R. Catalano, Patto di fedeltà

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PATTO DI FEDELTA’ … L’AUTOBIOGRAFIA DI UNA GENERAZIONE?

di Carlo De Nitti

Intrigante fin dal titolo, Patto di fedeltà, questo primo romanzo della scrittrice barese Roberta Catalano, edito a Lecce, per i tipi di Besa, nella collana “Nuove lune”. L’Autrice, un’eccellente e stimata docente liceale di lettere moderne, invero, è già ben nota per le sue due raccolte di poesie: L’amore di una donna (Firenze 2008) e Ritratto di umana materia (Firenze 2010). I due termini – ‘patto’ e ‘fedeltà’ – che Roberta Catalano mette in relazione (una sorta di genitivo soggettivo), sono consustanziali tra loro: se c’è fedeltà, di cui va ricordato l’etimo nella parola latina fides, fede, non può che esserci un patto/pactum (il patto può essere non scritto, se no, sarebbe un contratto), come suo punto di imputazione. Esso rafforza la dimensione etica dell’empatia tra i ‘contraenti’ (in primo luogo, se stessi/e, fratelli/sorelle, cugini/cugine, genitori/figli, amici, maestri/discepoli, colleghi, alleati, perfino avversari).

Attraverso i dieci capitoli, non numerati e non disposti in ordine cronologico rispetto alla narrazione, del volume (Zona di confine, Due sorelle, Saper leggere la realtà, Via Venezia, Terra, sei troppo prodigiosa perché, Qualcuno ti comprenda, Gemma a Parigi, Areski Laroum, La vita sognata, Elena), la protagonista del romanzo, Gemma, racconta in prima persona la storia della sua famiglia prima che la sua ed, in particolare, quella dell’infanzia della sua mamma, Elena Iolanda (due nomi non casuali, regnando la dinastia dei Savoia) Carmela, vissuta in una ‘zona di confine’ tra la porta di casa di una famiglia semplice, quella di Peppino e Rocca, suoi genitori, nel borgo antico di Bari ed il cortile – luogo archetipo, ormai scomparso, dell’educazione / socializzazione delle bambine e dei bambini – “Il cortile era una specie di agorà, la piazza pubblica della popolazione dei bambini […] Il cortile era la libertà dall’ordine che vigeva nella comunità familiare, ma anche la disciplina dettata dalla legge stabilita dai bambini, che esigeva rispetto e adattamento, pena la denigrazione o addirittura l’esclusione dal gruppo” (pp. 27 – 28). Come spesso i bambini, anche Gemma vuole scomparire per far focalizzare su di sé le attenzioni della famiglia: “La sola idea che mia madre mi stesse cercando, che fosse in ansia per me, che le mancassi, mi rendeva una felicità che non mi era mai balenata prima, e si stava realizzando senza che io lo avessi immaginato […] Scomparire significava smontare tutta l’impalcatura di me stessa, consentirmi di farla crollare per lasciarmi andare verso una deriva, come se naufragassi dopo una tempesta” (pp. 30 – 31).

Elena Iolanda Carmela dà una svolta alla sua vita vissuta in una ‘zona di confine’ intorno ai diciassette anni “quando suo fratello Alfredo, era entrato nell’Arma dell’Aeronautica Militare, la portò ad una festa organizzata nel salone dei ricevimenti dell’aeroporto di Bari” (p. 16). In quella circostanza, incontrò l’uomo della sua vita, il padre di Gemma, con cui si sposò dopo sei mesi: “Dopo un anno sposati dai miei genitori nacque una bambina. Io non c’ero, ma quella bambina sì. Venne alla luce dopo molte ore di travaglio e non pianse, perché qualcosa non era andato per il verso giusto […] la testa era rimasta là, stretta in una morsa che l’aveva tenuta bloccata troppo a lungo, interrompendo anche quel flusso di materia stellare che scatena il pianto, quando esci dall’involucro di un grembo e inizi a respirare da solo” (pp. 19 – 20).

 Personaggio psicologicamente complesso e di grande fascino, quello della protagonista del romanzo, Gemma: nei rapporti con la sorella, con il fratello più piccolo, con la madre, con il padre, con la città natale, con la città di elezione, con il fidanzato ‘parigino’ Areski, di origine berbera della Cabilia, con la nonna. Anche tutti i deuteragonisti hanno una loro notevole complessità: la madre, felice solo nell’inatteso explicit del volume, il padre con un comportamento ed una vita ancipite (serio militare e marito violento), il fidanzato, intimamente diviso tra la vita parigina e la cultura berbera di provenienza.

