Una possibile lettura del Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia

Una possibile lettura del Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia

di Margherita Marzario

Abstract: L’Autrice ci offre un commento del Preambolo del più importante atto internazionale sull’infanzia navigando in un mare di riferimenti letterari e specialistici per riscoprire, ancora una volta, la bellezza del diventare ed essere famiglia.

 

Nell’art. 45 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 20 novembre 1989, a New York) si stabilisce di “promuovere l’effettiva applicazione della Convenzione” e, in più punti degli articoli precedenti, si parla di piena realizzazione dei diritti del fanciullo e degli obblighi contratti in virtù della Convenzione. Sarebbe interessante, per conoscere meglio la Convenzione e concretizzarne l’attuazione, rileggere – attraverso citazioni di scrittori ed esperti – il suo Preambolo, come il miglior progetto ispiratore di qualsiasi progetto (dall’educazione alla legislazione) che riguardi il bambino e che guardi il bambino come il massimo progetto di vita.

“È il momento di guarire dalla sindrome dell’abbondanza” (Giovanni Bollea, padre della moderna neuropsichiatria infantile italiana). Nel secondo capoverso del Preambolo si parla di “un migliore tenore di vita in una ampia libertà”: l’abbondanza diventa soffocante, induce a falsi bisogni e non consente delle libere scelte perché si ha tutto, pertanto è diseducativa. Bisogna, invece, dare il necessario (soprattutto quelle competenze affettive, relazionali e sociali) per “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera” (art. 29 lettera d Convenzione).

L’enunciato più significativo del Preambolo è contenuto nel quinto capoverso: “Convinti che la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli debba ricevere l’assistenza e la protezione necessarie per assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità”. “È una famiglia disturbata quella in cui ogni membro ha un ruolo fisso, e la comunicazione è rigidamente limitata alle espressioni che si adattano a questi ruoli. Nessun membro è libero di esprimere pienamente le sue esperienze, i desideri, i bisogni e i sentimenti, ma deve limitarsi a recitare la sua parte, in conformità a quella che recitano gli altri componenti della famiglia. In tutte le famiglie esistono dei ruoli ma, con il cambiare delle circostanze, anche i vari membri devono cambiare e adattarsi alle novità perché la famiglia resti sana. Così il tipo di cure materne appropriate per un bambino di un anno sarà del tutto inopportuno per un tredicenne; anche il ruolo materno deve cambiare per adattarsi alla realtà. Nelle famiglie disturbate, molti aspetti importanti della realtà vengono negati, e i ruoli restano rigidi. Quando nessuno può discutere quello che riguarda un singolo membro della famiglia o la famiglia nel suo insieme, quando questi discorsi sono proibiti implicitamente (se si cambia argomento) o esplicitamente (“Noi non parliamo di queste cose!”), si impara a non credere alle proprie percezioni e ai propri sentimenti” (da “Donne che amano troppo” di Robin Norwood). La famiglia sia luogo di “pathos”, sofferenza e passione, luogo di condivisione della sofferenza e della passione, di educazione alla sofferenza e alla passione, e non sia luogo patologico o patogeno. “Chi subisce il fascino di relazioni così dolorose, infatti, non si stima e non si piace: sono donne che a loro volta hanno avuto figure maschili di riferimento (padri, fratelli, compagni) fragili e anaffettivi, per cui pensano di non meritarsi amore e attenzione, ma solo questa crudele altalena di sentimenti. Lasciare un uomo così ambivalente è il primo passo verso una maggiore consapevolezza del proprio valore” (Maria Rita Parsi, psicologa e psicoterapeuta). Consapevolezza è avere contezza con altri di qualcosa: è questa la “coeducazione” sentimentale, prima, e sessuale, poi, di cui si ha bisogno in famiglia.

