I BES nelle attività di insegnamento/apprendimento: vincoli e opportunità

I BES nelle attività di insegnamento/apprendimento: vincoli e opportunità

di Maurizio Tiriticco

Relazione tenuta da Maurizio Tiriticco al convegno

“BES: innovazione didattica, inclusione, limiti burocratici” – Roma, 11 novembre 2013

 

Con la Legge dell’8 ottobre 2010, n. 170, Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico, si sono riconosciute la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia quali disturbi specifici di apprendimento (DSA), che, pur manifestandosi in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, possono però costituire una limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana. Nella legge si dispone che la diagnosi dei DSA venga effettuata nell’ambito dei trattamenti specialistici già assicurati dal Servizio sanitario nazionale e che sia comunicata dalla famiglia all’istituzione scolastica di appartenenza dello studente. L’istituzione è tenuta ad adottare una “didattica individualizzata e personalizzata [1], con forme efficaci e flessibili di lavoro scolastico che tengano conto anche di caratteristiche peculiari dei soggetti, quali il bilinguismo, adottando una metodologia e una strategia educativa adeguate.” In seguito, il Miur, con il dm n. 5669 del 12 luglio 2011 ha individuato le modalità di formazione dei docenti e dei dirigenti scolastici, le misure educative e didattiche di supporto utili a sostenere il corretto processo di insegnamento/apprendimento fin dalla scuola dell’infanzia, nonché le forme di verifica e di valutazione per garantire il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con diagnosi di DSA nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle università.

In seguito, con la Direttiva del 27 dicembre 2012, il Miur afferma che “è opportuno assumere un approccio decisamente educativo, per il quale l’identificazione degli alunni con disabilità non avviene sulla base della eventuale certificazione che certamente mantiene utilità per una serie di benefici e di garanzie, ma allo stesso tempo rischia di chiuderli in una cornice ristretta. A questo riguardo è rilevante l’apporto del modello diagnostico ICF (International Classification Functioning) dell’OMS, che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale. Fondandosi sul principio di funzionamento e sull’analisi del contesto, il metodo ICF consente di individuare i Bisogni Educativi Speciali dell’alunno prescindendo da preclusive tipizzazioni”.

Occorre ricordare che l’attenzione ai bisogni di ciascun alunno era già implicita nel dm del 9 febbraio 1979, con cui furono varati i “nuovi programmi” per la scuola media”. Segue il testo relativo alla definizione e alla descrizione delle fasi della programmazione educativa e didattica. Si tratta di una scelta che – si afferma nel dm –

postula un progetto educativo didattico che comprende organicamente i seguenti momenti:

a) individuazione delle esigenze del contesto socio-culturale e delle situazioni di partenza degli alunni:

b) definizione degli obiettivi finali, intermedi, immediati che riguardano l’area cognitiva, l’area non cognitiva e le loro interazioni:

c) organizzazione delle attività e dei contenuti in relazione agli obiettivi stabiliti;

d) individuazione dei metodi, materiali e sussidi adeguati;

e) sistematica osservazione dei processi di apprendimento;

f) processo valutativo essenzialmente finalizzato sia agli adeguati interventi culturali ed educativi sia alla costante verifica dell’azione didattica programmata;

g) continue verifiche del processo didattico, che informino sui risultati raggiunti e servano da guida per gli interventi successivi.

La programmazione può prevedere anche l’organizzazione flessibile e articolata delle attività didattiche (attività interdisciplinari interventi individualizzati, nonché raggruppamenti variabili di alunni, anche di classi diverse, e utilizzazione di docenti specializzati nell’ambito consentito dalla legge n. 517)”.

La metodologia indicata, in effetti, è estensibile a ogni grado di istruzione, in quanto in estrema sintesi rappresenta pur sempre il percorso di insegnamento/apprendimento fondato sulla strategia del curricolo. E non esiste istituzione scolastica che non possa e non debba attenersi alle indicazioni di cui al citato dm del 1979.

Tale metodologia postula con forza la necessità di rilevare i bisogni di ciascun alunno, i suoi concreti “livelli di partenza”, in modo da progettare e realizzare percorsi che consentano il suo massimo coinvolgimento e quello di tutti e di ciascuno. Era ovvio già allora che ciascun soggetto in apprendimento, soprattutto in un percorso obbligatorio, rappresenta specifici bisogni educativi, dei quali occorre necessariamente tenere il debito conto.

