L’eredità di Barbiana

L’eredità di Barbiana[1]

1. Il patrimonio formativo di Don Milani

Ripercorrere a distanza di oltre cinquant’anni l’esperienza educativa proposta da don Milani e guardarla con gli occhi di chi entra in classe tutti i giorni, per insegnare, potrebbe sembrare un’operazione pedagogica ardita o un anacronistico esercizio politically correct.

Noi non pensiamo sia così!

Pensiamo, piuttosto, che la riflessione che ci accingiamo a condividere – attraverso queste poche righe – ci possa invogliare ad immergerci in alcuni aspetti del patrimonio formativo lasciatoci da don Milani, ancora non del tutto acquisiti. Tra le altre cose, ognuno potrà farsi un’idea sul perché alcune delle esperienze proposte nella scuola di Barbiana siano penetrare con decisione nel nostro modus operandi di docenti o altre, invece, perché siano rimaste sulla carta o elevate al rango di citazioni di illustri pedagogisti o psicologi. Ribadiamo, quindi, di affiancare alla riflessione testé proposta anche la convinzione che la “lezione di Barbania” non sia stata del tutto appresa, nonostante il fatto che la “Lettera ad una professoressa” abbia rappresentato un’eclatante denuncia.

Siamo convinti  che, al di là di ogni possibile strumentalizzazione, la ricchezza del paradigma educativo utilizzato da don Milani possa ancora rappresentare “per gli addetti ai lavori” un ottimo strumento per orientarsi verso la costruzione di buone pratiche. Per corroborare tale convinzione, baseremo l’impianto delle nostre riflessioni seguendo una direttrice di lettura che tende ad attualizzare ciò che, per alcuni, fa parte di un modello di scuola (quello di Barbiana) ormai non più equivalente o sovrapponibile alla temperie di una nuova epoca, ma che può rappresentare comunque un orizzonte a cui poter fare riferimento alla bisogna o come fondamenta.

 

2. Abilità sociali e apprendimenti

Evidenziamo subito alcuni spunti di riflessione, partendo dall’affermazione di Edoardo Martinelli, ex allievo di Don Milani:

“L’attenzione era data ai bisogni degli allievi e all’apprendimento. Le abilità sociali nella nostra scuola avevano pari dignità delle discipline”[2].

Se tale affermazione, oggi, appare perfettamente aderente ai principi psicopedagogici più recenti che spostano l’asse delle strategie e delle metodologie didattiche sul fronte dell’apprendimento cooperativo e della metacognizione, si può solo immaginare quanto potesse apparire rivoluzionaria quando, come un diverso paradigma pedagogico,  andava a confrontarsi con un sistema chiuso e fortemente ancorato alla sola centralità del processo di insegnamento, per di più di tipo trasmissivo e classista.

Nell’esperienza della scuola di Barbiana, connotata dalla profonda frattura del sistema tradizionale di fare scuola, l’attenzione e la centralità dei bisogni dei ragazzi era riservata a quella fascia di alunni che la società del tempo “marchiava” e “riconosceva” come gli “ultimi”, vale a dire come coloro che erano predestinati – fin dalla nascita – ad occupare i gradini più bassi di una scala sociale gerarchizzata e, tendenzialmente, caratterizzata dall’immobilità. La società del tempo, d’altronde, considerava tali alunni come elementi “invisibili”, da relegare ai margini della società anche riproducendo e consolidando le diseguaglianze socioeconomiche e culturali presenti al suo interno ed impedendo, di fatto e anche attraverso un adeguato sostegno, quella mobilità sociale che avrebbe permesso un più generale miglioramento delle condizioni di vita delle classi più svantaggiate.

Dall’esperienza degli anni Sessanta ad oggi, molte cose sono mutate e,  pur se la garanzia della mobilità sociale e dell’equità degli esiti è chiaramente sostenuta anche in ambito europeo ed internazionale, continuiamo ad interrogarci su come e con quali strumenti sia possibile assicurare ad ognuno il diritto all’educazione e al successo formativo. Barbiana non è la scuola di una minoranza, dei poveri o dei derelitti, è la scuola di tutti.  Il discorso della centralità dei bisogni degli alunni, ad esempio, nella traduzione in prassi condivise viene sempre più accostato a specifiche modalità operative che consistono anche “nel prendersi cura” dell’alunno e nello sviluppo del suo personale progetto di vita… e, allora, come non ricordare che il motto della scuola di Barbiana si concentra nell’espressione “I care”?

Certo, nella scuola dei nostri giorni l’attenzione alla centralità dei bisogni degli alunni è meglio “sponsorizzata” di quanto non lo fosse all’epoca della “scuola privata” di don Milani e, proprio tali bisogni, hanno assunto un pieno riconoscimento anche grazie ad un processo di legittimazione che si nutre di una corposa serie di sigle. Lì, a Barbiana, c’erano semplicemente “gli ultimi”, mentre qui, nella nostra scuola, ci sono i B.E.S., i D.S.A., gli alunni stranieri e tanto altro per dire, in altri termini, che quell’alunno è diverso da un altro alunno. A ben guardare, però, nell’uno e nell’altro caso possiamo recuperare la distanza tra i vari soggetti proprio riferendoci  alla centralità del processo di apprendimento e, anche in questo caso, ci troviamo perfettamente in linea con il paradigma proposto dalla scuola di Barbiana.

Tra gli avvicinamenti e le distanze che entrano in gioco in questa riflessione, occorre evidenziare che la centralità del processo di apprendimento proposta da Don Milani è nettamente differente da come la intendiamo adesso, soprattutto, se  tale discorso  si lega alle modalità relazionali, ai tempi e agli spazi ove si compie il “rito” dell’insegnamento e si sviluppano i processi di apprendimento.