Non solo l’educazione emotivo-affettiva, sentimentale e sessuale, ma anche l’educazione economica e finanziaria è una delle responsabilità della famiglia. “Non si può dire che ci sia in assoluto un modo di pensare e di fare migliore dell’altro, in quanto anche l’educazione al denaro dipende dalle regole e dall’esempio che si danno in famiglia. Dal nostro punto di vista, è importante aiutare i bambini a comprendere il ciclo del denaro e del guadagno: questo significa, per esempio, educare i piccoli al fatto che, a fronte di un lavoretto che si fa a casa, si può ricevere un piccolo compenso; che, con la paghetta che si riceve, si può iniziare a risparmiare; che il risparmio può essere speso con modalità ben definite con i genitori” (Giovanna Boggio Robutti, esperta di educazione finanziaria e cittadinanza economica).

“I bambini sono degli artisti nell’approfittare di ogni occasione per essere felici” (lo scrittore svizzero Robert Walsen). “[…] il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal sesto capoverso del Preambolo). La felicità è inscritta nei bambini, infatti felicità ha la stessa radice “fe” di feto, figlio, fecondità e altre voci. Sono spesso gli adulti ad infelicitarli con i loro egoismi o con scelte esclusivamente personali, anche “fatte per il loro bene”. Bisogna capire e far capire che la felicità non è un obiettivo cui mirare, ma un’atmosfera da cui si è circondati, da cui ci si deve lasciar avvolgere e da cui deriva il benessere (e non il contrario). “Io ero un bambino abbastanza felice. Non avevo alcun motivo per abbandonare la casa dei miei genitori, con cui avevo un rapporto addirittura troppo buono per la mia età” (Simone Perotti, scrittore e navigatore). Crescendo non ci si ricorda delle singole cose ricevute, ma delle relazioni vissute e dell’atmosfera respirata.

“La gioventù possiede ali rivestite dalle piume della poesia e innervate dall’illusione, con le quali trasporta i giovani lontano, oltre le nubi. Là essi vedono il cosmo inondato dalla prismatica luce dell’arcobaleno e odono la vita intonare inni di gloria e maestà; ma ben presto quelle liriche ali vengono strappate dalle tempeste dell’esperienza ed essi precipitano nel mondo della realtà. Il mondo della realtà è uno specchio magico dove gli uomini si scoprono rimpiccioliti e deformi” (Kahlil Gibran in “Ali spezzate”). I giovani hanno diritto alla loro giovinezza e a tutto ciò che la caratterizza. Devono “crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal sesto capoverso del Preambolo) per affrontare la realtà che viene loro lasciata dagli adulti. Non si parli male dei giovani, ma si cerchi di parlare con loro.

Nell’autobiografico “Lettere di un padre alla figlia che si droga” il giornalista Luciano Doddoli, nella XV lettera indirizzata alla figlia Francesca, scrive: “[…] mio padre non mi dava quello che doveva dare, ma siccome io non potevo dirglielo e nemmeno pensarlo tutta la colpa era mia e io provavo vergogna dinanzi a mio padre. E poi: io non ti ho dato tutto quello che dovevo darti, ma poiché tu non potevi dirmi e neppure pensare che io ero il responsabile, tu ti vergogni di me. Oppure, tu non mi dai quello che mi devi dare ma io non posso dirlo e neppure pensarlo, perché forse voglio altre cose; allora la colpa è mia ed io non so neppure farti una carezza e mi vergogno di te. Infine: io non so darti quello che ti debbo dare (io non posso darti quello che ti debbo dare) e neppure tu. Io assumo le tue colpe e tu le mie. E non ci incontreremo mai”. La genitorialità e la famiglia sono innanzitutto “comunicazione”; la mancanza di comunicazione è una delle principali cause della disgregazione familiare. Comunicare dal latino “cum”, insieme, e “munus”, impegno. Facendosi carico insieme dei pesi della vita nasce quell’atmosfera di “comprensione” in cui deve crescere il fanciullo (dal sesto capoverso del Preambolo).

