Adottare, oltre all’e-learning, anche il blog

ATTI DEL CONVEGNO

SCUOLA DIGITALE:
AMBIENTI E STRUMENTI PER LA DIDATTICA – VERSO EUROPA 2020

31 gennaio 2014 ore 9.30 – 18.00
Media Conference Room
Polo Professionale “Luigi Scarambone”
Via Dalmazio Birago, 89 Lecce


Adottare, oltre all’e-learning, anche il blog

di Roberto Maragliano
Università Roma Tre

Laboratorio multimediale (31)

Meglio lo dica subito, quello che state leggendo non è un intervento originale.

Ho fatto come tanti studenti, cioè il copia/incolla.

Ma diversamente da loro: 1. lo dico; 2. copio da me stesso.

Di seguito, infatti, trovate alcuni post tratti dal blog collettivo del Laboratorio di Tecnologie Audiovisive.

L’indirizzo del blog è questo: http://LTAonline.wordpress.com. Lo trovate anche su FB.

L’invito che vi faccio qui (anche per ragioni di economia, così mi e vi risparmio il copia/incolla) è di seguirci, entrando anche attivamente nella comunità di quanti, come noi, pensano che il digitale, la rete, la multimedialità siano occasioni per innovare non solo e non tanto il parco macchine della scuola quanto i modi e i contenuti del suo operare.

I post che riproduco qui sotto sono tra quelli che, a mio avviso, meglio rispondono all’esigenza di capire e far capire che adottare l’e-learning significa fare e far fare alla scuola un salto di qualità. Sono stati scritti e postati da novembre 2013, data di uscita di Adottare l’e-learning a scuola nella collana #graffi (http://ltaonline.wordpress.com/graffi/)

Buona lettura. E buona scrittura, se com’è usuale, vorrete interloquire negli spazi del blog o/e in
quelli di Facebook.

Tra la vispa Teresa e Pollicina

di Roberto Maragliano

Se n’è parlato mai tanto e con accenti tanto unanimemente scandalizzati che c’è da sospettare che il caso sia stato costruito ad arte. Dei quattro concorrenti dell’Eredità (badate bene, non imberbi quindicenni, ma ben più grandicelli) tre non sanno collocare nel tempo Hitler e solo l’ultimo ci riesce, ma per mancanza di alternative.

Indubbiamente, questo la dice lunga a proposito dei vuoti della nostra memoria collettiva.

Ma ancora più preoccupante, a mio avviso, è il tipo di discorso che ci hanno imbastito sopra, dopo che un Umberto Eco immemore dei suoi trascorsi è intervenuto a piedi uniti sulla faccenda con una letterina al nipotino per il 2014, pubblicata dall’Espresso, dove, guarda un po’, la scuola è additata come responsabile del misfatto per via del’abbandono da parte sua della propensione a far studiare a memoria. Certo, vi si aggiunge, anche mandare a mente le formazioni delle squadre calcistiche di oggi e di ieri aiuta, come aiutava imparare “La vispa Teresa”, e in questo esercizio di interazione col sapere perfino Internet può essere d’aiuto. Poi, forse un po’ pentito, in una successiva  Bustina lo stesso Eco s’industria a correggere il tiro: “Questo appiattimento del passato in una nebulosa indifferenziata si è verificato in molte epoche, e basti pensare a Raffaello che raffigurava il matrimonio della Vergine con personaggi vestiti alla foggia rinascimentale, ma ora questo appiattimento non dovrebbe avere giustificazioni, visto le informazioni che anche l’utente più smandrappato può ricevere su Internet, al cinema o dalla benemerita Rai Storia”.

Ma ormai la frittata è fatta.

E infatti a ruota arriva Eugenio Scalfari:, giusto una settimana dopo, sempre sull’Espresso: no, sostiene, la faute c’est a Internet. “(I giovani) leggono notizie e cultura ridotte a poche parole. Il numero di parole usate è ormai al minimo e poiché tra pensiero e linguaggio, c’è interazione, ne deriva che il pensiero si è anchilosato come il linguaggio”. Sapere che sta tutta lì, in rete, a portata di interrogazione, ti esime dal compito di tenertela dentro, la conoscenza.