 

3. Sapere e saper essere

Oltre al sapere tradizionale, Don Milani ha saputo dare piena cittadinanza a quei saperi che non si imparano sui banchi di scuola, ma stando a contatto con la realtà in cui si vive, osservando gli altri fare e facendo in prima persona. Il sapere tradizionale, quello per intenderci basato su programmi preconfezionati e calati dall’alto attraverso la mediazione di uno o più docenti, nella scuola di Barbiana perde il suo primato per fondersi e con-fondersi con un nuovo modo di concepire l’apprendimento: un apprendimento che dal reale prende lo spunto per far sì che ognuno acquisisca quelle strumentalità di base per potersi riconoscere come un buon cittadino. Se don Milani lascia fuori dalla porta della sua scuola alcuni “totem” della scuola “normale” (vedi, ad esempio, il voto o lo pagella) è perché tali strumenti non descrivono o non sono funzionali a sostenere l’apprendimento degli alunni. Le valutazioni e gli esami nella scuola di Barbiana si svolgono non sul banco di scuola, ma nella realtà concreta che, man mano, gli alunni sperimentano in prima persona e ciò, a nostro avviso, precorre quel concetto di competenza che fonda, pur con le dovute differenze, l’attuale modello psicopedagogico della nostra scuola.

L’alunno di Barbiana è messo costantemente alla prova non tanto per avere un voto o un pezzo di carta quanto piuttosto per capire se il sapere, di volta in volta acquisito, si è trasformato in un saper essere ed in un sapere fare anche per saper interagire con gli altri. Naturalmente, questo tipo di valutazione comporta un processo di apprendimento che si forma e si con-forma sulle attitudini dell’alunno, sul suo stile di apprendimento, sui suoi tempi e su un rapporto alunno-docente che travalica la più classica delle impostazioni. Si dà più spazio alla relazione, al fare concreto, alla sperimentazione diretta della realtà e i tempi dei rapporti umani e sociali si dilatano o si concentrano anche in base alle risposte soggettive ed intersoggettive degli alunni.

Il contatto diretto con la realtà, tra l’altro, presuppone che si infrangano anche limiti spaziali; la scuola di Barbiana è lì in quello spazio angusto, ma è anche fuori di lì: è nell’ambiente più prossimo e, perfino, in quello più remoto. Ciò presuppone una costante e continua differenziazione delle domande, dei percorsi e delle risposte che sembra rispondere in pieno all’attuale logica dell’individualizzazione e della personalizzazione.

Pur nella piena consapevolezza che sarebbe quanto mai anacronistico riproporre tout court il modello della scuola di Barbiana, nulla vieta però che vi sia una rinnovata attenzione all’attualizzazione di tale modello poiché all’interno dello stesso sono facilmente riconoscibili aspetti e valori che continuano ad orientare la nostra scuola e la nostra società, al tempo stesso,  glocali e globali.

 

4. Scuola “in concreto”

La scuola di Barbiana, rispetto alla scuola tradizionale del tempo, rompe gli schemi di riferimento e si propone non tanto come un modello alternativo o parallello, quanto piuttosto come una scuola “diversa”, ove la costruzione della conoscenza avviene a partire dall’alunno concreto e facendo ricorso, già da allora, all’apprendimento di tipo cooperativo costruito su situazioni reali e mai fuori dal contesto.

Per cercare di capire come si svolgeva la giornata scolastica a Barbiana, la nostra attenzione si concentra su quanto ha dichiarato Edoardo Martinelli nell’intervista già richiamata in precedenza. Martinelli, infatti, alla domanda su come era strutturata la giornata scolastica nella scuola di Barbiana, risponde testualmente:

“Farei partire la giornata di Barbiana nel pomeriggio. Verso le 15 arrivava la posta e il giornale. La scuola aveva una grande rete di relazioni che si legava anche ai ragazzi che erano all’estero. Già a 13 o 14 anni stavamo mesi interi in Francia, in Inghilterra, in Germania per imparare le lingue e vivere esperienze concrete anche di lavoro. Era importante diventare autonomi e come si legge nella Lettera a una professoressa i viaggi all’estero equivalevano a esami!”

La ricerca dell’autonomia e l’essere cittadini del mondo erano punti fermi nella scuola di Barbiana e, oggi più di allora, sono obiettivi prioritari se si vuole formare futuri cittadini autonomi e responsabili.

Il discorso attorno all’autonomia è un tema sempre attuale e denso di criticità.  E’ cambiato il contesto, probabilmente ribaltato rispetto ai tempi di don Milani e, spesso, occorre fare i conti con situazioni diametralmente opposte: opulenza, distrazioni di massa, indifferenza giovanile e degli adulti verso la cultura, la parola, la solidarietà. Tutto è attratto dalla forza del profitto.   L’aspettarsi tutto o quasi tutto dagli altri, dai genitori, dallo Stato, è atteggiamento costante. Allo stesso tempo, è cambiata anche la percezione rispetto all’azione della scuola che da ipotetico  “ascensore sociale” (e Barbiana ribaltava gli schemi andando in quella direzione) ora è vista come una delle tante istituzioni, per giunta non sempre la più efficace. Tuttavia, resta immutata l’istanza che la società rivolge alla scuola: formare futuri cittadini, orientati a fare scelte consapevoli e ad assumere responsabilità personali e sociali. Il modello ideale del futuro cittadino non rifugge, pertanto, dal delineare il profilo di una persona autonoma e  critica.

Può la scuola assolvere ancora a tale mandato? E se sì, come?