Sotto questo profilo, il nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione” (come viene definito dall’articolo 2 della legge 53/03, in attuazione del nuovo assetto dell’Istruzione pubblica, di competenza dello Stato, e dell’istruzione e formazione professionale, di competenza delle Regioni: sistema avviato dal novellato Titolo V della Costituzione) già da quel lontano 1979 è stato sensibilizzato a tenere in debito conto i bisogni educativi di ciascuno! Ed è anche vero che ciascun alunno – e ciascun soggetto in generale – rappresenta bisogni specifici o, se si vuole, speciali!

Del resto, sono di fatto speciali tutti i bisogni di ciascuno di noi, in quanto ciascuno di noi ha una sua specificità.

Quindi, tenuto in debito conto quanto già legiferato nel lontano 1979, quale necessità c’era di ricorrere a nuovi dispositivi normativi, citando anche indicazioni dell’OMS, per ricordare a scuole e a insegnanti che gli alunni di ogni ordine e grado sono portatori di bisogni educativi diversi e differenziati? E ancora: non abbiamo anche una legislazione in materia di alunni portatori di handicap (e chiamiamoli anche diversamente abili) che risale alla legge 517 del lontano 1977? Una legge che non solo ha rivoluzionato il nostro modo di fare scuola, ma ha anche suscitato interesse e favore anche all’estero? [2]

E allora, che cosa c’è di nuovo nel legiferare su disturbi specifici di apprendimento e bisogni educativi speciali? Se tali disturbi e bisogni sono di una gravità tale da richiedere una particolare certificazione, la normativa già c’è e fa capo alla citata legge del ’77. Di converso, se tali disturbi non sono così gravi da richiedere una specifica certificazione, non sono forse sufficienti le indicazioni del dm del ’79, che propone e impone a scuole e insegnanti una corretta rilevazione iniziale dei diversi “livelli di partenza” degli alunni di una data classe, proprio per “curvare” l’intera programmazione educativa e didattica alle esigenze di ciascun alunno, nessuno escluso, se vogliamo tirare in ballo anche il monito di Don Milani?

Non è forse un tirare il can per l’aia tutta questa fumeria di pagine e pagine di raccomandazioni che ritroviamo nella recente normativa sui DSA e sui BES? Con tutta il retroterra che ci viene dalle pubblicazioni dell’OMS, come il necessario toccasana di cui i nostri insegnanti sarebbero assolutamente digiuni? Il discorso è – o sarebbe – semplice: la si chiami come si vuole, ma, se l’“insufficienza” di un alunno rilevata in partenza è grave, occorre la certificazione medica; se, invece, in sede di rilevazione iniziale non è grave e non richiede una particolare certificazione, è il consiglio di classe che è chiamato ad operare con gli strumenti didattici di cui dispone! In effetti sono anni che parliamo di rinforzo, di sostegno, di recupero e sono anni che le nostre scuole si muovono in tali direzioni! Nel lontano 1994 fu il ministro D’Onofrio a mandare in soffitta gli esami di riparazione di settembre e a istituire i corsi di recupero, tuttora vigenti.

Vogliamo forse dire che dal ’94 a oggi – è trascorso circa un ventennio – la nostra scuola non è stata in grado di mettere a frutto tali corsi? Se è così, allora il problema è un altro: quello di attrezzare scuole e insegnanti perché le attività di recupero – che poi sono strettamente legate alla rilevazione dei livelli di partenza e a tutte quelle sette fasi della programmazione educativa e didattica di cui al dm del ’79 – vengano compiutamente eseguite! E attività di rinforzo, sostegno e recupero non possono e non debbono essere svolte quando una simile necessità è rilevata fin dalla iniziale “rilevazione dei livelli di partenza”? Anche perché non occorre essere pedagogisti patentati per comprendere che è più produttivo un recupero precoce che un recupero tardivo.

Sembra avere poco senso disquisire su DSA e BES, e ricorrere anche tutte le rispettabilissime pubblicazioni straniere in merito. Come se i nostri insegnanti siano considerati poco capaci ad affrontare quelle situazioni di partenza di cui ciascun alunno è portatore. In effetti, tali pubblicazioni sono più che altro rivolte a scuole che non sono solite integrare portatori di handicap, per cui una rigorosa attenzione a DSA e BES diventa oltremodo necessaria.

