Manca la formazione permanente Come si spendono i due miliardi europei?

da Corriere della Sera

ITALIA FANALINO DI CODA PER L’oCSE

Manca la formazione permanente Come si spendono i due miliardi europei?

Strategie per riqualificare gli ultra-cinquantacinquenni. Ma nessuno controlla

Andrea   Gavosto, Fondazione Agnelli

L’indagine Piaac dell’Ocse sulle competenze degli adulti ha messo in luce, in tutta la sua drammaticità, il ritardo del nostro Paese nelle competenze linguistiche e matematiche nei confronti dei paesi più avanzati. Il divario interessa tutte le fasce d’età ma è particolarmente accentuato nella popolazione al di sopra dei 55 anni, che manifesta serie difficoltà a effettuare operazioni relativamente semplici, come la comprensione del “bugiardino” di un medicinale,dell’etichetta di un prodotto al supermercato, per non spingersi a un semplice grafico su un quotidiano o su un sito d’informazione.

Il risultato non è sorprendente: in Italia l’istruzione e la formazione continuano a essere concentrate nella fase iniziale della vita di una persona – quindi a scuola o all’università – mentre viene dedicata pochissima attenzione alla formazione e all’aggiornamento continui (il lifelong learning), che riguardano proprio la popolazione adulta.

Si tratta di un modello non più adatto ai tempi: in un mercato del lavoro in così rapida trasformazione, pensare di poter campare sul bagaglio di competenze acquisito all’inizio della propria carriera è velleitario. I dati sono preoccupanti: in Italia solo il 5,7% della popolazione è coinvolto in programmi di formazione permanente, contro una media del 9% in Europa e punte superiori al 15% in tutti i paesi nordici. La situazione peggiora ulteriormente se guardiamo agli adulti sopra i 55 anni, la frangia con le minori competenze: appena il 2,4% partecipa a piani formativi, rendendo l’Italia il fanalino di coda europeo. Eppure, anche tralasciando l’investimento dei privati, le risorse per il lifelong learning non mancano: il Fondo sociale europeo stacca ogni anno un assegno di oltre 2 miliardi di euro, oggi gestito dalle Province; inoltre, a ciascuno di noi viene trattenuto lo 0,3% della retribuzione, per una cifra di oltre 750 milioni, per finanziare i programmi di formazione gestiti in larga misura dai fondi paritetici interprofessionali, a cui partecipano i sindacati e le associazioni dei datori di lavoro.

Quello che manca del tutto è una valutazione dell’efficacia di questi interventi. A chi si rivolgono: lavoratori che hanno necessità di apprendere nuove skills o casalinghe che frequentano i corsi di rammendo? Che competenze creano? Aumentano la probabilità di trovare lavoro, di continuare a svolgerlo efficacemente, di fare carriera? Determinano un miglioramento della produttività? Valgono i soldi pubblici spesi o si limitano a mantenere un’industria della formazione? A questi quesiti oggi non siamo in grado di rispondere: sarebbe opportuno che il Ministero del welfare e le Regioni avviassero una seria riflessione sui programmi di formazione continua. Anche perché l’unico modo per colmare il ritardo italiano nella lifelong learning è di convincere i soggetti interessati della sua utilità.