Partendo dal presupposto che ogni autonomia personale non può dirsi tale se non si “allena” e si “confronta” nel e col sociale, non possiamo fare a meno di pensare alla rete di relazioni che legava fra loro i ragazzi di Barbiana. Attraverso l’in-contro con le differenti realtà di riferimento, il ragazzo di Barbiana veniva posto di fronte ad una serie di problemi reali e concreti la cui soluzione era a portata di mano se, a quello stesso ragazzo, si dava l’opportunità di sperimentare – in prima persona ed insieme agli altri – tutte le possibili soluzioni alle problematiche emergenti, legate anche ai trasferimenti in contesti diversi per imparare, oltre all’italiano, altre lingue e per svolgere finanche un’attività lavorativa.

Per fare ciò, prima del libro di testo, del quaderno e dei compiti tradizionali, l’alunno di Barbiana si sporcava le mani, si spaccava la schiena, si confrontava con i coetanei e gli adulti: provava in prima persona la fatica di imparare! Oggi nella nostra scuola capita poche volte di incontrare alunni che si sporcano le mani, che si spaccano la schiena o che si confrontano con i coetanei e con gli adulti all’interno di una rete di relazioni che manca di uno degli elementi essenziali: l’aderenza con il mondo reale, ossia con  un mondo che non si presenta come un pacchetto di contenuti disciplinari o di saperi preconfezionati da correlare a prove valutative, basate su scale numeriche e  standardizzate.

 

5. Cittadini si diventa

La scuola di don Milani era cooperativa, connessa alla realtà. Attraverso la lettura quotidiana dei giornali, entrava in classe il mondo. Da lì, da aspetti non scontati e talvolta apparentemente casuali, si sviluppavano percorsi di confronto, di approfondimento e di ricerca. Non vi erano programmi preordinati, mentre erano ben chiari al Priore gli aspetti educativi e formativi, le abilità e le competenze da acquisire, che man mano che il lavoro di scuola procedeva, venivano affinate, potenziate, equilibrate e messe alla prova.

Il porsi di fronte ad eventi reali da analizzare, affrontare e gestire – ovviamente – necessita di procedure organizzative e di metodologie incentrate non tanto sugli aspetti disciplinari, quanto e piuttosto su processi interattivi e “rivoluzionari” che richiedono anche l’esercizio di peculiari abilità relazionali e sociali.

Per taluni aspetti, il “ribaltamento” operato da don Milani o il suo dare pari importanza alle abilità sociali e alle discipline, non è stato ben colto dalla “nostra scuola” e (seppur sommersi dalle più buone intenzioni, magari anche suggerite nei Programmi e nelle Indicazioni) si continua a riproporre – anche inconsapevolmente – un meccanismo di selezione orientato dal prevalente peso delle discipline rispetto all’insieme di quelle abilità sociali che, molto spesso, non si apprendono sul banco di scuola ma sul banco della vita.

Le abilità sociali apprese nella scuola rappresentano solo alcuni aspetti delle abilità necessarie ad un cittadino autonomo e consapevole e, se non altro, nella scuola di Barbiana c’è sempre stata una maggiore attenzione a quella parte di educazione ora detta informale e non formale. A ciò va affiancato, come valore aggiunto, la più attenta gestione dei tempi dell’insegnamento, fondati tra l’altro su una maggiore attenzione alle singole individualità degli alunni.

Molti, in effetti, potranno osservare che nella nostra scuola si dà comunque ampio spazio allo sviluppo delle abilità sociali e su questo non possiamo che convenire, ma le abilità sociali  richieste nella scuola di Barbiana erano ben altra cosa.  E’ spontaneo, dunque, chiederci a  quale gruppo di abilità sociali facciamo riferimento come educatori così come è spontaneo chiederci a quali modelli di formazione ci ispiriamo quando abbiamo di fronte a noi l’alunno-persona, soprattutto per non cadere nella trappola delle ricette preconfezionate.

Essenzialmente, da una lettura molto critica, che affonda le sue radici nella filosofia strutturalista, anche noi professionisti dell’educazione siamo orientati  a dare ampio spazio a quel gruppo di abilità sociali che meglio ripropone il modello di scuola quale istituzione totale[3]. Di fatto, senza scendere negli articolati meandri della critica filosofica, nel rileggere “Lettera ad una professoressa”, troviamo chiaramente espressa la più appassionata e realistica critica dei ragazzi di Barbiana nei confronti di una  scuola classista e selettiva, riproduttrice di una stratificazione sociale e culturale che non lascia scampo agli “ultimi”.

La scuola, così come appare nella critica dei ragazzi di Barbiana, può anche essere vista come uno strumento di ortopedagogia sociale, al servizio di una società che non accelera processi di mobilità sociale e, anzi, li contrasta tacitamente al fine di riproporre precise posizioni sociali che si riconoscono anche dal possesso o meno di uno specifico capitale culturale[4].

Pur di fronte a molteplici perplessità, siamo convinti che la “nostra scuola” continui ancora ad assolvere al mandato di formare cittadini critici, autonomi e responsabili ma potrebbe farlo meglio se, all’interno di tale mandato,  recuperasse almeno gli elementi essenziali del paradigma della scuola di Barbiana, perché “Non c’è nulla che sia più ingiusto che far parti uguali tra diseguali[5].

 

6. La relazione che non c’è

Negli ultimi anni alcune scelte della politica scolastica non hanno facilitato la realizzazione di una scuola di qualità, ossia di una scuola che nell’erogazione del proprio servizio riesca a soddisfare sia le istanze dei differenti stekeholders che quelle della più vasta società di riferimento. Tuttavia, anche se alcune scelte possono apparire alquanto discutibili, il sistema- scuola, nell’esercizio della propria funzione pubblica, sembra reggere ancora quando ci riferiamo all’espletamento del mandato principale che fa delle istituzioni statali e paritarie i luoghi deputati “(al)la formazione di ogni persona e (al)la crescita civile e sociale del Paese”[6].

