Piange il bambino

Piange il bambino

di Umberto Tenuta

 

Piange il bambino, piange il fanciullo, piange l’adolescente, piange finanche il giovane che le sue lacrime nasconde.

Piangono, perché a scuola non vogliono andare.

Piangono perchè i compiti non vogliono fare, né a scuola e neppure, e ancor più a casa.

Piangono perché studiare è una pena, è una sofferenza, è un dolore, un dolore grande.

Concepiti da un atto di amore, i bimbi sono nati nel caldo grembo materno di madri amorose, di madri con la gioia nel cuore, di madri che i loro figli per lunghi nove mesi hanno tenuto nel caldo dei loro grembi.

E per nove mesi li hanno nutriti di gioia, di gioia di aver dato loro la vita, di aver dato al mondo un nuovo uomo, una nuova donna.

Mistero senza fine bello!

E lì, i bimbi hanno sentito il caldo amore materno e del suo sangue si sono nutriti, si sono ossigenati.

E lì, nel caldo grembo materno i bimbi hanno cominciato ad alimentarsi ed a crescere, a divenire grandi, grandi, velocemente, molto velocemente.

Avevano fretta di crescere, di divenire grandi, di nascere al mondo dell’uomo.

E si sono nutriti di sangue materno, e non solo!

Si sono nutriti muovendosi, agitandosi, toccandosi, esplorando le pareti dal grembo materno, terra patria, loro comos da conquistare, da fare proprio.

E a cinque mesi hanno cominciato a ricevere voci da un altro mondo, dal mondo che li aspettava con la sua luce, con il suo panorama di colori, di forme, di voci…

Hanno ascoltato, in compagnia delle loro madri, le musiche di Mozart, di Bach…

Hanno ascoltato le mille ninne nanne delle madri che non si stancavano mai di cantar loro, per addormentarli, per farli riposare dalla febbre della conoscenza che li portava a muoversi, ad agitarsi, a toccare le pareti del grembo materno.

Oh quanti suoni, quante musiche, quante lingue hanno ascoltato prima di nascere, pronti a continuare in un mondo più grande, perché il grembo materno più non li conteneva.

E nati alla luce del loro primo mattino su questa terra di uomini e di donne come loro, li hanno guardati incantati, facendo mille promesse a se stessi, alle madri ed ai padri.

Sin dal primo vagito, sin dal primo respiro di aria, hanno cominciato ad assaporare il dolce latte della mamma, il dolce tocco della sua mano, le dolci carezze del loro papà.

Hanno aperto gli occhi, hanno aperto la bocca, hanno aperto le braccia, nella loro sete, nella loro fame di alimentarsi, di crescere, per divenire grandi, adulti, uomini e donne.

Oh quante cose hanno imparato nel loro primo anno di vita!

Un mondo di luci, di colori, di suoni, di voci, di forme, di cieli…

Hanno imparato a conoscere la mamma e il papà, hanno imparato ad usare le mani per appropriarsi dei balocchi, per far suonare le campanelle…

Una sete di esplorare, di sperimentare, di fare, di crescere li ha divorati…

Quanto amore del sapere, del saper fare, del saper essere grandi e forti e belli!

Il primo anno, un mondo hanno esplorato.

A due anni erano già piccoli grandi uomini, piccole grandi donne, con gioia, con amore.

E, poi, una corsa frenetica, un desiderio sempre più grande di ascoltare, di comunicare, di correre, di parlare, di prendere, di guardare, di far tutto loro, tutto racchiudere nelle loro testoline.

A un anno pattinavano, a tre parlavano due lingue.

A quattro anni erano a metà del cammino della loro vita.

Ne restava un’altra metà, la più difficile, la più complessa, ma sempre attesa, sembra agognata, sempre amica.

E, invece, invece, le prime avvisaglie già nella scuola dell’infanzia che solo qualche volta materna non è.

Poi la scuola primaria.

Ahi, che dolori!

Apprendere a leggere, a scrivere, a far di conto, a imparare la geografia e la storia sul sussidiario!

Quanti dettati, quante operazioni aritmetiche, addizioni e sottrazioni, con riporto e col prestito, di cui non capivano il significato!

E poi i problemi che non erano problemi, che non erano i loro problemi, e le misure che non misuravano i loro desideri. E alla fine le tabelline che quello sciagurato Pitagora ha inventato.