La nostra situazione è ben diversa! A meno che non si voglia affermare che in tanti anni non siamo stati capaci di insegnare/apprendere secondo la progettazione educativa e didattica introdotta nel ’79! Il che potrebbe anche essere in parte vero, però ritengo che non dobbiamo imparare nulla né di nuovo né di estremamente necessario dalle indicazioni dell’OMS. La questione è un’altra: occorre adoperarsi fino in fondo perché si lavori seriamente e concretamente in ogni ordine di scuola sulla base di quelle indicazioni del ’79, forse in una certa misura disattese, soprattutto nell’istruzione secondaria di secondo grado. Questa dovrebbe essere la scelta di fondo! Ed è scorretto agitare dichiarazioni d’oltralpe e sigle in lingua inglese all’interno delle quali non c’è nulla di autenticamente nuovo! Non credo che le nostre conoscenze in merito alla lotta di sempre contro l’emarginazione e la dispersione siano insufficienti! Pur riconoscendo che c’è sempre qualcosa da imparare, invece di intimidire i nostri insegnanti come se fossero degli sprovveduti di fronte ai bisogni educativi di ogni tipo, si provveda a sostenerli stanziando le necessarie risorse! Dopo decenni di tagli, vogliamo anche colpevolizzarli perché sarebbero incapaci di affrontare situazioni di disagio?

Intimidiamoli con i Bes, e il gioco è fatto!!! L’amministrazione è salva! E vuole fare ricadere sulle scuole e sugli insegnanti responsabilità che non sono loro, ma dell’amministrazione stessa la quale, forse, in materia di proposta continua e fattiva – ad esempio, formazione in servizio largamente diffusa – su come “si lavora” secondo le indicazioni di un insegnamento/apprendimento curricolare, non è stata mai sollecita. Basti pensare a due concetti che da soli sconvolgerebbero la usuale pratica didattica: l’insegnamento per competenze e la didattica laboratoriale! Non c’è documento del Miur che non si attardi su tali concetti! Ma di indicazioni operative e di formazione dei docenti su tali materie neanche l’ombra!

E’ facile poi lanciare parole nuove, DSA, BES e così via e colpevolizzare gli insegnanti! E che sotto sotto non si nasconda un altro intento? Quello di tagliare posti di sostegno e avviare una politica di “non certificazione” medica? In effetti, sotto la voce BES può passare tutto e di più.

In conclusione, quali sono le effettive ricadute che si avrebbero con una generalizzazione dei BES? O meglio del richiedere ai consigli di classe di censire quali sono gli alunni portatori di BES e procedere con piani di studio personalizzati? Una constatazione: si vuole forse tornare a quei piani di studio personalizzati avviati dalla legge 53/03, meglio nota come riforma Moratti, e dal successivo dlgs 59/04, che la stragrande maggioranza delle scuole del primo ciclo rifiutarono? E lo respinsero proprio perché con tali piani si rompeva l’unitarietà del Sistema educativo di istruzione. E non a caso, con le successive Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, di cui al dm 31 luglio 2007 (ministro Fioroni) e poi con le Indicazioni di cui al dm 16 novembre 2012 (ministro Profumo) siamo tornati alla strategia del curricolo, o meglio a quella strategia della progettazione educativa e didattica che contiene già al suo interno l’attenzione ai concreti bisogni educativi di ciascun alunno, che sono sempre diversi e, se si vuole, particolari, esclusivi… e speciali anche!

Seguono alcune considerazioni conclusive.

UNO – A mio avviso, le concrete ricadute che si avrebbero con una formale richiesta di censire, classe per classe, quali sono gli alunni portatori di BES e procedere con piani di studio personalizzati (si veda nella nota 1 la profonda differenza che corre tra la personalizzazione e l’individualizzazione) sarebbero le seguenti: si attribuirebbero agli insegnanti “normali”, già oberati, il compito di valutare atteggiamenti e comportamenti degli alunni in profondità! Ma, se un alunno è portatore di qualcosa di veramente speciale, c’è solo la perizia medica che lo può valutare, a fronte del quale il giudizio dell’insegnante deve sempre cedere il posto. Con l’attribuzione di questa incombenza agli insegnanti disciplinari, è cosa certa che lo Stato risparmierebbe sugli insegnanti di sostegno. E si andrebbe anche verso una confusione tra insegnamenti “normali” e insegnamenti “differenziati”.

DUE – Poiché per ogni alunno portatore di BES occorre un Piano di Studi Personalizzato, quindi orientato a competenze di fatto di livello inferiore a quelle delle Indicazioni Nazionali o delle Linee guida, si correrebbe un serio rischio: che l’“ignoranza” dei nostri studenti, pur se giustificata da una premessa BES, e, nei tempi medio-lunghi, quella dell’intera popolazione (si vedano gli esiti della recente ricerca Isfol-Piaac) tendano a crescere!!!

