C. Abate, Il bacio del pane

Un pane che unisce

di Antonio Stanca

abateDi nuovo Carmine Abate, lo scrittore calabrese di cinquantanove anni che vive a Besenello, in Trentino, dove svolge il lavoro di insegnante. Ad Agosto del 2013 è comparso il suo ultimo romanzo Il bacio del pane, edito dalla Mondadori di Milano nella serie “Libellule” (pp. 173, € 12,00).

Abate è nato nel 1954 a Carfizzi, un paese italo-albanese della Calabria. Dopo la laurea in Lettere ha seguito il padre emigrato in Germania e qui ha cominciato ad insegnare in scuole frequentate da figli di emigranti. In Germania ha pure cominciato a scrivere. E’ autore di poesie, racconti, romanzi, saggi. A questa attività si è dedicato soprattutto quando, tornato in Italia, si è stabilito a Besenello. I racconti e i romanzi sono i suoi generi preferiti e quelli che gli hanno procurato notorietà. Sono tradotti in molti paesi stranieri ed hanno fatto sì che Abate venisse proposto come autore calabrese da studiare nelle scuole italiane. Tra i riconoscimenti più recenti ci sono stati nel 2012 il Premio Campiello assegnatogli per il romanzo La collina del vento e nel 2013 la cittadinanza onoraria attribuitagli dal Comune di Crotone.

Ricorrenti sono, nelle narrazioni dell’Abate, i luoghi, i tempi della sua infanzia in Calabria, gli anni della sua formazione. Ricorda, recupera egli, tramite i protagonisti di molte opere, gli ambienti, gli usi, i costumi che hanno fatto parte della sua vita. Riscattare vuole lo scrittore la sua terra, la sua gente dal silenzio che ancora le circonda, scoprire in esse valori, significati da trasmettere, liberarle dalla condizione di isolamento. E vi riesce perché capace si mostra di muovere dalle situazioni particolari, contingenti che ogni volta rappresenta e di pervenire a principi più estesi, di trarre dalla realtà di un posto l’idea che la trascende, di fare letteratura, arte di ciò che è solo vita. Alla vita riconosce qualità che vanno oltre l’evidenza, dalla vita ricava messaggi che superano il tempo. La lingua usata passa continuamente dal dialetto all’italiano, all’albanese, è molto scorrevole e rende chiaro, autentico il contenuto esposto, facile il messaggio perseguito. Questo consiste quasi sempre in un invito a superare le distanze, le differenze, ad annullare le ostilità, ad incontrarsi, ritrovarsi pur tra diversi e lontani.

Nell’ultimo romanzo la funzione di scambio, di comunicazione, il motivo d’incontro sono svolti da quel pane che in Calabria si faceva in casa alle prime luci dell’alba e che veniva offerto ai vicini e baciato prima di essere mangiato. A quel pane Abate affida stavolta il compito di ridurre le distanze, avvicinare, unire. Nella Calabria di alcuni anni fa, nel piccolo paese di Spillace è ambientata l’opera. Qui allora si faceva ancora quel pane in casa di Francesco, uno dei ragazzi protagonisti. Egli studia, dovrà diplomarsi il prossimo anno e intanto insieme ai compagni del posto e ad altri coetanei giunti da fuori per trascorrere le vacanze vive una serie di avventure comprese tra il mare, la campagna, i boschi, le montagne, i locali notturni, le bevute, le veglie, i bagni, le corse a piedi, in scooter, le ragazze, gli amori. Insieme, da soli, in gruppo questi ragazzi si muovono, organizzano, discutono, litigano, pensano, fanno. Le acque, le piante, i colori, le luci, i suoni del posto sono soltanto loro, tra essi si stanno formando alla vita, al mondo. C’è chi s’innamora e Francesco lo fa con Marta, la bellissima ragazza che risiede a Firenze e a Spillace viene ogni anno d’estate con la famiglia. Sono i ragazzi i protagonisti del romanzo, sono i loro giorni, le loro notti trascorse nei luoghi e nei modi più diversi i tempi dell’opera. Tra tanto movimento l’autore riesce a far sapere quanto ha fatto parte delle tradizioni del posto, a far riemergere quel che sembrava finito. E con un linguaggio così naturale da combinare perfettamente le vecchie con le nuove situazioni. Fra tutte risalta quella di Francesco e Marta. I due si legheranno, si ameranno, rimarranno uniti fino alla partenza della ragazza e a tenerli ancor più insieme interverrà il segreto dell’uomo del Giglietto, dello sconosciuto che viveva di stenti, nascosto in un rudere accanto ad una cascata a poca distanza da Spillace in compagnia di un cagnolino. Si chiamava Lorenzo, viveva nella paura, nel terrore perché temeva di essere scoperto e ucciso da chi aveva tolto la vita al fratello Giacomo non avendo essi ceduto alle minacce, ai ricatti che si erano attirati per essere riusciti, pur essendo degli umili calabresi, a costituire a Milano un’impresa edile di notevoli proporzioni. Sarà Francesco a scoprire Lorenzo, lo dirà a Marta e diventerà un altro dei loro segreti. Insieme frequenteranno l’uomo, ascolteranno la sua storia, gli procureranno vestiti, cibo e quel pane che la madre di Francesco faceva. Anche Lorenzo lo bacerà prima di mangiarlo perché anche lui da calabrese sentiva e viveva quella tradizione. Col pane, nel pane si sono ritrovati, si sono riconosciuti, si sono aiutati e lo scrittore è riuscito di nuovo ad ottenere quanto sempre perseguito, a far acquisire, cioè, valore ideale ad un elemento reale.