Recuperare l’eredità pedagogica della scuola di Barbiana per realizzare tale mandato, a nostro avviso, potrebbe rappresentare una grande opportunità per la scuola italiana. Un’opportunità che però  andrebbe gestita in maniera consapevole e mirata per non correre il rischio di incorrere in derive pedagogiche prive di significato.

Tra le scelte che ultimamente riconnotano l’articolazione del nostro sistema scolastico non possiamo fare a meno di segnalare, ad esempio, l’innalzamento abnorme del numero degli alunni per classe, con buona pace dei tempi distesi e dei rapporti docenti-alunni che rischiano di fare il verso alla macchinetta obliteratrice. Anche l’apoteosi del ritorno al “maestro unico” nella scuola primaria è un segnale che sembra non andare nella direzione della migliore scuola che educa alla collegialità, alla collaborazione e alla diversità dei punti di vista.

Di fronte a segnali di questo tipo, per dirla con le parole di Edoardo Martinelli, occorre

“Ricreare la relazione che non c’è. Per farlo bisogna che gli insegnanti ruotino, come a Barbiana, su più materie e meno ragazzi.”[7]

Ad intenderlo a dovere, Martinelli pone alla nostra attenzione un messaggio forte: bisogna ricreare la relazione che non c’è!

Ma a quale tipo di relazione si riferisce con tale affermazione?

A nostro avviso, sarebbe riduttivo pensare solo alla relazione educativa che nasce dall’interazione alunno-docente: c’è un livello più profondo di attenzione ed analisi che elicita  la necessità di ricreare la relazione che non c’è non solo rispetto al rapporto umano, ma anche rispetto alla relazione con l’ambiente di apprendimento, con il contesto civile e sociale, con la parola e con il sapere che si esprime anche attraverso il pensiero e la competenza.

Leggere, allora, questa “ricreazione” limitata alla sola relazione tra docente e discente non restituisce il pieno significato di un modello pedagogico che fonda sé stesso sull’autenticità del sapere, dell’essere e del fare.

Se appare opportuno qui condividere il senso più profondo del ricreare la relazione che non c’è, non possiamo fare a meno di osservare che, nonostante le contraddizioni prima evidenziate, vi sono segnali incoraggianti che piegano le scelte politico-ministeriali verso approdi di maggior vicinanza ai principi barbianesi. Ad esempio, ci preme evidenziare il richiamo nelle Indicazioni Nazionali all’unitarietà dei processi di apprendimento, al rispetto dell’alunno come persona di cui occorre aver cura soprattutto rispettandone i ritmi di crescita, le peculiarità delle attitudini e degli stili di apprendimento.

Paradossalmente, poi,  uno spazio embrionale di “barbiana” memoria, si può intravedere nella scuola dell’infanzia, laddove nelle Indicazioni per il curricolo  si afferma che il bambino per conoscere la realtà deve sperimentare, osservare, esplorare e rappresentare utilizzando tecniche e strumenti diversi non senza cogliere l’importanza della comunicazione, della relazione e del rispetto delle diversità. Letta così, per certi versi, sembra quasi che la scuola degli “ultimi” sia meglio “ricompresa” nel progetto educativo-didattico della scuola dei “piccoli”! E che dire poi delle costanti sollecitazioni ad utilizzare una didattica collaborativa e cooperativa nella scuola secondaria di secondo grado quando, proprio in riferimento a tale impostazione, va ad incidere sulla metodologia dell’insegnamento di alcune discipline?

Sulla scorta di quanto sin qui detto, ci preme sottolineare che la sfida più grande che la scuola italiana potrebbe cogliere nel ricreare una relazione che non c’è, consisterebbe sia nel recuperare l’eredità della scuola di Barbiana, sia nella possibilità di  realizzare – sulla scorta di tale eredità – una più efficace offerta formativa nei percorsi di alternanza scuola-lavoro, nei percorsi per la  formazione professionale e nei percorsi di formazione per gli adulti.

 

7. Rigore e tecnologie

Il cosmo didattico tracciato da Don Milani si può immaginare come una costellazione ricca di spunti, idee e sollecitazioni tratte dalla vita quotidiana e da ciò che accade nella società, affrontate con la professionalità, con la consapevolezza e con il rigore degli obiettivi disciplinari, fondamentali per conoscere, prendere la parola, dialogare, far valere i propri diritti. Sullo sfondo di tale costellazione appare, di non poca importanza, la corrispondenza tra parola e pensiero che restituisce il senso più autentico della realtà e della stessa relazione educativa.

Già, la parola: l’intuizione, semplice e rivoluzionaria, di far passare la libertà di espressione attraverso al parola. Perché la parola che non si conosce, la parola che suona come un’armonia sconosciuta e incomprensibile, fa paura e le persone che non hanno la parola scappano, scompaiono, sono invisibili. Con la parola, invece, le persone non hanno paura e posseggono l’arma più potente per poter fronteggiare l’invisibilità che deriva anche dalla non libertà di pensiero, dall’incapacità di avere una propria visione sul mondo e sulle cose, dall’impossibilità di potersi sentire cittadini autonomi e responsabili.

L’aderenza tra parola e pensiero è  il messaggio più forte che si intravede nell’eredità della scuola di Barbiana e sarebbe interessante recuperarne, oggi, la sua più intima essenza al fine di

sperimentarne nuovi contesti d’uso.

La domanda che  ci poniamo, in tal senso, di fronte alle caratteristiche che ha assunto la nostra società, è come conciliare il paradigma pedagogico della scuola di Barbiana nell’epoca di un accelerato sviluppo tecnologico e scientifico. Nel tentativo di darci una risposta, proveremo ad operare una “proiezione” per descrivere, a nostro avviso, cosa penserebbero i ragazzi di Barbiana di fronte al fenomeno di Internet e della condivisione globale.