Insomma. Ancora una volta la tecnologia viene intesa (e fatta intendere) come un impoverimento e non già come un’amplificazione delle facoltà umane. Non importa che questo sia il medesimo argomento che Platone usa contro la scrittura e qualche dotto rinascimentale contro la stampa, no: importa ribadire che, nelle faccende dell’educazione, l’età dell’oro è sempre dietro di noi, collocata in un passato
tanto mitizzato quanto ignorato.

E se, invece, il non dover essere costretti a memorizzare valesse come liberazione della nostra e dell’altrui mente dai vincoli della meccanizzazione?
Considerato che provvede la macchina,  che bisogno c’è che vi si dedichi l’uomo? Questi potrebbe intrattenersi con qualcosa di più proficuo, no? E la scuola, potrebbe aiutarlo, e pure sostenerlo, in tutto questo, liberandosi anch’essa di tanto pesanti e così poco pensanti luoghi comuni.

Tutti quelli che parlano e sparlano di perdita di memoria, di snaturamento, di smarrimento, di ignoranza questo passaggio l’hanno mai colto o capito, hanno mai provato a misurarcisi?
Temo che la risposta sia negativa.

Dunque, proviamo a battere (e far loro percorrere) altre vie, smettiamola di  perdere e far perdere tempo dietro a simili luoghi comuni.

E allora, se a degli “straparlatori” ottantenni dobbiamo proprio dare ascolto (come ogni domenica, peraltro con affascinanti esiti, ci suggerisce di fare Antonio Gnoli su Repubblica) vediamo di sceglierceli per bene, questi nostri interlocutori. Per esempio, prestiamo orecchio a uno come Michel Serres. “Ci uniamo qui ai piagnoni antichi e moderni, i cui discorsi e testi deplorano la perdita dell’oralità, della memoria, della concettualizzazione e di tante altre cose preziose per i nostri avi. In realtà la perdita della memoria, nell’epoca che seguì quella in cui si declamavano a mente i poemi di Omero, liberò le funzioni cognitive dal carico impietoso di milioni di versi; apparve allora, nella sua semplicità astratta, la geometria, figlia della Scrittura. Allo stesso modo nel Rinascimento una perdita ancora più importante sollevò i saggi dallo schiacciante obbligo della documentazione, che allora si chiamava dossografia, e li riportò bruscamente alla nuda osservazione che fece nascere le scienze sperimentali, figlie della stampa. A bilancio, i vantaggi prevalgono in maniera preponderante sui pregiudizi, poiché in tali circostanze nacquero due altri mondi, che permisero di comprendere questo. Sapere consiste allora non più nel ricordare, ma nell’oggettivare la memoria, nel depositarla negli oggetti, nel farla scivolare dal corpo agli artefatti, lasciando la testa libera per mille scoperte” (Un nuovo Rinascimento dalle nuove tecnologie, su “Vita e Pensiero”, n. 6 2013, anticipato qui).

Tra l’altro, potrebbe essere, questa, l’occasione per andare al prezioso volumetto che il filosofo francese ha pubblicato l’altr’anno, tanto discusso e postillato in Francia quanto ignorato qui da noi (forse anche per l’assurdo e offensivo titolo escogitato in traduzione). Statene certi, se lo farete imparerete a guardare con occhio più costruttivo e fiducioso sia a Pollicina sia a quella che potrebbe/dovrebbe rappresentarne il giusto destino scolastico.

App a bocca aperta

di Roberto Maragliano

Anni fa, molti anni fa, avendo io osato associare, nel corso di un’intervista telefonica per una testata giornalistica, multimedialità e videogioco ad epistemologia, diventai, in quanto “epistemologo del videogioco”, zimbello di gazzette e gazzettieri. La cosa non avrebbe nessuna importanza se non fosse che l’argomento fu tra le altre una delle armi usate da politici, intellettuali, accademici, editori per impedire che, qui da noi, si avviasse un ripensamento dei contenuti dell’insegnamento scolastico. Analoga vicenda conobbe contemporaneamente la Francia, anche se un argomento utile per bollare un pedagogista di provincia non poteva certo essere usato contro uno come Edgar Morin, al quale, parimenti, era stato chiesto di avviare una fase di discussione attorno ai saperi scolastici e del cui contributo si fece comunque carta straccia. Chi fosse mosso da curiosità e intendesse verificare come già allora, in tempi tutt’altro che sospetti, bastasse uno slogan azzeccato per creare il vuoto attorno ad un’idea, può rifarsi agli appunti, o puntualizzazioni, che trova qui.