TRE – Occorre anche considerare la differenza che corre tra l’istruzione obbligatoria decennale e l’istruzione secondaria di secondo grado. Nel primo caso, per ciascun alunno si potrebbero certificare le competenze che effettivamente ha conseguito, indipendentemente dall’espressione di un giudizio di valore, le quali costituirebbero implicitamente anche un giudizio per l’orientamento. Nel secondo caso, si moltiplicherebbero i diplomi con quei giudizi differenziati che non sono certamente di aiuto per la ricerca di una collocazione lavorativa di un certo profilo.

QUATTRO – E’ scontato affermare che ogni insegnante valido – se è solito insegnare secondo la strategia della progettazione curricolare – tiene sempre in massimo conto i bisogni educativi dei suoi alunni, sempre a prescindere da norme aggiuntive, quelle che si stanno proponendo con una attenzione particolare ai BES e che sembrano “mirare al ribasso”. Si vuole forse indicare agli insegnanti di essere più “buoni!” e “comprensivi”? Con il rischio di muoversi verso una scuola “più facile”? Ricordiamolo: una scuola che sia veramente inclusiva non è affatto una scuola più facile e permissiva!

CINQUE – E’ chiaro che ogni soggetto è diverso da un altro! Ma, se i BISOGNI di un soggetto sono veramente SPECIALI, allora è un altro conto. E’ la legislazione che “tiene conto” di questi soggetti già c’è!

Concludendo: quand’è che un BE diventa S, cioè Speciale? La ricerca ICF-OMS è assolutamente generica a questo riguardo, quando invece sappiamo che i casi delle reali disabilità hanno i loro protocolli. E infine, per una provocazione finale: se ci sono i BES, non dovremmo avere anche gli IES? Gli Insegnamenti Educativi Speciali? Ma questi già li abbiamo, a meno che non si voglia dire che la formazione iniziale e continua dei nostri insegnanti non è all’altezza dei bisogni degli alunni di oggi! Occorre sempre ricordare che l’insegnare richiede competenze di alto profilo, in primo luogo psicopedagogiche e metodologico-didattiche, che debbono esplicitarsi in tempi distesi, se si vogliono veramente intercettare tutti i bisogni reali di cui ciascun alunno è portatore.

Ma se poi si ritiene che i nostri insegnanti non siano all’altezza di situazioni “difficili”, allora si promuova una campagna di formazione continua in servizio sostenuta, ovviamente, da tutte le risorse finanziarie e organizzative che sono necessarie! Anche perché non c’è lavoratore che non voglia costantemente rinnovare le sue competenze professionali.

Sappiamo tutti che insegnare oggi in una società difficile, a fronte di bambini e di adolescenti sempre più inquieti richiede professionalità, pazienza e, soprattutto, tempi distesi. A questo proposito, mi piace concludere citando il pensiero di Gianfranco Zavalloni, autore di un libro dal titolo molto eloquente, La pedagogia della lumaca, per una scuola lenta e non violenta, edizioni Emi, Bologna, 2008. L’autore ritiene che in un periodo storico in cui il “mordi e fuggi” e l’”apparire” sembrano più importanti della pazienza del comprendere e della essenzialità dell’essere, pensare a una scuola a spazio aperto e a tempo pieno, veramente inclusiva, debba costituire il progetto per il futuro. Afferma Zavalloni: “La scuola di oggi, riflettendo le tendenze di buona parte della società umana, è centrata sul mito della velocità, dell’accelerazione e della competizione, come criterio di selezione al quale i bambini vengono educati fin dai primi anni di vita. Genitori e insegnanti dovrebbero riflettere sul tempo educativo e sulla necessità di adottare strategie didattiche di rallentamento, per una scuola lenta e non violenta”.

La lumaca insegna! Anche e soprattutto a recuperare gli alunni in difficoltà!


[1] E’ opportuno sottolineare che i due concetti di individualizzazione e di personalizzazione inducono attività di insegnamento-apprendimento diverse: nel primo caso si adottano attività differenziate, ma si mantengono fermi gli obiettivi di apprendimento comuni; nel secondo caso, sono selezionati e declinati obiettivi differenziati e adatti a “quel” determinato alunno.

[2] La legge recita quanto segue. La scuola elementare “attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps”. Nella scuola media “sono previste forme di integrazione e di sostegno a favore degli alunni portatori di handicaps”.