Scuola a 5 anni, il no degli esperti

da Corriere della Sera

Scuola a 5 anni, il no degli esperti

«Meglio le classi flessibili». «Ci vuole autonomia nelle scuole»

CARLOTTA DE LEO

Cinque o sei? C’è anche chi dice, addirittura, quattro. Il dibattito su quale sia l’età giusta per iniziare la scuola vera e propria si arricchisce in queste settimane grazie a una lettera aperta pubblicata dal The Daily Telegraph. A firmarla 127 esperti (importanti professori, educatori, psicologi e politici) britannici che si dicono contrari alla proposta di riforma del governo Cameron che vorrebbe anticipare l’entrata in classe già a quattro anni. Ne è nato un vero e proprio movimento, «Save Childhood movement», che chiede addirittura di posticipare l’inizio delle elementari per non creare «profondi danni» allo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino, anche perchè in Gran Bretagna c’è una valutazione rigorosa già all’inizio del percorso scolastico.

SCENARIO VARIABILE – Ci sono però  esperti britannici che guardano con attenzione al Nord, in particolare verso la Finlandia e la Svezia dove i bimbi iniziano l’istruzione formale a sette anni. In Europa, come rilevato dal network Eurydice, lo scenario è variabile: in Irlanda del Nord, per esempio, si entra in classe già a quattro anni e la scuola primaria dura in tutto sette anni. In Gran Bretagna, come a Cipro e Malta, finora si inizia a cinque. Il gruppo più numeroso è quello che ha scelto i sei anni per l’entrata in prima elementare: Francia, Germania, Norvegia, Spagna, Austria, Belgio. E Italia. Ma al di là delle soglie di ingresso, esistono diversi livelli di flessibilità commisurati allo sviluppo del bambino.

GUELFI E GHIBELLINI – In Italia il dibattito è aperto e si attorciglia sull’ipotesi di anticipare l’ingresso a scuola a cinque anni. «Ci dividiamo in guelfi e ghibellini Senza considerare già oggi più del 90% di bambini frequenta l’ultimo anno di materna. E quindi ha un ambiente di apprendimento già conosciuto», spiega il direttore della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto. Ma la questione non riguarda solo l’anno di nascita. «In Gran Bretagna non conta tanto l’età, ma le capacità. Il bambino frequenta classi diverse in base al suo grado di conoscenza: per esempio può essere avanti in matematica e più indietro in inglese. Noi abbiamo un impianto differente: in classe tutti la stessa età e fino alla fine del ciclo di studi – aggiunge Gavosto  – Di certo questa non è la soluzione migliore: ogni bambino apprende con un suo percorso personale che non segue l’età. Inoltre, in linea con la didattica costruttivista di Piaget, l’apprendimento non è solo lezione frontale, ma soprattutto scambio tra compagni». Insomma, rendere tutto omogeneo a livello di unità-classe, impossibile da modificare, è la soluzione più facile ed economica dal punto di vista organizzativo, ma non la più appropriata.

LOGICA MILITARE – L’Italia, da questo punto di vista è ferma a una «logica uniformante, praticamente militare – dice il pedagogo Giuseppe Bertagna – Reclutiamo gli allievi come le leve militari di un tempo, come se fosse prestabilito che tutti i bambini della stessa età abbiano lo stesso livello di maturazione». Alle regole fisse dovrebbe sostituirsi (o affiancarsi) la flessibilità di gruppi di compito, di attività e di soluzione di problemi. «L’insegnante non sarebbe più un caporale, ma un regista che scompone la classe e riunisce bambini di 5 anni e mezzo e 7 anni in base alle attività (linguistiche, matematiche, scientifiche).  Ad esempio – spiega Bertagna – un bambino immigrato di prima generazione, potrà fare l’inglese o il francese con i più grandi. Ma l’italiano, lo imparerà meglio dai bambini più piccoli che non dalla maestra. Così si valorizza il concetto del mutuo apprendimento, fondamentale in pedagogia». E si risolverebbe anche il problema delle classi multiculturali: «Se vuoi insegnare italiano e matematica a tutti gli stranieri nello stesso modo sei destinato a fallire perché “gli stranieri” non esistono: è solo un’etichetta».

CENTRALISMO POLITICO – In teoria, ricorda Bertagna, la flessibilità dovrebbe essere già norma. «La legge 53 del 2003 che è ancora è attiva, ma non è mai stata applicata. Ancora oggi, gli organici vengono stabiliti a Roma e il numero delle classi è stabilito al ministero: tutto è meccanicistico, frutto del centralismo sindacale e politico». Ma non sono proprio gli insegnanti a temere la flessibilità? «Se si smettesse di trattare gli insegnanti come sardine tutti uguali, si darebbe la valorizzazione di loro attitudini, avrebbero una nuova stima sociale – aggiunge il pedagogo di Bergamo – e i genitori li riconoscerebbero anche per la loro attività e la capacità di coinvolgere gli alunni, riconoscerebbero che la flessibilità è una opportunità».

NIENTE COLPI D’ACCETTA – La necessità di una riforma è sottolineata anche dall’ex ministro dell’Istruzione, Tullio De Mauro. «Noi siamo noi siamo affezionati all’idea che un lungo arco di tempo a scuola sia la cosa migliore. In altri Paesi questo è messo in dubbio: e, in effetti, nazioni che iniziano le elementari a 7 anni, hanno risultati eccellenti».  Ogni riforma, aggiunge il linguista, «va affrontata tenendo conto delle condizioni sociali e culturali effettive del Paese»: in Italia, le differenze esistono. «In un ambiente disastrato, dal punto di vista economico e sociale, e sto parlando di povertà non solo relativa ma assoluta, un anticipo dell’entrata in classe può essere utile. Mentre per i bambini dei quartieri buoni di Roma, Firenze, o Milano, paradossalmente la scuola potrebbe iniziare più tardi». Una provocazione che, però, pone l’accento sulla necessità di andare con i piedi di piombo su un argomento come questo. «C’è bisogno di una riforma omogena che dia agli istituti scolastici una maggiore autonomia».