Il Magister e i suoi nemici

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Il Magister e i suoi nemici

di Giovanni Fioravanti

Stando all’intervento della professoressa Loredana Perla, su La Stampa del 30 luglio scorso, le Nuove Indicazioni, uscite dal lavoro della commissione da lei presieduta, sarebbero il prodotto di un “riformismo culturale”. Cosa intenda la nostra pedagogista per riformismo culturale non è dato sapere, ma si presume, dalle sue stesse parole, che si tratti di un qualcosa che ha di mira “la scuola cognitiva”, “la scuola dell’istruzione”, che non sarebbe stata in grado di rispondere alle domande fondamentali della vita come solo il Magister con il suo carisma può suscitare nei suoi allievi. Spiega che l’alternativa progressista della “scomparsa dell’insegnante” e “dell’insegnamento tradizionale” non ha funzionato, e questo fenomeno avrebbe iniziato a diffondersi come un virus nelle nostre scuole già sul finire degli anni 80 del secolo scorso.

Per questo invoca, a conclusione del suo intervento, “la rigenerazione di paradigmi culturali che restituiscono agli insegnanti e al loro ruolo fondamentale il posto che meritano”.

Ci troviamo di fronte all’uso di due espressioni assai impegnative: “riformismo culturale”, “paradigmi culturali”. Ragionando, i paradigmi culturali dovrebbero precedere il riformismo culturale, perché si presume che quest’ultimo sia al servizio dei modelli culturali che si vogliono diffondere. Ma quali siano i modelli non vengono esplicitati. Da chi discendono? A cosa fanno riferimento? Chi sono i “maggiori suoi”?

Dal pensiero della Perla, suffragato dal “buon senso” dell’ultima fatica del ministro Valditara, appare chiaro che riformismo e paradigmi culturali sono tutto fuorché la scuola progressista, la quale avrebbe i suoi connotati nell’abolizione dello studio del latino alle scuole medie e nella “Lettera ad una professoressa” dei ragazzi di Barbiana.

La qualcosa può andare bene per la vulgata, per far vendere libri alla professoressa Paola Mastrocola, ma non certo per chi ha in mano le sorti del nostro sistema formativo.

Perché quel Magister a cui vogliamo restituire centralità e autorevolezza di cosa lo nutriamo? Di quale cultura professionale deve essere dotato per divenire autorevole punto di riferimento di generazioni e generazioni di allievi?

È il Magister di cui scrive Ivano Dionigi  per cui la scuola la fanno i maestri e non i ministri come affermava  Manara Valgimigli?

Pare tutto il contrario: Magister è colui che è in grado di realizzare l’idea di scuola che coltivano Valditara e la Perla unitamente alla loro combriccola. Ma non funziona così.

Basterebbe possedere un po’ di cultura della scuola per non cadere in un simile, madornale errore.

Quel che succede sul finire degli anni ’80 del secolo scorso e inizia a far spirare aria nuova in una scuola chiusa su se stessa ha un’altra storia che nulla ha a che vedere con espressioni totalmente vuote di significato come “scuola progressista”, “pedagogia progressista” o “alternativa progressista”, che usate da chi si occupa di scuola denunciano solamente una profonda carenza di cultura professionale.

Una storia che ha il suo inizio tra gli anni 60 e 70 del secolo scorso, quando la formazione degli insegnanti, in particolare quella dei maestri, in una scuola ancora fortemente gentiliana, era affidata prevalentemente alla pedagogia tradizionale, alla pedagogia intesa soprattutto come riflessione filosofica sull’alunno e sul come si deve insegnare.

Ma negli stessi anni si sviluppa l’idea che l’educazione deve essere studiata in modo più scientifico, in particolare secondo un approccio interdisciplinare e fondato sull’attività d’aula. Si diffondevano i contributi  delle scienze umane e, dunque, l’educazione non poteva che abbeverarsi al loro apporto, in particolare alla psicologia, alla sociologia, all’antropologia, alla didattica, alla storia dell’educazione, in sintesi nascevano le scienze dell’educazione. Le scienze dell’educazione non cancellano la pedagogia, ma la riscattano dal suo vassallaggio filosofico, integrandola in un progetto più ampio, in grado di affrontare le sfide educative moderne con strumenti scientifici, interdisciplinari e orientati alla prassi.