Sicuramente, i ragazzi di Barbiana apprezzerebbero internet e lo vorrebbero piegato al sapere, alla ricerca, alla libertà di espressione e di pensiero; utilizzerebbero le potenzialità di tale strumento per conoscere i segreti delle discipline, delle scelte e delle scoperte concentrando in un click questo nuovo modo per ricercare informazioni e costruire un sapere significativo attraverso il confronto critico con gli altri e con la realtà. Ancor più sicuramente, i ragazzi di Barbiana utilizzerebbero le possibilità offerte dalla “grande rete” per sperimentare nuove modalità di scrittura collettiva, attualizzando in chiave tecnologica quell’esperienza così feconda di produzione dei testi collettivi che coinvolgeva gli alunni dai 15 ai 20 anni. Infine, e di questo siamo quasi certi, dispiegherebbero l’uso di tale strumento anche verso obiettivi di cittadinanza, perché affrontare i problemi e uscirne da soli è avarizia, uscirne tutti insieme è  politica.

Tra avarizia e politica, così come insegna don Milani, noi preferiamo la politica: un tipo di politica che si fonda sull’autenticità delle relazioni e sulla cooperazione per raggiungere il bene sociale e civile.

 

8. La scrittura collettiva.

Tra le metodologie applicate a Barbiana occupa un posto centrale la “scrittura collettiva”. E’ una tecnica sperimentata all’interno della scuola di Barbiana al fine di produrre testi condivisi e, l’esempio più eclatante della portata di tale tipo di scrittura, è rappresentato nel testo che diventerà l’emblema stesso di quella piccola scuola, fuori dal mondo. In “Lettera ad una professoressa” emerge, infatti, tutta la portata innovativa “dell’arte umile della scrittura collettiva”.

Don Milani utilizzerà questo tipo di scrittura come una vera e propria arte ed offrirà ai suoi studenti occasioni di incontro e confronto per utilizzare in maniera differente le logiche che presiedono i processi cognitivi collegati alla produzione di messaggi comunicativi efficaci. Il metodo della sua scrittura collettiva,  sostanzialmente, parte dal dialogo fra docenti ed allievi e in tale incontro vengono create le condizioni affinché si possa:

–  arricchire il patrimonio linguistico;

–  attivare il confronto intersoggettivo facendo circolare le idee;

–  negoziare i significati e i contenuti;

– operare confronti e sintesi per giungere solo alla fine e, dopo ampie discussioni, alla produzione di un testo collettivo.

Ovviamente, ciò che più colpisce “nell’umile arte della scrittura” così proposta, è la riflessione sulla lingua e, dunque, sulle parole e sui significati che richiede sì tempi distesi, ma che porta, comunque, all’elaborazione di testi anche di una certa complessità in cui tutti i “coautori” hanno avuto la possibilità di negoziare la miglior sintesi possibile.

Per ovvie ragioni, non potendo qui fare un discorso più lungo ed approfondito, ci teniamo a ribadire che proprio la scrittura collettiva rappresenta uno degli elementi portanti del paradigma pedagogico di don Milani e, pertanto, invitiamo coloro che ci leggono a prendere visione di uno dei frammenti più significativi di quella che, giustamente,  riteniamo il “gioiello più prezioso” dell’eredità di Barbiana (www.barbiana.it/LODI-MILANI.html).

La portata pedagogica della scrittura collettiva così interpretata, giustifica anche le affermazioni che  Martinelli fa a proposito del tempo scuola quando afferma che:

Il tempo scuola va recuperato in tempo di attenzione e questo può avvenire solo se l’educatore usa strategie in apprendimento cooperativo. In un tempo rallentato che consente l’attenzione e la riflessione.”

Non a caso, riteniamo che quanto detto da Martinelli possa assumere un significato più pregnante solo se si tiene conto di quanto scrive don Milani il 2 novembre 1963 per descrive il metodo ad un maestro di una piccola scuola di Vho di Piadena. Il maestro in questione è Mario Lodi e la lettera inviata contiene il seguente passo:

Le descrivo come abbiamo proceduto. Primo giorno: un intero pomeriggio (5 ore) a disposizione per comporre liberamente una lettera a voi sul tema: “ Perché vengo a scuola ”.  Secondo giorno: un altro pomeriggio a leggere a alta voce i lavori appuntando via via su dei foglietti tutte le idee, le frasi, le espressioni particolarmente felici. Terzo giorno: una mattinata a riordinare questi foglietti su un grande tavolo per dar loro un ordine logico. Dopo di che si stabilisce che lo schema del lavoro sarà il seguente:  sul principio: noi – i nostri genitori; ora: scoperta degli ideali di questa scuola. Nostra risposta parziale per: debolezza nostra – pressione: dei genitori – del mondo. Quarto giorno: un intero pomeriggio (5 ore) per rifare ognuno da sé la lettera seguendo però obbligatoriamente lo schema fissato in comune.  Quinto giorno: mattina e sera. Tutti insieme. Ognuno legge a alta voce la sua soluzione per il primo punto dello schema. Dopo di che si stabilisce il testo comune composto sulle migliori espressioni d’ognuno. E così per gli altri punti dello schema. Questo testo risulta di 1128 vocaboli. Sesto giorno: si detta il testo accettato perché ognuno ne abbia una copia davanti. Un intero pomeriggio (5 ore) in cui ognuno annota in margine (s’è scritto su mezza pagina) le proposte di correzioni, tagli, esemplificazioni, aggiunte di concetti trascurati ecc.  Settimo giorno: mattina e sera. Ottavo giorno: mattina e sera. Nono giorno: mattina. Proposizione per proposizione ognuno dice a alta voce le correzioni che propone. Si discutono e accettano o meno a alta voce mentre uno scrive il testo definitivo che qui vi accludiamo. Il testo che risulta da questo lavoro è composto da 823 parole. Il testo è perciò diminuito di ben 305 parole pur essendo arricchito di molti concetti nuovi. Il lavoro di questi ultimi tre giorni è stato entusiasmante per me e per i ragazzi. Straordinaria la possibilità, in questa fase, dei più piccoli di trovare qualche volta soluzioni migliori dei grandi. Pochissima incertezza: in genere la soluzione migliore s’impone molto evidentemente alla preferenza di tutti”.

