MIUR#Sblocca-la buona scuola

MIUR#Sblocca-la buona scuola

di Giancarlo Cerini e Antonio Valentino

Perché non scatta la luna di miele?

Il documento del Governo su “La buona scuola” (3 settembre 2014) non è ancora diventato oggetto di una discussione vera e approfondita tra gli operatori della scuola. Prevale uno stato d’animo di  sfiducia e disimpegno verso le “grandi riforme”. Dopo 15 anni di provvedimenti approvati, sospesi, attuati (che non sembrano aver aumentato la qualità della scuola) quasi tutti stanno sulla difensiva (“comfort zone dice il documento…).
La realtà di un definanziamento del 7-8% della scuola statale nel quinquennio 2008-2013 (con i 140.000 operatori scolastici, tra insegnanti e amministrativi, in meno) si ripercuote negativamente sulle condizioni di lavoro (classi più numerose, modelli didattici più frammentati, penuria di risorse, ecc.). Qualche segnale in controtendenza (la legge 128/2013, il c.d. decreto “Carrozza”) stenta a tradursi in cambiamenti visibili.
Di qui occorre ripartire, senza enfatizzare le responsabilità di una scuola (che non vorrebbe mettersi in discussione), o addossare le colpe alle organizzazioni sindacali (ormai conservatrici per definizione…) e impegnando la politica a dare il meglio di sé (nel linguaggio, nei toni, nello stile, nella ricerca di condivisione). Occorre uscire dalle reciproche diffidenze, dallo strisciante conflitto tra “giovanilismo” e “vecchia guardia”, dal “rinuncianesimo” che sembra aver colto la società italiana (e la scuola).

C’è ancora “grasso che cola”?
Forse il documento dovrebbe dare con più forza il senso del cambiamento:
si inverte la tendenza, si torna ad investire sulla scuola (ci sono alcuni miliardi in più per il sistema educativo, ma occorre tenere a freno la spending review”: è difficile fare una riforma con una manovra a somma zero);
c’è una espansione di risorse, visibile nella creazione di un organico funzionale (superiore al rigido conteggio delle cattedre) che consente di stabilizzare oltre 148.000 insegnanti (sfondando un organico di diritto che si ferma a 600.000 docenti);
c’è da ammodernare la cultura pedagogica della scuola (troppo evidente il rito delle lezioni frontali), ci sono da aggiornare i curricoli (con un giusto dosaggio tra i nuovi linguaggi e i vecchi alfabeti, oltre che salvaguardare le tradizioni del “made in Italy” che non sono solo produttive (pensiamo all’arte e alla musica);
l’autonomia deve essere più coraggiosa, non nel senso di striscianti modelli aziendalisti, ma per riscoprire il valore della responsabilità, del lavoro ben fatto, dell’iniziativa, della libertà, della condivisione (si cresce tutti assieme, non solo perché qualcuno ha le mani libere, ma la governancedeve essere meno bizantina di quella odierna…); cambiano le regole della professione: si accantona il quieto vivere della progressione per anzianità e si propone un dinamismo di carriera legato ad impegni e competenze, da documentare in un portfolio che individua nuovi standard professionali. Anche una diversa struttura dell’orario di servizio avrebbe dovuto far parte del “pacchetto” (ma è stata accantonata appunto per il quieto vivere di tutti).
E’ evidente che ognuno di questi punti positivi è a rischio, non è garantito, potrebbe essere smentito (cosa dirà il Tesoro? I 148.000 neo-assunti che qualità porteranno? La valutazione ci farà veramente  crescere? I privati che si affacciano sulla scuola rispetteranno la sua autonomia culturale? Domande impegnative, senza rete, ma una sfida necessaria per provare a rimettere la scuola al centro del futuro del Paese. Perché, in effetti, ci aspettiamo molto di più delle 136 pagine della “Buona Scuola”, ma di lì occorre pure passare.

