Africa e no
di Antonio Stanca
Quest’anno dalla casa editrice Sellerio di Palermo è stato pubblicato il romanzo La confessione della leonessa dello scrittore mozambicano Mia Couto con traduzione dal portoghese di Vincenzo Barca (pp.234, € 16,00). L’opera era comparsa nella versione originale nel 2012 ed era stata l’ennesima del Couto che oltre a romanzi ha scritto poesie, racconti e articoli sempre in lingua portoghese. Egli è nato a Beira nel 1955 da genitori portoghesi che erano emigrati nella vecchia colonia. Aveva intrapreso gli studi di Medicina e li aveva abbandonati perché attirato dalla letteratura e dal giornalismo. In seguito studierà Biologia e si laureerà. Adesso lavora come biologo a Maputo ma quest’attività non lo ha allontanato dall’altra della scrittura che costituisce la sua preferita.
Nel 1980, a venticinque anni, Couto aveva esordito in letteratura con componimenti poetici compresi in un’antologia, nel 1983 aveva pubblicato il suo primo libro di poesie ed in seguito si era dedicato alla narrativa iniziando con racconti e continuando con romanzi. Molti e importanti riconoscimenti avrebbe ottenuto per le sue narrazioni. Tra questi il Premio Camões, il più ambito per gli autori in lingua portoghese, e il Premio Internazionale Neustadt o “Nobel americano”. Il suo romanzo Terra sonnambula del 1992 sarebbe risultato uno dei dodici migliori romanzi africani del XX secolo. Molto tradotto è Couto e apprezzato è il suo stile perché in modo particolare usa egli la lingua portoghese. Crea, fa esistere con le parole scritte, procura al lettore la possibilità di assistere ad una serie d’immagini vere, concrete, la sensazione di partecipare della vicenda rappresentata. Rende visibile, dà corpo alla vita del pensiero, ai fantasmi della memoria, del sogno, alle aspirazioni, alle speranze.
In quest’ultimo romanzo, La confessione della leonessa, l’ambiente è come altre volte quello della sua terra, il Mozambico, il tema quello di alcune vicende che lì si sono verificate. Si dice di quanto avviene in uno sperduto villaggio mozambicano, Kulumani, dove da qualche tempo la popolazione è vittima degli assalti di leoni provenienti dalla foresta circostante che in poco tempo hanno ucciso molte persone. Si fanno le ipotesi più diverse circa la spiegazione del fenomeno, circa i motivi che avrebbero mosso i leoni a rivolgersi contro il villaggio e intanto si provvede ad inviare a Kulumani degli esperti cacciatori perché eliminino le belve e mettano fine al grave pericolo che comportano. Un cacciatore, Arcanjo Baleiro, era già stato chiamato dall’amministrazione locale per cercare di contenere il problema prima che giungessero gli altri suoi compagni. Arcanjo arriva sul posto e si lega a Mariamar, una ragazza conosciuta in precedenza ed ora ritrovata.
Il romanzo risulterà composto dalle voci dei due giovani che si alterneranno nel corso dell’opera per dire degli sviluppi della situazione, di come veniva considerata nel villaggio, di tutto ciò che faceva parte della vita di questo, della sua storia dai tempi della colonizzazione portoghese a quelli della guerra civile, di quali erano i timori, i pensieri, le speranze per il futuro soprattutto da parte delle giovani donne del posto. Mariamar e Arcanjo diventeranno lei la testimonianza di una condizione umana, quella femminile africana, destinata ad essere vissuta fin dalla nascita in uno stato di schiavitù, ad essere esposta a continue privazioni e violenze, lui l’incarnazione di quel desiderio di un mondo, di una vita migliore, diversa che le donne africane nutrono. Attraverso Mariamar e Arcanjo lo scrittore mostrerà in modo diretto, immediato, farà vedere quel che succede in una parte del Sud-Est africano. Dell’assalto dei leoni si servirà per trarne una metafora quanto mai originale circa la difficile condizione femminile vissuta in un estremo angolo del mondo ed esposta a soprusi di ogni genere. Come le donne in Africa devono subire senza alcuna difesa la forza, la brutalità degli uomini così la popolazione di Kulumani deve subire la crudeltà dei leoni. Questo è il significato che Couto si propone di raggiungere col suo romanzo, un significato che vuol essere pure un atto di protesta, di denuncia, e ci riesce dal momento che in continuazione combina la realtà con l’allegoria, la verità con la fantasia, Kulumani con quant’altro si vuole, si cerca. I due elementi, i due piani s’incrociano sempre: un luogo dove la vita dell’uomo giunge a confondersi con quella animale, vegetale, acquatica, con la vita dei morti, dove valgono i presagi, le fatture, avvengono visioni, si hanno allucinazioni, è sempre confrontato con altri dove si vive diversamente, dove la realtà vale più di ogni supposizione, dove la vita è solo dell’uomo.
Per dire di questi due modi, di queste due vite stavolta Couto ha creato due narratori e li ha fatti interpreti di ognuna di esse. Singolare è la sua invenzione anche perché non intende risolvere in maniera definitiva il problema ma sospeso lo lascia come è necessario che avvenga quando i termini sono così distanti.
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