 

9. Equità sociale ed equità scolastica.

Se mettessimo a confronto le generazioni di giovani degli ultimi cinquanta anni non avremmo dubbi sui consistenti cambiamenti. Sono cambiate le aspirazioni, i costumi, le idee e i comportamenti.

Partiamo da presupposti molto semplici che sono sotto gli occhi di tutti: oggi è alquanto diffusa, ad esempio, l’indifferenza generalizzata, l’apatia, l’estraniamento dal reale, la mancanza del senso del limite. Le nuove generazioni, in assenza di punti di riferimento certi, riflettono il proprio disorientamento in comportamenti violenti e incomprensibili, rompono gli schemi di riferimento e trasgrediscono le regole, arrivando anche a stravolgere completamente quei comportamenti civili e sociali che ci consentono di vivere insieme agli altri e di percepirci come una comunità.

Quanti alunni, ragazzi che vediamo tutti i giorni in classe, sono realmente così? Tanti, sicuramente troppi. E la scuola è impotente o volutamente impotente?

Sono sintomi che devono farci riflettere. In altre parole, il testimone per continuare la corsa, come nelle staffette, si è perso per strada. Il futuro ha perso il suo senso messianico e si è insinuata la convinzione che tale dimensione temporale sia piena di minacce.

Lo smarrimento del senso messianico si ripercuote anche sulle prestazioni personali e, molto spesso, la scuola diventa il “palcoscenico più attrezzato” per poter esprimere disagi interiori e difficoltà esistenziali. Di fronte a tali manifestazioni, capita che si arrivi a compromettere la vera natura dell’interazione docente-discente e,  a sua volta, tale compromissione può determinare nelle pratiche quotidiane del fatto educativo finanche un atteggiamento  rinunciatario da parte dei docenti, arrivando a condizionare negativamente la natura stessa del processo di insegnamento/apprendimento. Ciò è maggiormente comprensibile se facciamo nostro quel passo della Lettera ad una Professoressa, laddove si afferma che:

Così nella pratica quotidiana dell’educazione, si passa dall’invito al desiderio (la pulsione epistemofilica freudiana) a una variante più o meno dura di quello che potremmo chiamare apprendimento sotto minaccia[8].

Ed appare ben più comprensibile, allora, la creazione di un circuito vizioso che se da un lato tratteggia la problematicità della condizione esistenziale degli adolescenti, dall’altro chiama direttamente in causa il discorso della professionalità docente. La forza devastante di tale circuito è ben riconoscibile nel passaggio della Lettera, rivolto agli insegnanti, al limite dell’eresia:

… Io vi pagherei a cottimo. Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O, meglio, multa per ogni ragazzo che non ne impara una. Allora l’occhio vi correrebbe sempre su Gianni… Non vi dareste pace, perché la scuola che perde Gianni non è degna di essere chiamata scuola…”[9].

E alla dimensione eretica non si può non far seguire la dimensione profetica da affidare ad un altro passaggio:

Abbiamo volutamente trascurato il problema delle classi differenziali  e di aggiornamento. Quando funzionano sono la cosa più bella che abbiate. Ma se farete scuola a tempo pieno non ne avrete più bisogno[10].

Dando alla scuola a tempo pieno il significato di scuola di qualità, in grado di dare risposte a tutti gli alunni si è voluto fare, certamente, un aggancio concreto alla situazione del tempo e, a dir il vero, per alcuni aspetti sarebbe auspicabile anche in alcuni contesti sperimentare una soluzione del genere. Ci rendiamo conto, però, che i tempi sono cambianti e con essi cambiano anche le esigenze dei nostri alunni e della società, ma non il diritto di ciascuno ad una scuola non classista, in grado di mettere le ali agli ingegni degli alunni.

Il continuo riferirsi ad una scuola di qualità, così come decritta nei documenti ufficiali e non, è  sì un diritto per tutti gli alunni[11], ma è una realtà ancora tutta da costruire anche attraverso la disseminazione delle buone pratiche e la riflessione sulle esperienze passate può orientarci in tal senso. Dobbiamo, però, fare i conti con una realtà che non sempre è dalla parte della sperimentazione e della disseminazione delle buone pratiche anche ricordando che l’attuale politica scolastica si fonda sulla logica della razionalizzazione e della spending review.

Lo stesso Martinelli, a proposito delle buone pratiche, ha avuto modo di affermare che:

Quando mettiamo 30 ragazzi, penso in particolare alla scuola secondaria, in 4 m X 4, con una campanella che suona ogni tre quarti di ora è logico che la buona pratica non è più possibile.”

La relazione spazio-tempo, d’altronde, è un altro fattore essenziale per una scuola di qualità e come non dimenticare lo schema pedagogico della scuola di Barbiana che richiama costantemente queste due dimensioni come specifici elementi sui quali costruire una corretta interazione con il soggetto che apprende?