Le nuove regole della professione docente
Adottare un diverso modello professionale per i docenti, basato su un profilo di qualità (meriti e impegni), con una conseguente progressione economica di carriera, non basata sull’anzianità, si può considerare la misura più incisiva per la riuscita delle altre proposte del documento. Diventa il passaggio nodale dell’intera operazione.
Come rendere accettabile e appetibile la proposta degli scatti triennali di competenza? Ci sono alcune pre-condizioni che appaiono indispensabili.
Abolire la soglia del 66% dei docenti, che – per come è configurata nel documento (sulla falsariga del Decreto Brunetta: il dlgs. 150/2009) -, rischia di alimentare  ricadute negative sul clima di scuola. Occorre lucidamente considerare l’eventualità molto probabile, in caso di suo mantenimento, che  l’intera operazione trovi ostacoli insormontabili (come al tempo di Berlinguer).
Tutti i docenti possono aspirare allo scatto di competenza, al raggiungimento di un determinato standard professionale. La competizione, semmai, è solo con se stessi, con l’idea di insegnante che si vuole interpretare (e che è descritta nel format del portfolio).
Dare al modello di crediti e portfolio del documento semplicità e linearità nella gestione (senza complicazioni e tortuosità burocratiche). Soprattutto considerando gli “oggetti” da valutare (prestazioni, comportamenti, risultati – ove il caso -) come operazione trasparente e “pulita” (per esempio, più in termini di rilevazione e/o certificazione di evidenze empiriche, che come pratica che richieda marchingegni valutativi di tipo concorsuale).
Collocare, nelle tre aree individuate (formazione, organizzazione professionale, didattica),  a livelli raggiungibili da tutti,  “l’asticella” / traguardo / standard per la maturazione del credito. Deve essere comunque in qualche modo visibile il cambiamento che viene richiesto. Il messaggio dovrebbe essere: chi non si impegna per raggiungere gli standard previsti si colloca per scelta autonoma fuori del progetto di miglioramento.
Prevedere, in via di prima ipotesi da perfezionare e rendere gestibile,  un punteggio massimo, nel triennio, per ogni area (non necessariamente dello stesso peso tra le diverse aree). Dovrebbero contribuire alla maturazione del punteggio aspetti  del lavoro docente, considerati più importanti e significativi.

Profilare i crediti
A solo titolo di esempio, proviamo a concretizzare queste idee scendendo nel concreto delle tre tipologie di crediti (formativi, professionali, didattici) che rappresentano un buon equilibrio della professionalità docente che si vuole descrivere.
Per esempio, per i crediti formativi, si potrebbero far valere:
la partecipazione a corsi di formazione organizzati dalla scuola a cui seguano effettive ricadute sull’attività didattica;
la partecipazione a corsi on line o in presenza, preferibilmente in rete, relativi ai campi del sapere, della didattica e del “fare scuola” (competenze, valutazione, nuove tecnologie);
la partecipazione a gruppi di ricerca-formazione, anche coincidenti con il Consigli di classe o interclasse o gruppi di dipartimento …, strutturati come gruppi di ricerca e di autoformazione guidata, sulla base di un progetto specifico (contrasto alla dispersione, gestione delle classi, integrazione tra le discipline, ecc.).
Il documento parla di “obbligo della formazione” e quindi è pensabile che si definisca un budget annuale di formazione (es. 25 ore) che non necessariamente si concretizza, come abbiamo visto, nella generica frequenza di corsi di aggiornamento.
Per i crediti professionali
Le attività e le funzioni da considerare potrebbero essere soprattutto quelle che oggi sono prevalenti nella vita delle scuole:  collaborazione, coordinamento e presidio (dei dipartimenti, dei consigli di classe, di commissioni di lavoro e gruppi di progetto, delle iniziative di scuola ), funzioni obiettivo (volendo recuperare la formulazione, decisamente più ricca rispetto a “funzione strumentale”, del contratto del 1999). Oltre, ovviamente, quelle di mentoring, previste dal documento governativo (accompagnamento dei neo-assunti, formazione, ecc.).
Per i crediti didattici
Esemplificazioni potrebbero essere fatte anche per i crediti c.d. didattici. Si potrebbero cosiderare, se ci riferiamo alla scuola secondaria, le  seguenti voci: tutoring/counselling, recupero/sostegno individualizzato, sperimentazioni innovative (soprattutto se definite nei dipartimenti o in gruppi di progetto), gestione d’aula e relazione educativa, risultati (considerati in relazione alle caratteristiche della classe, del consiglio di classe e del territorio).
La validazione dei crediti didattici rappresenta l’aspetto più delicato della questione: è possibile pensare a forme di autovalutazione, di documentazione del lavoro, di peer review (osservazione in classe), di supervisione professionale a cura di un “mentor”. Situazioni da vivere in una ottica prevalentemente formativa e collaborativa.