Valle a ricordare tutte le tabelline, a menadito, come pretende quella maestra lì!

Sai, ad un certo punto, la noia ti prende, e qualche sbadiglio nascosto ti scappa, nella speranza che la maestra non lo avverta.

Ma i compiti sono compiti, mica sono le filastrocche della mamma cara!

Qui vengono i doveri, dovere di imparare, dovere di studiare, dovere di ripetere, una, due, dieci, venti volte, tante volte fino a quando le cose non ripeti meccanicamente, senza difficoltà, senza capire.

Ma nella scuola primaria, tutto sommato, forse te la cavi, più o meno bene, con qualche ferita, con qualche lacuna, con tante cose che potevano essere e non sono state.

I guai arrivano poi, quando arriva la scuola secondaria, dove non c’è più la maestra dalla penna rossa, ma c’è la professoressa di italiano, di storia, di geografia, oddio di matematica, di scienze, addirittura di educazione musicale.

Quante materie, quanti professoresse e professori, l’uno diverso dall’altro, ai quali tutti pure ti devi adattare.

Mica puoi pretendere che essi si adattino  a te, a te!

Ma chi sei tu?

Uno dei venticinque, il quarto sul registro di classe digitale sei, ma sempre con l’elenco dei nomi, senza una fotografia a colori di te, dei compagni non più compagni, non più amici, ma rivali per un SETTE da sospirare, un SETTE da pretendere tu e non la tua compagna che pure simpatica ti comincia a sembrare, ma tua rivale rimane nell’albo del disonore della classe, scolaresca senza volti, senza nome, sì, scolaresca, sì classe I A, I B, I C…

E, allora, allora, lotta continua, lotta con le compagne di scolaresca, lotta con la Professoressa di Geografia che tutti i nomi di tutti i fiumi d’Italia e dell’Egitto vuol che tu ripeta, anche se questi benedetti maledetti fiumi mai tu hai visto scorrere.

Ogni giorno è una lotta, ogni giorno ha la sua pena.

Ma come?

Non era nata la bimba con l’amore del sapere, con la innata curiosità umana?

Chi gliel’ha fatta perdere questa curiosità onnivora? Chi la gioia ha trasformato in pianto, non pianto di gioia, ma pianto di dolore?

Che importa sapere chi, come, quando, dopo?

Importa solo che la gioia, la gioia di imparare, di crescere, di diventare grandi, adulti, cresciuti, qualcuno non ha fatto nulla per coltivarla, per alimentarla, per farla crescere, o almeno per non farla morire, come sta morendo, come questi pianti testimoniano.

Beh, una cosa, una sola cosa, o egregi Professori, io vo’ dire.

La dico.

Non fate piangere questi adolescenti!

Fateli crescere nel desiderio di conoscere, di apprendere, di imparare.

Fate che per loro lo studio sia fedele a se stesso, sì amore del sapere.

Sapete, non c’è amor più grande nei giovani, non c’è amore più grande di quello di crescere, di vivere, di divenire alti, adulti, uomini.

Ogni figlio di donna nasce con questo amore, con l’amore di conoscere, con l’amore di saper fare, con l’amore di essere ricco di virtù e conoscenze.

Di tutte le virtù umane, di tutte le virtù che gli uomini hanno fatto nascere nei loro cuori lungo il corso dei millenni.

Di tutte le conoscenze che gli uomini hanno inventato nel lungo cammino dei secoli.

O Maestre, o Professoresse, non accontentatevi dei trenta esercizi sul quaderno, non accontentevi delle trenta risposte esatte ai quiz, non accontentatevi di tutte le definizioni…

Oh Maestre! Oh Professoresse!

Mirate più in alto.

Non dovete accendere fuochi.

Vi basta non spegnere e soprattutto vi basta alimentare il fuoco dalla conoscenza, il fuoco che Prometeo rubò agli dei per farne dono agli uomini.

Ma se potete, se sapete, accendete nuovi fuochi,  perché i vostri giovani studenti sorridano alla vita, bramosi della gioia della conoscenza, scienziati in erba, filosofi nati.

E. soprattutto, senza pianti, sempre con la gioia nel cuore, nel cuore fanciullo dell’artista, dello scienziato, del filosofo, dell’uomo, nell’intero cammino della vita.