Un ulteriore sguardo di approfondimento che si collega direttamente alla reciprocità esistente tra lo spazio e il tempo chiama direttamente in causa il discorso dell’attenzione, fattore anche questo fortemente protagonista nel contesto di Barbiana, laddove l’attenzione viene concepita come uno degli elementi più importanti per promuovere processi di apprendimento autentici e calati su compiti di realtà. E, allora, come non condividere le parole del già richiamato Martinelli quando afferma che:

“Ho avuto incontri con i ragazzi dell’autogestione in diversi contesti sia a Firenze che nel Bolognese. Mi raccontavano facendo calcoli appropriati che il tempo di attenzione nella scuola era solo del 20 %. Nell’altro 80% scaldavano i banchi. Del resto se guardiamo le statistiche di Tullio De Mauro sulla dispersione scolastica scopriamo che l’80% degli italiani non sa più né leggere né scrivere. Questo è il risultato drammatico della scuola italiana, insieme al fatto che l’ASL dei Milano ci comunica che 6 insegnanti su 10 sono disturbati psichicamente.”

 

10. La parola agli studenti e alle studentesse

L’ipotesi di un rilancio della pedagogia che ha sostenuto l’elaborazione del testo collettivo “Lettera ad una professoressa” non vuole essere un consiglio: è un appello, una richiesta di aiuto, un tentativo per contrastare le molteplici difficoltà che l’universo scolastico deve affrontare, facendo per di più i conti con scelte politiche estremamente discutibili. La scuola italiana vive un disagio che emerge prepotentemente dalle parole degli studenti e dai risultati di recenti indagini.

Come evidenziato, ad esempio, dal report del Ministero dell’istruzione (giugno 2013) sulla dispersione scolastica o come si evince dal dossier sugli Skills Outlook 2013 (Ocse, 2013), il nostro sistema d’istruzione ha ingranaggi fuori asse, sbanda sulla capacità di offrire una sponda certa per l’acquisizione di strumenti abili all’inserimento nel mondo del lavoro, tracima rovinosamente sulla percezione della capacità della scuola di interpretare il ruolo di compartecipante con gli studenti e i genitori alla crescita e alla formazione con strumenti efficaci. La denuncia più forte, però, vede sul banco degli imputati la relazione educativo-didattica.

Una recente ricerca, ad esempio, pur prendendone i risultati con morigerata determinazione, rileva preoccupanti scricchiolii[12]. Circa la metà dei 318 studenti di scuola secondaria di secondo grado (Milano e Perugia), in un’indagine preliminare pre-test che ha utilizzato lo strumento del questionario cartaceo, ha dichiarato di aver ricevuto offese dai propri insegnanti. Quasi un terzo ha affermato di aver vissuto situazioni in classe ascrivibili all’“umiliazione pubblica”, con tutto quello che consegue a livello emozionale trattandosi di età adolescenziale nel contesto dei pari. Non solo. La relazione docente-discente naviga su mari tempestosi col timore, con la paura di ritorsioni o di non ben chiare reazioni da parte dei docenti anche solo per la richiesta di ulteriori spiegazioni in caso di non comprensione della lezione per quasi il 55% degli studenti che hanno partecipato alla rilevazione. Un risultato, questo, che la dice lunga sul grado di condivisione, di coinvolgimento, di partecipazione attiva alla costruzione del percorso di apprendimento da parte degli alunni. Il 70% dei ragazzi ha registrato “qualche volta” o “spesso” scarsa chiarezza nella comunicazione degli insegnanti durante lo svolgimento delle lezioni ed uno studente su dieci dichiara di aver subito “abusi valutativi”, con scarsa o del tutto assente trasparenza sui criteri di assegnazione del “voto” od un uso punitivo oppure funzionale all’intimidazione. Come se non bastasse, le difficoltà della relazione didattico/educativa si connoterebbero anche per una scarsa conoscenza, da parte dei ragazzi, dei propri diritti e doveri in quanto studenti e studentesse. Quasi l’80% del campione sottoposto ad indagine, difatti, non ha mai ritenuto opportuno leggere lo Statuto delle Studentesse e degli Studenti.

Senza entrare nel merito dell’indagine, che apre uno squarcio su temi poco conosciuti, ci sembra giusto riportare i dati rilevati affinché ognuno possa meditare sulle percezioni che gli alunni hanno della relazione educativa sottolineando però il fatto che, molto spesso, essi non sono neanche consapevoli degli strumenti che possono agevolare la loro partecipazione attiva nel mondo della scuola.

 

11. Scuola, inclusione e Costituzione

Cosa penserebbero i ragazzi di Barbiana rispetto alle forme dell’inclusione oggi in discussione? Probabilmente non si entusiasmerebbero: vedrebbero troppa distanza tra il dire e il fare e, da quelle parti, troppi sofismi ed elucubrazioni non erano ben visti.

La passione di maestro del Priore era davvero rivoluzionaria e radicale e poggiava su due leve, quella del Vangelo inteso in maniera pienamente umana e quella civica che nasceva dalla Costituzione e dalla voglia di farla vivere sul serio. Don Milani viveva ciò con tutto se stesso, giorno e notte, e vivere la scuola in questo modo per centinaia di migliaia di insegnanti è esperienza improponibile e  irripetibile.

Crediamo che l’efficacia della sua didattica – laboratoriale, individualizzante e personalizzante – sia venuta dal profondo convincimento della sfida che lanciava alla “professoressa”. Maturava le sue proposte didattiche partendo dai ragazzi e dai loro bisogni, immedesimandosi, entrando nelle loro teste e nelle loro vite, stimolando le loro risorse e le loro capacità, non facendo loro mancare niente di essenziale ed importante, ma, nel contempo, non indulgeva in facili accomodamenti e chiedeva sforzi, sacrifici, responsabilità, diritti e doveri.