Se richiamo quell’esperienza è per dire che non ho cambiato idea, anzi lo stravolgimento in atto nei rapporti tra operatività e sapere e il riconoscimento dell’importanza che sempre più riveste il “vedere con la mano” cui frequentemente si richiama Silvano Tagliagambe, mi autorizzano a mantenere ben ferme quelle posizioni.

Del resto quel che vedo attorno non fa che portarmi conferme. E pazienza se le nostrane gazzette e i nostrani gazzettieri quel che io vedo (non solo ma assieme a centinaia di migliaia di individui in tutto il mondo) si ostinano a non vedere e s’inventano ogni marchingegno materiale o concettuale per impedire che altri vedano.

In pratica, cos’è che vedo? Che nel multimediale, anche in quello commerciale (orrore!) c’è dell’arte, e ce n’è in coerenza con l’accezione più ampia e nobile del termine, quella su cui, appunto, convergono le ragioni della tecnica, dell’estetica, pure del perfezionamento spirituale.

Prendete due app uscite nel 2013 e date loro fiducia. Ma soprattutto dedicate loro, come meritano, qualche ora di piacevole ancorché impegnativo praticantato. Ne uscirete, ve l’assicuro, trasformati e nobilitati, nonché disposti a farvi beffe di tutti quegli improvvisati soloni che, nessuna esperienza personale avendo di multimediale e rete e tablet, vedono in tutto ciò l’astuzia del diavolo tentatore e dunque il rischio di perdere l’innocenza pedagogica.

No, voi sporcatevele le mani, anzi le dita. E poi ditemi se non ne valeva la pena (e pure la spesa, come dicono al mio paese).


image001Le app di cui sto dicendo sono 
Disney Animated e The Liszt Sonata, tutte e due prodotte dall’azienda inglese Touch Press. Nell’una sono messe a frutto settantacinque anni di ricerca e produzione sul fronte dell’animazione cinematografica: lo sapiamo, anche se non sempre ne teniamo conto, la Disney è sempre stata all’avanguardia nella scoperta e nell’uso della tecnologia. Poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di fare il punto su questo immenso patrimonio di idee ed esperienze? Sull’altro fronte, c’è una delle più ardue (anche per chi ascolta) sonate per pianoforte, quella in Si minore di Franz Liszt.

image003Sfido chiunque le abbia provate a sostenere che il digitale non aggiunge niente a quanto già esiste. Mai prima d’ora s’era pensato che uno stesso spazio potesse contenere e mostrare le migliaia di sfumature di colore dei più di cinquanta lungometraggi disneyani, mai s’era pensato di mostrare contemporaneamente all’esecuzione di un brano pianistico ripreso da tre diverse angolazioni lo svolgersi dello spartito, la visualizzazione grafica delle notazioni, i commenti scritti e orali dell’esecutore.

Credetemi, resterete a bocca aperta.

Preoccupati e dispiaciuti, soltanto, di dover aspettare anche solo un’ora in più, prima che questo modo di fare conoscenza si affermi anche nelle sedi istituzionalmente deputate a fare conoscenza.

Editarsi è bello. E pure educativo

di Roberto Maragliano

image005Ho scritto recentemente, in questo blog, di media education e dei suoi limiti, il più macroscopico dei quali è, secondo me, la rinuncia a sottomettere ad analisi proprio il primo e più nobile dei mass media, vale a dire la stampa. E ho scritto anche di come, in quanto autore (ahimè) di lungo corso, ho maturato, praticato e vissuto il progressivo passaggio dalla carta al digitale. Ora provo a mettere assieme i due discorsi e propongo un racconto/ragionamento ancora una volta personale ma anche politico: tale, spero, da funzionare come riferimento per chi, dall’interno delle scuole (e perché no? pure delle università), intenda cimentarsi nella produzione di saggi, racconti o materiali didattici e non abbia pregiudizi negativi nei confronti del digitale, al contrario lo intenda come un’opportunità. Per male che vada, prendete questo brogliaccio come abbozzo di lezione (o di ciclo di lezioni) sul tema editoria.

Intanto, secondo lo spirito di un’auspicabile (ma ancora da maturare) media education ‘corretta’, andrebbe preliminarmente chiarito che editare un testo in forma di libro, non importa se su carta o in digitale, comporta la necessità di sovraintendere ad una serie di fasi.

