però non venne portato a compimento e questo intralciò la costruzione di un “sistema” delle autonomie. Per la parte relativa all’Istruzione non fu applicata la riforma del dettato costituzionale e questo non favorì la visione sociale che era stata introdotta nella scuola dagli organi collegiali; i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), che il sistema scolastico doveva assicurare a tutti i cittadini, erano la garanzia di equità lasciando poi alle realtà territoriali il compito di interpretare le esigenze locali e di fornire adeguate risposte, in vista del raggiungimento dei risultati (livelli e standard) richiesti a livello nazionale. Fu emanato un complesso di norme in merito alle competenze degli enti territoriali sulla scuola, ma alla fine risultò vincente la riorganizzazione sul campo dell’amministrazione scolastica, che si pose come interlocutore di regioni ed enti locali e come rappresentanza delle scuole pur essendo dichiarate autonome ed assunte a tal riguardo nel predetto testo costituzionale.

La nuova Costituzione lasciò una via di fuga, l’art. 116, che poteva essere invocato da quelle regioni che volevano più autonomia, attraverso un’intesa con lo Stato. Il centralismo infatti è rimasto inalterato e riesce ancora a governare il sistema, nonostante il succedersi di diverse maggioranze politiche, che nel frattempo ha assunto un carattere molto diversificato e che richiede, pur all’interno di una visione complessiva nazionale, una certa flessibilità gestionale, decentrata, per assumere le richieste potenziali e le criticità dei territori.

Partiamo dai divari territoriali nell’apprendimento, questo non può essere risolto solo con dei piccoli investimenti sul recupero delle competenze generali degli alunni (piano sud, piano nord, ecc.), rimane necessario un intervento più consistente, magari come quello ipotizzato del Forum delle disuguaglianze, una vera education prioritaire, che oltre ai finanziamenti ammetta diverse velocità nell’organizzazione del sistema, in vista di un riavvicinamento nei risultati.

Pensiamo poi alla recente operazione di dimensionamento delle scuole autonome fondata esclusivamente sul decremento demografico e non su una concertazione tra stato e regioni: una tale azione guidata dal ministero dell’economia ha di fatto scontentato tutte le realtà regionali, portatrici di istanze legate al territorio, senza poi arrivare a soddisfare le esigenze amministrative ipotizzate come ad esempio quelle di contenere il numero delle reggenze dei capi di istituto. Anche la gestione del personale mostra delle grosse criticità per quanto riguarda un’unica sede di programmazione e di distribuzione sui territori; fin dal 2004 la Corte Costituzionale aveva dichiarato legittimi gli interventi delle regioni nell’assegnazione dei docenti, ma fin tanto che si procederà con l’autorizzazione annuale del contingente di personale da assumere, guardando più al bilancio dello stato che non alle esigenze del territorio, il precariato è destinato a continuare all’infinito. Che dire di un organico statale alle dipendenze funzionali delle regioni con organici di istituto poliennali?

A questa stregua poi assistiamo ad iniziative locali, tipo i patti educativi territoriali in Lombardia o i progetti integrativi alle pluriclassi della scuola primaria finanziati ai comuni dell’appennino emiliano-romagnolo, che il ministero accetta e che a loro modo assumono già il carattere di autonomia differenziata. Allora la legge recentemente approvata porta con sè elementi di criticità che vengono da lontano superando i quali si potrebbe dare stabilità al sistema, come avviene in quasi tutti i Paesi europei dove la scuola e la formazione sono governati a livello locale, anche la dove sono i responsabili dello stato a farlo.

Il problema fondamentale dunque è la definizione dei LEP, soprattutto per quel che riguarda il primo ciclo di istruzione. Tali livelli forniranno garanzie ai cittadini ed avranno bisogno di più risorse di quelle che vengono erogate attualmente per i diversi servizi, anche nelle regioni che hanno scarsa capacità fiscale. Per il secondo ciclo l’attenzione va posta sull’istruzione tecnica e professionale, come richiesto dal PNRR ed in relazione alla riforma recentemente approvata. Qui i LEP sono già indicati dagli EQF (competenze necessarie per le qualifiche professionali europee) che insieme alle competenze di cittadinanza daranno la possibilità al nostro sistema di confrontarsi e collaborare con gli altri in Europa.

E’ questo il tema scelto da tutte le regioni che chiedono maggiore autonomia anche per tentare un raccordo tra gli istituti statali e i centri di formazione professionale regionale. Istruzione tecnica e professionale per migliorare il rapporto domanda-offerta di formazione in relazione al mondo del lavoro, flessibilità dei curricoli per essere in grado di interpretare da un lato la realtà produttiva del territorio e dall’altro il cambiamento culturale e tecnologico costantemente in atto, un personale docente proveniente dalle imprese (come negli ITS academy) e tirocini che aumentano gli ambienti di apprendimento. Certo obiettivi difficili da raggiungere quanto ad orari, materie e classi di concorso, e vedremo se l’impresa sperimentale del ministro Valditara (4+2) andrà a buon fine o sarà azzoppata come accaduto con l’organico di potenziamento individuato dai dirigenti scolastici.