Don Lorenzo si poneva un compito altissimo: far maturare in tutti gli strumenti della conoscenza, della cittadinanza e della partecipazione; farli uscire dalla subordinazione culturale e materiale, farli camminare a testa alta perché istruiti e capaci di esercitare diritti e doveri, di essere cittadini del mondo. Bisogna però tenere presente, come detto, che Barbiana è un’esperienza abbastanza unica e per certi versi inimitabile: altra cosa è far funzionare il complesso sistema della scuola italiana che abbraccia un Paese lungo e pieno di contrasti e che oggi vive una profondissima crisi d’identità. Per certi versi “quella” scuola era una scuola “privata”, anche se – a differenza di quella pubblica con le sue solenni leggi e reiterate “grida”- non solo ha insegnato veramente la Costituzione, ma l’ha insegnata facendola vivere. Eppure, se riuscissimo ad avvicinarci a quella linfa vitale che la nutriva, a quei pochi principi di fondo che la guidavano (l’istruzione come conquista e liberazione, i principi della Costituzione, il valore della pace ed il ripudio della guerra, il valore e la forza delle parole – cercate, soppesate, scolpite – la giustizia sociale, il dovere della solidarietà, la libertà e la responsabilità) se un pizzico della fiamma che bruciava dinanzi al “santo scolaro”  riuscissimo a farlo entrare in tanti, in tutti noi, la scuola italiana sarebbe più efficace e diretta, le parole sarebbero più sobrie e più vere e i bisogni dei nostri ragazzi più vicini e rispettati.

Barbiana è irripetibile, ma è anche un’inestimabile risorsa. Se riuscissimo a rimettere in circolazione un po’ del suo “spirito”, la scuola italiana (e non solo) potrebbe ritrovare lo slancio per invertire la china e riprendere il cammino.

 

12. Note conclusive

Questa nostra breve immersione in alcuni degli aspetti fondamentali del paradigma pedagogico utilizzato nella scuola di Barbiana, in pratica, ci ha offerto la possibilità di comprendere che lungo ancora è il cammino da percorrere affinché nella scuola si realizzino quei principi di equità scolastica e, ancor più lungo, appare il cammino per realizzare nella nostra società il principio di equità sociale. A nostro modesto avviso, ripercorrere i sentieri già esplorati da don Milani utilizzando come chiave di lettura la nostra contemporaneità rappresenta per la scuola un’occasione da non  perdere, un’ulteriore chance per riscoprire orizzonti già esplorati, ma sempre nuovi poiché il materiale umano che si offre alla “formazione” è, per sua natura,  sempre unico ed irripetibile.

E’ vero che per fare una buona squadra ci vogliono buoni atleti che siano disposti a sacrificarsi e ad allenarsi. Ma quando si scende in campo non basta saper fare scorribande sulla fascia destra o essere abili a colpire il pallone con la fronte. Serve il gioco di squadra. E’ il senso della cooperazione, del sentirsi parte di un sistema-squadra che può far vincere la partita. Lo facciamo e lo facciamo spesso, diciamo noi docenti a chi ci interroga a tal proposito. Ma ne siamo tanto sicuri?

Un conto è invitare a fare lavori di gruppo, un altro è impostare la didattica mettendoci dentro, fin dalle fondamenta, la cooperazione o la peer education, l’alunno più bravo che trasferisce per osmosi le sue capacità all’alunno meno bravo, l’alunno con difficoltà che trova nel gruppo il modo per compensare le proprie incertezze. Non un modo per fare le cose più in fretta e con più facilità. Al contrario. Un modo per imparare ad essere in relazione positiva con gli altri.

Antonietta Damiano, Napoli

Giovanna D’Onghia, Bari

Saverio Fanigliulo, Taranto

Giancarlo Onger, Brescia

Giuseppe Prosperi, Rimini

Marco Renzi, Arezzo

Domenico Sarracino, Arezzo

Alessandra Silvestri, Roma


[1] L’articolo è frutto di un lavoro a più mani. La modalità di scrittura utilizzata per la stesura del testo è di tipo cooperativo. Gli estensori fanno parte della web community  ‘chiamalascuola’ che conta oggi più di 4000 membri. Di seguito, in sintesi, le fasi di lavoro: 1. Invito ad Edoardo Martinelli, ex allievo della scuola di Barbiana, ad entrare nella web community e a sottoporsi ad un’intervista elaborata dai membri di chiamalascuola grazie a google drive. 2. Intervista in modalità sincrona. 3. Revisione dell’intervista e pubblicazione 4. Fase di brain-storming per sollecitare spunti di riflessione sull’intervista. 5. Stesura prima bozza dell’articolo. 6  Stesura intermedia. 7. Revisione. 8. Raccolta osservazioni lettori non partecipanti alla stesura del testo. 9. Revisione finale. 10. Pubblicazione. Per la scrittura collaborativa ci si è avvalsi di “google drive”.

[1]Edoardo Martinelli, ex allievo di Don Milani a Barbiana, ha partecipato alla stesura di “Lettera a una professoressa”.

[2]Edoardo Martinelli, discussione con la Web Community chiamalascuola: https://www.facebook.com/groups/chiamalascuola.it/permalink/668690049837118/

[3]Si veda a tal proposito la critica alla scuola di  M. Foucault.

[4]Si veda a tal proposito la critica di P. Bourdieu ne La Riproduction (1970).

[5]Alunni della scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.

[6]In “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione”, 2012

[7]M. Benasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2005.

[8]Alunni della Scuola di Barbiana, op. cit..

[9]Ivi.

[10]Ibidem.

[11]Si veda Dichiarazione dei diritti del fanciullo, artt. 28 e 29, 1959.

[12]Federico Batini, Francesca Manna, Paolo Mottana, “Il disagio nella relazione didattico/educativa a scuola”: http://rivista.edaforum.it/numero22/monografico_Batini.html  LLLForus on, 8/22.

[12]La ricerca ha dato spunto per un approfondimento curato da Vera Paggi su Rai News Scuola: http://consumi.blog.rainews.it/2014/02/07/consumiconsumi-scuola/

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