Dall’anzianità al merito: a patto che…
In definitiva, qui si assume l’ipotesi che la trasformazione degli scatti di anzianità in scatti di competenza, prevista nel documento governativo, possa rappresentare per la nostra scuola (ma non nei termini in cui essa è al momento formulata) un elemento motore per progettare un credibile miglioramento della qualità dell’insegnamento con l’uscita dal “grigiore dei trattamenti indifferenziati”, ma salvaguardando lo stile collaborativo che deve caratterizzare ogni comunità scolastica. Questa ipotesi ci sembra auspicabile, in base alla considerazione di fondo che nessuna riforma può avviarsi senza il coinvolgimento e il protagonismo dei docenti.
Quindi possiamo esprimere un convinto alla proposta di valorizzare impegno e merito, cui diano però forza e senso alcuni paletti o garanzie:
– liberare il testo da scivoloni stravaganti, tipo: “i docenti mediamente bravi” che, per avere più chance di maturare scatti “di merito”, potranno “spostarsi in scuole dove la media dei crediti maturati dai docenti è relativamente bassa…” (!);
– la maturazione dei crediti sia alla portata di tutti; cioè che tutti (o la maggior parte possibile) possano essere portati a mettersi positivamente in gioco, perché: superare l’asticella non è ritenuta impossibile, perché c’è un tornaconto, perché può risultare gratificante;
– il governo si impegni a incrementare il fondo (per un bonus più sostanzioso e per erogarlo a tutti  coloro che maturano i crediti per gli scatti, avendo raggiunto lo standard richiesto.  Può sembrare questa una pretesa assurda in tempi di vacche magre. Ma non lo è affatto. Si può infatti sostenere, con un buon fondamento, che se ciò avvenisse, vorrebbe dire che la macchina scuola comincia a mettersi in moto. E saremmo in presenza di un nuovo dinamismo nel sistema educativo (e nel sistema paese);
– che il sistema dei crediti venga costruito in modo tale da prevedere prestazioni / comportamenti che oggi sono propri di una minoranza dei nostri insegnanti (i più impegnati; quelli che fanno sì che il sistema non crolli, anche se non riescono ad essere massa critica per obiettivi di  miglioramento diffuso, all’altezza dei tempi) e che siano quindi chiaramente configurabili come fattibili;
-che questo nuovo modello di progressione (di crediti e portfolio) sia nazionale e quindi costruito sulla base di regole che valgano per l’intero sistema (evitando un dispersivo fai da te, scuola per scuola). Una scelta diversa frantumerebbe il sistema e sarebbe di improbabile gestione. Questo però a una condizione: che gli indicatori da prendere in considerazione per i crediti didattici e professionali non considerino i risultati degli allievi come l’indicatore principe. Sappiamo tutti che ottenere risultati positivi e introdurre innovazioni nelle scuole “bene” e ben gestite è decisamente più facile e molto meno pesante;
– che il nucleo di valutazione annuale sia interno alla scuola (come previsto dal Piano: Dirigente Scolastico e nucleo di valutazione di Istituto), ma che la valutazione finale – a conclusione del triennio – veda la presenza, a fianco del Dirigente Scolastico, di un soggetto terzo, espressione dell’Amministrazione (un Dirigente tecnico) garanzia di terzietà e omogeneità del sistema (questa valutazione potrebbe fondarsi essenzialmente – ma non esclusivamente – sulla verifica della corretezza dell’operato della scuola nell’attribuzione dei crediti e sulla consistenza delle evidenze / rilevazioni che permettano l’attribuzione dello scatto di competenza);
– che, per i crediti formativi, il sistema offra garanzie circa la possibilità di maturarli attraverso esperienze di vario tipo (e non solo corsi più o meno tradizionali e on line: il Piano Scuola contiene proposte al riguardo), promuovendo opportunità formative che abbiano appeal (per la qualità della proposta, per la capacità di coinvolgimento, per la loro operatività), sia nel territorio sia all’interno delle scuole.

Costruire con-senso
C’è infine – ma non certamente ultima ai fini della buona riuscita dell’operazione – la questione del coinvolgimento dei vari soggetti che gravitano intorno all’istituzione scuola e quindi delle sue varie espressioni.
Fondamentale è certo il coinvolgimento di tutti da sollecitare e favorire – a partire dalle componenti scolastiche; va valutata positivamente  la consultazione on line, sulla base dei quesiti proposti.
È da ritenere però che i soggetti da valorizzare siano soprattutto le associazioni professionali del mondo della scuola e le organizzazioni sindacali. Su un terreno come questo non è possibile considerare il sindacato un soggetto come tutti gli altri, se non addirittura inutile  o dannoso. In base al retro-pensiero che la situazione pesante della nostra scuola sia imputabile soprattutto ai sindacati, lasciando sullo sfondo le responsabilità della classe politica.
Certamente c’è da ribadire il primato della politica. Purché la politica non intenda affrontare le situazioni con atteggiamenti muscolari e sappia lanciare le sue sfide, chiamando i vari soggetti coinvogibili a fare la propria parte, nel rispetto dei ruoli che la Costituzione prevede.

Per fare qualche esempio, sui temi dell’organizzazione del lavoro e delle retribuzioni, come sul tema delle tutele, perché non ridare senso nuovo alla contrattazione, parlandosi e misurandosi, senza veti reciproci e senza sfide all’OK Corral?