Perché dobbiamo insegnare ai ragazzi il digitale

da Wired
03 ottobre 2013

Perché dobbiamo insegnare ai ragazzi il digitale

Nel mondo di smartphone, Google e Twitter, la scuola vive nel passato, tra vocabolari di carta e gessetti. E i tablet servono a tutto tranne che a studiare. Ecco il punto di vista di un padre

di Paolo Giovine

Paolo Giovine, padre e fondatore dell’azienda che trasforma i libri in app PubCoder, proprio non ci sta. Le sue figlie già navigano nel mondo digitale, tra tablet e YouTube, mentre la scuola va ancora avanti a gessi e vocabolari di carta. E ci racconta perché è necessaria una vera e propria educazione.

Accompagno le mie figlie a scuola ogni mattina, e rivivo rassicuranti scene del mio passato: cartelle di piombo, il diario, la gomma, il temperino. Leggo i programmi del doposcuola e trovo i classici: judo, atletica, canto, argilla. Mia madre (la nonna) si presenta trionfante con un vocabolario da 1,5 kg, la nipote di 9 anni (una mia figlia) ha eluso la mia vigilanza e ha chiesto di procurarglielo (era l’unica a non averlo ancora deposto trionfalmente nell’armadietto anni 60).

Poi l’incantesimo svanisce, Edmondo De Amicis saluta commosso gli alunni che garruli deambulano verso il focolare, le creature si spossessano del grembiale e afferrano un tablet; ma non per studiare, giammai.

Giammai perché le ragazze possiedono svariati libri di testo a norma, ovvero dotati di apposita sezione online; sezione che consiste in uno sfogliatore di un pdf, utile come una banana nel tubo di scappamento: sono eserciziari, quindi sarebbe necessario poter interagire e fare delle cose; la tecnologia ci sarebbe, ma dato che nessuno protesta…

Giammai perché io volevo dotare la novenne di un iPod Touch con annessi dizionari, ma la cosa l’avrebbe emarginata all’interno della classe: è strano, si può essere emarginati per la stessa cosa che ti rende popolare appena varcata la soglia dell’aula, cosa che la rende molto simile ad un luogo di culto. La scuola oggi è un po’ questo, un luogo dove si celebra la messa, ma non per un gruppo di credenti, convinti e ferventi, ma per una maggioranza distratta che partecipa alla sua liturgia. Ci si va, con la convinzione che non serva a granché, ma che sia un passaggio obbligato; per il paradiso o per quel tempo in cui, finalmente o purtroppo, ci si dovrà occupare di imparare davvero qualcosa di utile.

Esaspero il concetto, lo ammetto. Le mie figlie hanno ottime insegnanti, la scuola è fantastica, tutti si immolano per il bene comune. Ma il punto non è questo. Il punto è che ci si deve occupare della schizofrenia galoppante tra tempo scolastico e resto della vita; a scuola gessetti, a casa smartphone; a scuola Ippolito Nievo, a casa Twitter. A scuola nessuno insegna il linguaggio dei computer, quello che già usano oggi (non le vedete che pinchano per vedere Peppa Pig su YouTube a tutto schermo?); a scuola nessuno spiega il page rank di Google, i network, come usare WordPress, Photoshop, Pubcoder (!). E questo oggi è un problema, e non è tecnofilia, è pragmatismo: non ce la faremo, seppur genitori consapevoli, da soli a colmare vuoti così giganteschi; e rischiamo di allevare una generazione di autodidatti, di improvvisatori, che, fatte salve poche virtuose eccezioni, finirà con l’essere emarginata in un mondo che guarda al futuro con occhio almeno contemporaneo.

Non voglio le Lim, voglio i contenuti; ieri il fondatore di Twitter e il leader dell’Iran si sono scambiati due messaggi, il mondo cambia anche se difendiamo il sogno dell’educazione idillica, tra una cetra ed un sonetto declamato sul lucente fiume.

Si fa un gran parlare di innovazione, di imprenditorialità, di startup: e allora tocca raccontare ai bambini di terza elementare come è fatto il computer o il telefono del papà, che cos’è un social network, come funzionano le cose, che cosa significano. Serve superare il tabù, e smetterla di celebrare la stessa vecchia funzione in latino.