“«Come è possibile che l’amore, così tenero e affascinante nel suo nascere, messo alla prova diventi tirannico e crudele?». Con questa domanda Shakespeare – convinto della necessità di credere nell’amore e di allenarsi in quest’arte, per non passare dall’amore all’odio – ha sfidato i suoi lettori” (Valentino Salvoldi, teologo e scrittore). Sfida che bisognerebbe lanciare anche a quei genitori che si contendono i figli quando finisce l’amore nella coppia. Le sorti del sentimento dell’amore tra gli adulti non devono compromettere l’amore dovuto ai bambini. “[…] il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal sesto capoverso del Preambolo). Si noti che questo capoverso segue a quello sulla famiglia perché, anche se non si può garantire al bambino una famiglia intesa come nucleo familiare, gli si deve assicurare (da “sine cura”, senza affanno o preoccupazione) “l’ambiente familiare”.

“La scuola degli antichi Greci era assai diversa dalla nostra. Socrate parlava ai giovanetti dei misteri della vita, della psicologia (ante litteram), della filosofia. Lo faceva a piccoli gruppi di ragazzini seduti in circolo intorno al fuoco, dialogando. Quel che i giovani avrebbero dovuto affrontare non era forse la loro vita? Ciò che serve alla loro vita non è forse ciò che produce personalità, armonia, equilibrio?” (da “Il libro dei grandi contrari filosofici” di Oscar Brenifier). “[…] il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità” (dal sesto capoverso del Preambolo): ovunque si parla dello sviluppo della personalità del bambino (anche nelle sentenze che decidono soluzioni poco condivisibili per dirimere assurdi conflitti familiari che, di certo, non contribuiscono positivamente allo sviluppo della personalità del bambino), ma non se ne parla con lui. Per il pieno ed armonioso sviluppo della personalità del bambino bisognerebbe cominciare a parlarne con lui adottando il “circle time” (“tempo del cerchio”) innanzitutto in famiglia e non stando attorno ad un televisore o soli dinanzi ad un computer.

“Chi vuol essere amato bisogna che faccia vedere che ama. Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani” (don Giovanni Bosco, educatore). “[…] il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal sesto capoverso del Preambolo). Don Giovanni Bosco era solito parlare di amorevolezza nello stile educativo, che non è l’amore senza limiti o addirittura patogeno o patologico come quello che spesso si manifesta oggi, ma un linguaggio d’amore che rivela disponibilità e premura. Questo è “[…] assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere” (art. 3 par. 2 Convenzione).

Significativi il titolo e il testo della canzone di Giorgio Gaber, “Non insegnate ai bambini”. I bambini non hanno bisogno di insegnamenti dal pulpito, ma di segni nella vita: “[…] il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal sesto capoverso del Preambolo) e “l’orientamento ed i consigli necessari all’esercizio dei diritti” (art. 5 Convenzione).

“Il problema non è la violenza dei ragazzi, ma lo spegnimento completo della loro capacità di combattere. A ben sapere, infatti, la violenza non è segno di forza, ma di debolezza” (il pedagogista Pino Pellegrino). “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali proclamati nello Statuto delle Nazioni Unite e in particolare nello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà” (dal settimo capoverso del Preambolo). Il tutto comincia e continua con l’educazione, nelle sue varie forme di coeducazione, educazione permanente ed altre. L’educazione comincia a casa e dovrebbe continuare a casa senza le continue deleghe cui si assiste.

“Sono tanti i modi in cui la famiglia può educare ad essere se stessi, anche solo attraverso una normale vita quotidiana” (Giuseppe Savagnone, esperto di educazione). “Normale” è ciò che è “regolare”: le regole della vita di relazione familiare devono essere riconoscimento dell’altro, rispetto, reciprocità, responsabilità, ruoli ridefiniti. In tal modo la famiglia si assume pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità (dal quinto capoverso del Preambolo) e prepara appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società (dal settimo capoverso del Preambolo).

“E la Matematica? La Matematica potrà aver contribuito allo sviluppo del nostro ragionamento. La Storia potrà aver offerto occasioni di riflessione sul correre degli eventi. La Geografia avrà contribuito ai futuri piani delle vostre vacanze. Ma accanto a questo, stando all’esperienza diffusa, per poter avere un nostro posto nel mondo avremo dovuto assumere scampoli di buon senso e di esperienza dalle direzioni più disparate, senza che qualcuno si sia posto il problema di portarci a riflettere sulla nostra vita, sulla nostra dimensione umana, come se l’argomento fosse procrastinabile, di scarsa urgenza” (Simone Perotti, scrittore e navigatore). La vita deve essere la priorità e le materie (da “mater”, madre) scolastiche o discipline (da “discere”, imparare) dovrebbero essere finalizzate ad essa. Perché “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società” (dal settimo capoverso del Preambolo) e “[…] preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera” (dalla lettera d dell’art. 29 Convenzione).