La società moderna richiede risposte pratiche, fondate sui dati per affrontare problemi educativi reali: dispersione scolastica, diseguaglianze, bisogni educativi speciali, formazione degli insegnanti.

Le scienze dell’educazione permettono di progettare interventi educativi efficaci, basandosi su ricerche empiriche, non solo su teorie normative o ideali astratti.

A livello internazionale, l’approccio scientifico e multidisciplinare all’educazione si è affermato come standard, nei sistemi anglosassoni si parla di educational sciences o education studies. L’Italia ha seguito questa tendenza, soprattutto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, con la riforma dei corsi universitari.

Nel 1970 Einaudi pubblica La psicologia del bambino, scritto da Jane Piaget con Bärbel Inhelder, ma già qualche anno prima il lavoro dello psicologo svizzero è oggetto di studio nelle facoltà di magistero più avvertite, come quella di Padova.

Nel 1966 Armando pubblica Dopo Dewey: il processo di apprendimento nelle due culture di Jerome Bruner. Sempre nel 1966 Giunti-Barbera pubblicherà Pensiero e linguaggio di Lev Semënovič Vygotskij. Opere che iniziano a girare tra i giovani insegnanti, nelle università, preparando una classe docente che entra a lavorare nella scuola accanto alle generazioni precedenti formate al pensiero di Gentile e di Giuseppe Lombardo Radice. Portatori di paradigmi culturali nuovi che dovranno attendere i programmi per la scuola elementare del 1985 per trovare piena accoglienza e costituire la cultura professionale di nuove generazioni di maestri. Ma la scuola rimarrà sempre la stessa, salvo aggiustamenti apportati per far fronte a una spinta sociale orientata al rinnovamento attraverso l’istituzione dei nidi, delle scuole dell’infanzia, del tempo pieno, dell’integrazione dei portatori di handicap nella scuola di tutti.

Si diffondono anche pensieri eretici per la matrice gentiliana coniugata all’umanesimo integrale di Jacques Maritain della scuola italiana. Come la pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, come la scuola apparato di Stato di Luis Althusser, come il pensiero del sociologo francese Pierre Bourdieu sulle diseguaglianze educative.

La sociologia dell’educazione si nutre delle opere di Émile Durkheim e di Basil Bernard Bernstein, l’antropologia culturale dei lavori di Margaret Mead e di Bronisław  Malinowski.

Ho voluto tracciare solo a grandi linee il profilo di un vero rinnovamento culturale, ben più ricco dei contributi e delle letture di tantissimi autori fondamentali per le scienze dell’educazione, che ha costituito la formazione professionale di una parte importante del corpo docente, che se non è riuscito a cambiare radicalmente il nostro sistema formativo ha però indubbiamente contribuito a fornire una base scientifica alle pratiche d’aula e al rapporto tra docenti e alunni. Un filone culturale che si è nutrito sempre di nuovi apporti, fino al pensiero di Edgar Morin da cui poi sono scaturite le Indicazioni curricolari del 2012.

Certo una cultura democratica e progressista, una cultura che guarda avanti e non in dietro, una cultura prodotto della ricerca continua, della capacità di fornire risposte alla complessità dei tempi che viviamo e che vivranno le nuove generazioni. Nessuna semplificazione, nessuna etichetta, ma l’impegno a misurarsi con nuove domande e nuovi interrogativi, che solo l’incapacità a fornire risposte può indurre a invocare il passato e ripiegare su di esso mostrando la propria fragilità e impotenza intellettuale.

Questo è ciò di cui oggi si tratta, ciò che realmente ci troviamo di fronte, che tenta di sottrarsi alle proprie responsabilità riparandosi dietro allo scudo dei danni causati dalla scuola progressista, che nessuno ha mai visto. Ciò che abbiamo veduto è l’impegno a studiare, a conoscere, a formarsi in modo permanente di tanti insegnanti, consapevoli di essere spesso disarmati di fronte ai problemi quotidiani da affrontare, mentre affabulatori senza cultura cianciano di riformismo culturale, di paradigmi culturali privi di ogni consistenza scientifica, teorica e pratica. Laudatores temporis acti fuori dal tempo che hanno scoperto l’usato sicuro, la cultura del passato, incapaci di concepire la cultura del futuro.