Gemma vive pienamente il suo tempo di vita, che ella, figlia dei postumi del ’68, fa coincidere con suggestioni marcusiane: “Erano gli anni ’70: gli anni della contestazione giovanile, della musica pop e rock, dei figli dei fiori, in Europa si votava il primo Parlamento europeo, veniva varata la legge sul divorzio. Erano gli anni del compromesso storico e del rapimento di Aldo Moro ed erano gli anni di Marcuse, del suo concetto di ‘uomo multidimensionale’ che affermava che ci sono altre dimensioni dell’esistenza umana oltre a quella al servizio della produttività e del lavoro. Dimensioni come il piacere e il godimento insieme agli altri, che dovrebbero essere gli obiettivi naturali dell’essere umano” (pp. 62 – 63).  In questo contesto, Gemma matura la propria decisione di e-vadere dalla sua città natale, trasferendosi in quel di Parigi come jeune fille au pair, per completare la sua crescita umana e personale e per maturare la capacità di leggere la realtà in modo autonomo e critico. Dopo il ritorno nella sua Bari e la delusione del fidanzato mai arrivato in città a raggiungerla, Gemma decide di ricominciare, ritornando a Parigi e ripartendone subito, dopo aver subito un tentativo di violenza sessuale: ”Sentivo la necessità di un bosco, un’altra sconosciuta, ma questa volta senza alcun confine. Non avevo tenuto fede al mio proposito di seguire la forma delle nuvole […] Ma questa volta no sarei tornata indietro, piuttosto mi sarei smarrita definitivamente nel bosco” (p. 142). E’ in una dimensione onirica tra passato e futuro, tra Bari e Parigi, la Gemma che si ferma in un bosco dell’Alta Savoia ed in cui vede in sogno un orso che la abbraccia. “Era venuto dalla profondità del tempo a portarmi il potere degli antenati […] Una voce familiare mi parlava, confusa tra le voci del bosco” (p. 145). Era la voce dell’amata nonna Rocca che, nel bosco di Modane, le propone un gioco di immaginazione/guarigione (si vedano le affascinanti pp. 146 – 149). “Raggiunsi la stazione di Modane e aspettai il primo treno per Bari. Le persone mi guardavano come se fossi uno yeti, ma lo yeti ha nello sguardo una tristezza indicibile, pari soltanto alla desolazione delle terre inospitali in cui si muove. Invece io, nonostante il mio aspetto, sentivo come sente un essere umano che ha oltrepassato la zona di confine del suo passato e finalmente sente di poter accogliere tutto […] Ero pronta a decidere quale direzione dare a me stessa. Il cielo era di un azzurro limpido, senza nuvole. Ed io, nel mio aspetto da yeti sorridevo alla realtà” (pp. 149 – 150). Gemma tiene fede al suo ‘patto di fedeltà’ con se stessa, con la sua vita e con le sue idee…

Leggere Patto di fedeltà di Roberta Catalano mi ha particolarmente coinvolto anche perché la storia mi è prossima: è ambientata nella città in cui sono nato, vivo da sessantacinque anni ed opero nel mondo della scuola da quaranta. La protagonista, Gemma, è una mia coetanea, che ha vissuto la città nei miei medesimi anni giovanili e che ha frequentato il milieu universitario che ho vissuto io nello stesso tornio di tempo (si veda p. 93). Gemma avrei potuto incontrarla in ogni luogo della nostra città, ma soprattutto in quello spazio più circoscritto ed identitario delle aule e dei corridoi del Palazzo Ateneo.

Gemma, nella mia esperienza di lettore ‘semplice’, non è solo un personaggio profondo, venuto fuori dalla feconda creatività di Roberta Catalano, ma potrebbe essere stata una mia vicina di casa, una mia conoscente, una mia compagna di studi universitari (con cui mi sarebbe piaciuto discutere di francofortesi, ma anche di ‘filosofare dal basso’, di fenomenologie e di marxismi ‘aperti’), una collega, una mia amica …

Sempre grato a chi meritoriamente me l’ha fatta incontrare nelle pagine di questo bellissimo volume, tutto da leggere e meditare!