“[…] bisogna riconoscere che nella società occidentale contemporanea l’umiltà non ha vita facile, perché deve confrontarsi con un principio che viene assolutizzato e ormai è una parola d’ordine, un imperativo incontestabile: l’autorealizzazione. Nella nostra società, pervasa di narcisismo, auto realizzarsi vuol dire costruirsi e farsi da sé, e godere di sé, delle proprie qualità, della propria riuscita, senza dipendere da nessuno, senza alcun legame schiavizzante. Questo principio, velenoso, rende tristi e infelici, e impedisce alle giovani generazioni di scoprire il senso di pienezza, di forza, di maturità e di serenità […]. Impedisce alle giovani generazioni di scoprire il senso di compiutezza, la bellezza e la felicità che c’è nell’affinare e spendere – a costo di sacrifici – le nostre qualità migliori per altri, affinché essi siano felici, compiuti” (la giornalista e scrittrice Cristina Uguccioni). È necessario e doveroso far capire ai bambini e ai ragazzi che si è come gli altri e con gli altri: allevare il fanciullo “in particolare nello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà” (dal settimo capoverso del Preambolo).

“I bambini sono i nostri messaggi vivi, inviati a un’epoca che non vedremo” (John W. Whitehead, giurista). Si inviano i messaggi nell’educazione, che non è diventata una sfida o un’emergenza ma lo è sempre stata: allevare il fanciullo “nello spirito degli ideali” (dal settimo capoverso del Preambolo). Trasmettere sani e duraturi ideali e non costruire vani e perituri idoli (a cominciare dai figli stessi): in tal modo si dà fiducia e futuro.

“Quando il bambino dimostra di aver compreso i limiti in determinate situazioni, va sempre rinforzato positivamente. Il rinforzo non si riferisce a una ricompensa materiale (per esempio dire “ti compro un gioco se fai il bravo”) ma a una ricompensa di tipo affettivo come un abbraccio, passare del tempo in più con il bambino per fare qualcosa che a lui piace, ecc. Le ricompense affettive aumentano l’autostima del bambino e rappresentano una fonte significativa di valorizzazione della sua persona” (Elisa Mazzola, psicologa e psicoterapeuta). Nel settimo capoverso del Preambolo e nell’art. 18 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si dice “allevare il fanciullo”. “Allevare” significa “levare su, alzare verso”, e per questo servono anche i “rinforzi”, positivi o negativi.

“Tu mi hai dato più amore in dieci anni di quanto molti bambini ne ricevano in tutta la vita. È vero, non puoi più giocare a palla con me nei fine settimana, né portarmi fuori a colazione, né raccontarmi le tue storie o passarmi di nascosto qualche spicciolo. Ma io so che sei ancora con me. Sei nel mio cuore e nelle mie ossa. Sento la tua voce, dentro di me, che mi aiuta e mi guida nella vita. Quando non so che cosa fare, cerco di immaginare quello che mi consiglieresti tu. Sei ancora qui, a darmi consiglio e ad aiutarmi a capire le cose. So che qualunque cosa accada, ti vorrò sempre bene e ti ricorderò” (da un racconto di Bruno Ferrero, salesiano e scrittore). I padri siano padri e le madri consentano e li sostengano nell’esserlo. Non si rendano i bambini orfani di padri più di quanto non faccia la morte fisica. Paternità è protezione (quella più volte menzionata nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia sin dal Preambolo) ed è il senso ed il ricordo della paternità che devono avere i bambini. Così si trasmette pienamente e veramente loro la vita e si rispettano i loro diritti. Anche questo significa “incoraggiare la Cooperazione internazionale” (art. 45 Convenzione) a favore dell’infanzia e della vita!