In un elenco rozzo e provvisorio, certamente lacunoso, sono:
1. scrittura del testo;
2. allestimento del testo per la pubblicazione in libro;
3. distribuzione del libro;
4. promozione del libro;
5. impiego dei ricavi.

Verrà utile, poi, chiedersi chi sovraintenda alle singole fasi.

Di nuovo, procedo per schemi.

Si pensi al libro cartaceo:
– su 1. c’è l’autore (ma non sempre lui soltanto);
– su 2. c’è l’editore (con la sua direzione e la sua redazione, almeno per come le cose funzionavano fino a qualche tempo fa);
– su 3. c’è il distributore che l’editore incarica del compito di far arrivare le copie del libro nei luoghi di vendita;
– su 4. c’è l’editore che (talora in accordo con l’autore talora no) agisce in modo far sapere ai possibili acquirenti che esiste quel libro;
– su 5. c’è l’editore che provvede (se il libro vende) a recuperare le spese di investimento, remunerare l’autore (se con lui c’è stato un patto economico) e fare investimenti con gli eventuali guadagni.

Ora comincia il bello.

Sorge infatti il dubbio se il secondo elenco, quello delle attribuzioni, mantenga di validità anche in ambito digitale o invece la perda.

Non è per cavarmela liscia, ma la mia risposta è duplice: sì e no.

Mi spiego. Sarà sì se c’è un editore digitale. Ma attenzione: in ogni caso cambiano i componenti interni delle singole fasi. Così, tanto per limitarmi agli esempi più evidenti, la funzione autoriale tende ad ampliarsi, facendo perlopiù subentrare all’autore singolo un autore collettivo, mentre le funzioni di allestimento e distribuzione decisamente si alleggeriscono. Il tutto senza che si intacchino ruoli e prerogative. Questo per il sì.

E che dire a giustificazione del no? Può essere che, in forza del digitale, il termine intermedio della triade (autore/editore/distributore) scompaia e la partita se la giochino solo tra due, autore e distributore.

È questo il caso del self publishing. Lì l’autore gestisce le fasi 1., 2. (in parte o tutta) e 4. Detto in altro modo, il suo compito non si ferma alla stesura del testo ma si estende su altri due momenti: quello dell’allestimento del testo in libro e quello della promozione del prodotto. In questo e per questo si fa editore di se stesso. Self publisher, appunto.  Le altre tre fasi sono gestite dal distributore che: può contribuire all’allestimento, assicura che il libro digitale sia reperibile nei luoghi di vendita online, fa da intermediario economico tra acquirente e autore. Ovviamente cambiano i ruoli ma anche i relativi contenuti: così, inevitabilmente, non dovendo affrontare parte delle spese di allestimento e di distribuzione (non occorre carta, non occorrono mezzi di trasporto, non occorrono locali di stoccaggio e vendita) i prezzi dei libri digitali possono essere anche di molto inferiori a quelli dei libri fisici, e, paradossalmente, i ricavi per l’autore anche risultare di molto superiori. Allo stato attuale, la percentuale standard per un autore cartaceo, quando c’è, gira attorno al 10% del prezzo di copertina, mentre per un autore digitale self publisher, sempre che venda, può viaggiare attorno al 60%.

maraglianoCosì è andata col mio Adottare l’e-learning a scuola, versione 2013. Come è stato per l’altro titolo della collana #graffi, mi sono servito della piattaforma di self publishingdigitale Narcissus.me. Il costo di investimento cui ho dovuto far fronte è di € 4,00 (sì, avete letto bene: quattro euro), corrispondente all’acquisto del codice ISBN. Questo perché il gruppo LTA (in particolare Andrea) ha provveduto a copertina e impaginazione (per quanto riguarda le immagini e i diritti di riproduzione, beh invito a scoprire voi stessi la soluzione che s’è trovata). Se invece avessi voluto ricorrere ai servizi del distributore di cui ho detto, l’allestimento del tutto mi sarebbe costato attorno ai 120,00 € (sì, avete letto bene: centoventi euro). Siamo lontanissimi dunque dalle migliaia di euro che taluni tipografi camuffati da editori chiedono ai malcapitati autori universitari e pure lontanissimi dai vertiginosi aumento dei costi di produzione lamentati da editori scolastici per via del passaggio al digitale. Non solo: poche ore dopo il varo del “contratto”,  il proprio eBook è presente in tutte le librerie online e da quel momento è possibile accedere al proprio pannello di controllo personale e verificare giorno per giorno il numero delle vendite che lo riguardano.