Alla fine non si tratta solo di temere le discriminazioni tra ricchi e poveri, ma di impegnarsi tutti affinchè vi sia crescita economica nel Paese e quindi i LEP abbiano ad aumentare il valore; forse uscire dall’assistenzialismo fa bene e l’autonomia può migliorare l’iniziativa dei territori e quindi arricchire il sistema nel suo complesso a patto che nessuno resti indietro.

E’ lo Stato che deve definire i LEP, prima di procedere alle intese con le regioni, al fine di stabilire le modalità di finanziamento dell’intero comparto ed entrare nelle nuove competenze decentrate,  prevedendo eventuali contributi statali.

Intanto che sono allo studio le modalità di definizione dei LEP per l’intero sistema, alcuni provvedimenti offrono esempi di indicatori che impegnano lo Stato medesimo a garantire livelli di prestazione su tutto il territorio nazionale. Sul fronte delle politiche educative per l’infanzia ad esempio è stata recepita l’indicazione del Consiglio Europeo del 2002 (Barcellona) circa il raggiungimento del 33% di copertura della popolazione sotto i tre anni di età per quanto riguarda i servizi educativi per l’infanzia, con l’obiettivo di raggiungere il 75% di copertura dei comuni.

Lo stato italiano recepì tale indicazione (D. Leg.vo 65/2017) e con altri provvedimenti ha cercato di rendere i servizi distribuiti a livello regionale e comunale, dal momento che sono gli enti locali ad occuparsi della loro gestione: tutta la progettualità del PNRR per quanto riguarda i nidi e gli altri interventi per la prima infanzia infatti ha chiamato in causa soprattutto i comuni.

Con la legge 234/2021 la predetta percentuale è stata assunta come LEP, e l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza chiarisce che esso deve assicurare in tutte le scuole un servizio universale con costi coperti per il 50% dalla fiscalità generale: devono garantire i diritti soggettivi di chiunque si trovi in una determinata condizione e un’offerta in ogni realtà territoriale di un dato numero di abitanti.

L’obiettivo di copertura del 33% costituisce un primo step di implementazione e pone le basi per una successiva evoluzione per tutti i bambini nella fascia di età da 0 a 36 mesi; la legge di bilancio del governo Draghi prevedeva al riguardo uno stanziamento crescente di anno in anno fino a stabilizzarsi sulla cifra di un miliardo e cento milioni annui, per aumentare così il numero dei posti negli asili nido, garantendo la prosecuzione della riforma.

Nel documento strutturale di bilancio inviato a Bruxelles dall’attuale Governo, nelle linee di azione dei servizi per la prima infanzia, si intende garantire che le strutture per tale periodo educativo abbiano una disponibilità di posti pari ad almeno il 15% del numero dei bambini sotto ai tre anni, a livello regionale. Il governo abbassa il LEP, l’unico fissato finora, la nuova legge modifica la precedente e l’indicazione europea del 33% di posti rispetto alla popolazione di bambini aventi diritto, superando anche il livello locale, comune per comune. Questo risparmio penalizza ancora una volta il mezzogiorno: Sicilia, Calabria e Campania sono circa attorno al 10% di copertura, mentre solo quattro regioni: Valle d’Aosta, Umbria, Emilia Romagna e provincia di Trento raggiungono il 33%

A questo punto diverse possono essere le conclusioni: in primis che nella prossima legge di bilancio si cerchi di abbassare il LEP o rimodularne il riferimento territoriale; inoltre che i LEP devono fare i conti con lo stato di salute della finanza pubblica, e solo se il Paese cresce ci saranno margini di miglioramento continuo e di valorizzazione qualitativa degli stessi LEP. Infine, se le cose stanno così, cioè mancano le risorse, anche solo per replicare la spesa storica, non solo saranno mantenuti i divari territoriali, con l’impossibilità di rideterminare la “quota capitaria” che conferisce al sistema una maggiore equità, ma ci sarà rischio di far naufragare la stessa autonomia differenziata.

Si ha l’impressione che il tema dell’infanzia subisca un arretramento e si distanzi ancora di più dagli standard europei, lasciando alcune regioni a godere di vantaggi acquisiti per effetto di politiche sospinte dalla società civile e dal mercato del lavoro, mentre altre considerano tali servizi ancora a domanda individuale, con un governo centrale che di fatto le inquadra nelle politiche di welfare: accontentiamoci del bonus nidi, per le famiglie bisognose.