L’Italia che investe poco su scuola e formazione

da l’Unità

L’Italia che investe poco su scuola e formazione

Ilrapporto annuale Ocse «Education at a Glange» punta il dito contro le scarse risorse cheil nostro Stato destina all’educazione

BENEDETTO VERTECCHI

P er molti anni la pubblicazione di Education at a Glance (il rapporto annuale che l’Ocse dedica all’educazione) è stata l’occasione che ha consentito a troppi improvvisati soloni, e ad esperti ancora più improvvisati, di tuonare contro gli sprechi di pubblico denaro che sarebbero propri del modo di funzionamento delle nostre scuole. Per altri versi, era sempre l’Ocse a segnalare, tramite i rapporti periodici relativi alle rilevazioni Pisa (Programme for International Student Assessment) che i risultati mediamente conseguiti nelle prove di apprendimento avevano raggiunto livelli petroliferi, che ci vedevano solidamente attestati nelle posizioni di coda per quel che riguardava aspetti qualificanti del profilo culturale, come la capacità di comprensione della lettura, le competenze matematiche e quelle scientifiche. L’effetto combinato dei rilievi critici presenti in Education at a Glance e dei bollettini di Caporetto costituiti dai volumi di presentazione e commento dei dati Pisa è stato di offrire la parvenza di un fondamento di ricerca alle scelte malthusiane di politica scolastica che hanno caratterizzato i governi che si sono succeduti dall’inizio del secolo. In pratica, la scuola è stata accusata di dilapidare risorse senza assicurare al Paese la qualità attesa nell’educazione di bambini e ragazzi (ricordo che le rilevazioni Pisa riguardano i quindicenni scolarizzati: danno perciò un’idea riassuntiva del repertorio di cultura che si osserva alla fine dell’istruzione obbligatoria). L’edizione 2013 (che può essere scaricata all’indirizzo www.oecd. org), pur conservando un’impostazione teorica per la quale le scelte educative sono considerate subalterne rispetto a quelle economiche, giunge a conclusioni abbastanza diverse. Non solo non si rilevano più gli sprechi ravvisabili nelle condizioni di funzionamento in precedenza oggetto di più severa attenzione (per esempio, il numero complessivo degli insegnanti o il numero degli allievi per classe), ma si segnala la limitatezza delle risorse che caratterizza l’impegno pubblico per l’educazione.

ZITTITI I SOLONI Non è un caso che alla pubblicazione del rapporto 2013 abbia fatto riscontro un silenzio inconsueto da parte dei soloni prima menzionati, e che, al contrario, certi rilievi critici siano stati colti e apprezzati proprio da quanti, in precedenza, rifiutavano associazioni troppo semplici tra i dati relativi al funzionamento e quelli descrittivi dei risultati. Non è un buon segnale quello che deriva da un confronto che si sviluppa sulla conformità o meno dei dati rispetto alle scelte contingenti di politica scolastica, perché quella che emerge è solo la povertà delle interpretazioni. Purtroppo, è quel che accade in Italia. Non c’è stato quell’impegno per lo sviluppo della ricerca educativa interna che avrebbe consentito sia di far corrispondere il governo del sistema a ipotesi di sviluppo sostenute dalla conoscenza dei fenomeni, sia di trarre reale vantaggio dalla partecipazione alle rilevazioni e alle comparazioni internazionali. È quindi accaduto, e continua ad accadere, che quel poco di elementi descrittivi sul funzionamento del sistema e sui risultati dell’attività provengano da progetti che rispondono a logiche piuttosto diverse da quelle che il nostro sistema scolastico dovrebbe perseguire. Sono, infatti, soprattutto logiche tese a porre in evidenza le ricadute in tempi brevi dell’attività educativa, mentre il nostro sistema scolastico, al pari di molti altri, è soprattutto orientato (o, almeno, lo era) a favorire nei processi educativi la comune acquisizione dei repertori culturali necessari per caratterizzare il profilo dei cittadini nell’intero corso della vita. All’enfasi posta sui risultati a breve termine si oppone l’impegno a favorire processi di adattamento che continuino a dispiegarsi nel corso della vita. L’aridità di una cultura immiserita dalla rincorsa di un’utilità immediata finisce col sopraffare la possibilità di sviluppare un disegno educativo volto ad accrescere la comprensione. Bisogna superare la tendenza al manicheismo che il più delle volte si manifesta quando si affrontano questioni educative. I rapporti dell’Ocse non sono, in sé, portatori d’interpretazioni, non importa se positive o negative, ma sono occasioni per avviare una riflessione sostenuta soprattutto da considerazioni che si riferiscono ad aspetti specifici del funzionamento e della cultura delle nostre scuole. Per esempio: si potrebbe osservare che i livelli degli apprendimenti scientifici sono migliori quando gli allievi hanno maggiori opportunità di verificare tramite pratiche di laboratorio (reale, non virtuale!) ciò che loro si propone di apprendere. In Italia, è raro che ciò accada. Anzi, in troppe scuole le dotazioni esistenti sono state dismesse. SCELTEIDEOLOGICHE È difficile negare che si sia trattato di una scelta ideologica: non c’era ragione per affermare che i vecchi laboratori (che potevano essere aggiornati) dovessero essere sostituiti da soluzioni alle quali si riconoscevano qualità didattiche non dimostrate, ma accreditate per l’alone di modernizzazione che le circondava. È evidente che se ci fosse stata una ricerca interna di qualche dignità non si sarebbe stati esposti, come si continua a essere, al condizionamento esercitato da ideologie antagoniste della cultura dell’educazione. E si avrebbero elementi per cogliere la continuità tra l’evoluzione in atto nel nostro sistema educativo e quella che parallelamente si riscontra altrove.