Sarebbe dunque bello, e pedagogicamente importante (anche per la crescita della media education), che qualche docente scolastico volesse tentare questa stessa esperienza, facendosi sostenere, per ideazione, allestimento e promozione dell’eBook, dai suoi stessi allievi o comunque informandoli e coinvolgendoli in tutte le fasi di cui ho detto.

Editarsi è bello. Sarà pure pure narcissico (per dirla con Gadda), ma dà forza alle idee e fiducia nella possibilità di farle circolare. Non è poco, oggigiorno.

Se dunque c’è chi decide di mettersi alla prova, sappia che a sostenerlo troverà pure noi.

Lezione su media education

di Roberto Maragliano

Fin dai tempi del Manuale di didattica multimediale, dunque nel millennio precedente, ho sostenuto due cose, a proposito della media education:

– che guarda criticamente ai media non dall’esterno ma dall’interno del sistema dei media,

– che non sottopone alla critica il medium stesso che usa per guardare agli altri, cioè la stampa.

Una terza critica risulterebbe possibile aggiungere oggi, e cioè che non aiuta a distinguere nettamente, come sarebbe invece necessario, i media della comunicazione centralistica (tipo radio e cinema e televisione) dai media della comunicazione reticolare (tipo telefono e internet). Capita così che tanti discorsi che vanno bene ad esempio per la televisione siano forzatamente riproposti, oggi, a proposito della rete, equiparando questa alla condizione di mezzo di comunicazione di massa. Così non va, almeno per quanto mastico di questi temi.

Sono convinto, e non ho remora a sostenerlo, che sia giunto il tempo di un cambio radicale di prospettiva.

Se infatti è ingiusto considerare computer e internet alla stregua di meri strumenti e se comincia a non funzionare più la scelta di considerare il web alla stregua di ambiente, cioè come uno spazio “altro” rispetto a quello altrimenti occupato da ognuno di noi, si tratta di abituarsi all’idea che il digitale (o se preferiamo il software o la rete, intesi tutti e tre come termini complessivi) venga più correttamente (e realisticamente) inteso come infrastruttura portante dell’insieme delle forme di vita e delle attività che, allo stato attuale, sono proprie degli esseri umani. Nella parte di mondo che noi frequentiamo, chiunque faccia una qualche azione la fa all’interno di tale
infrastruttura, anche se niente sa e niente vuole sapere di pc o tablet o siti.
Sia che compri un’innocua caramella sia che passeggi tranquillamente in una strada cittadina è in rete, o meglio: è dentro l’infrastruttura di rete.

Ecco allora che avrebbe poco senso aggiungere un pezzo nuovo, per dire un capitoletto dedicato a Internet, ad una materia scolastica, la media education, che in quanto materia porta in sé e dunque indebitamente legittima i parametri di un medium, la stampa, rispetto a quelli di altri media. Non basta. Se per un certo tipo di attività culturale, quella di tipo elitario, due secoli fa la stampa funzionava come infrastruttura portante, le cose non stanno più cosi, oggi: da allora sono nati altri media e la cultura è andata, anche con il loro concorso, via via differenziandosi e riarticolandosi, per di più in una prospettiva di massa. Allo stato attuale è doveroso riconoscere che il digitale sta subentrando alla stampa come infrastruttura portante della produzione di cultura (elevata e non solo) ma che già opera, appunto come infrastruttura portante, per moltissime, pressoché tutte le attività umane, non solo, dunque, quelle che coinvolgono il pensare e il comunicare dell’uomo.

Se non è materia, se tanto meno è pezzo di materia, cosa mai potrà essere e cosa mai potrà comportare il digitale per la scuola? Andrà inteso (e fatto intendere) come cornice entro cui individuare e ridefinire l’insieme delle attività della formazione scolastica, indipendentemente dal fatto che queste appartengano, secondo una vulgata che è propria di un altro tipo di infrastruttura (materiale e di pensiero), agli ambiti del sapere scientifico o tecnologico o umanistico.

C’è un’intera realtà che attende di essere pensata e ripensata.

Vasto programma, cui tutti siamo chiamati e sulla cui futura riuscita (o sul cui eventuale fallimento) ognuno fin da ora porta la sua parte di responsabilità.