Ars maieutica digitalis

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ARS MAIEUTICA DIGITALIS

 

Sintesi dell’intervento al Convegno Internazionale

LE VIE DELLA PEDGOGIA

tra linguaggi, ambienti e tecnologie

Università degli Studi di Macerata

14-15 novembre 2014

 

prof. Giovanni Soldini

(Dirigente Tecnico MIUR- USR Marche)

 

Con Decreto della Direzione Generale per i contratti, gli acquisti e per i sistemi informativi e la statistica del MIUR n.12 del 6 novembre 2014 è stato pubblicato un avviso per la selezione di progetti formativi sulle competenza digitali del personale docente per €1.000.000 .

 

Perché spendere ben 1 milione di Euro per il potenziamento delle competenze del personale docente sui processi di digitalizzazione e innovazione tecnologica?

 

Negli ultimi anni il MIUR ha promosso il “Piano Nazionale Scuola Digitale” articolato in una pluralità di azioni coordinate (LIM in classe, Cl@ssi 2.0, Scuol@ 2.0 e i Centri Scolastici Digitali), che fino ad oggi hanno dato vita ad una rete di istituzioni scolastiche tecnologicamente avanzate. Le attività poste in essere sono state sicuramente molto interessanti ed hanno ottenuto anche risultati degni di particolare attenzione.

Bisogna rilevare però che non c’è stato il cosiddetto “contagio”: il coinvolgimento di altre classi e scuole (escluse dalla sperimentazione) è stato limitato.

 

Nel documento del Governo denominato “La Buona Scuola” – un documento che ha portato per due mesi al dibattito e al confronto non solo gli “addetti ai lavori” (= scuola), ma anche la società civile – si sottolinea che “la sfida dell’alfabetizzazione che ha contraddistinto la scuola nel Novecento, non è finita: si è estesa a nuovi ambiti e a nuovi linguaggi […]Se il secolo scorso è stato quello dell’alfabetizzazione di massa, durante il quale gli italiani hanno imparato a leggere, scrivere e far di conto, il nostro è il secolo dell’alfabetizzazione digitale: la scuola ha il dovere di stimolare i ragazzi a capire il digitale oltre la superficie, a non limitarsi ad essere “consumatori di digitale”, a non accontentarsi di utilizzare un sito web, una app, un videogioco, ma a progettarne uno”. [1]

Programmare non serve solo agli informatici – si sostiene – ma serve a tutti. Pensare in termini computazionali significa applicare la logica per capire, controllare, sviluppare contenuti e metodi per risolvere i problemi e cogliere le opportunità che la società ci offre.

Il MIUR intende quindi introdurre il “coding” (= programmazione) nella scuola italiana, a partire dalla primaria: gli alunni devono imparare a risolvere problemi complessi applicando il paradigma informatico, anche attraverso modalità ludiche (“gamification”), come ad esempio attraverso il sito code.org

 

Se l’ipotesi di introduzione del “coding” nella primaria ha suscitato inizialmente non poche perplessità, ad una analisi più approfondita emergono aspetti degni di particolare attenzione:

 

“Il coding non va visto come conseguimento di una competenza informatica in senso tecnico (la programmazione è ormai una competenza specialistica, viceversa essere un creatore digitale non significa necessariamente programmare) ma nell’ottica della sua valenza formativa trasversale (sviluppo del pensiero logico-analitico, delle abilità di problem solving e di formalizzazione intesa come rappresentazione corretta, completa e coerente di fatti e situazioni complesse). Occorre distinguere la cultura informatica (permanente e con valenza culturale come disciplina autonoma) dalle competenze tecniche (soggette a rapida obsolescenza)[2].” […]

 

Ma ci sono altre importanti criticità: ad oggi, solo il 10% delle nostre scuole primarie e il 23% delle nostre scuole secondarie è connesso ad Internet con rete veloce. Le altre sono collegate a velocità medio-bassa, e con situazioni molto differenziate. C’è un chiaro problema di “digital divide”: semplicemente la connessione non raggiunge le classi e quindi non permette di applicare forme di didattica digitale.

 

Quanto all’introduzione delle LIM (Lavagne Interattive Multimediali ), definirle una tecnologia troppo pesante che ha da una parte ipotecato l’uso di notevoli nostre risorse per innovare la didattica, e ha anche parzialmente “ingombrato” le nostre classi, spaventando alcuni docenti,[3] sembra eccessivo. Le LIM sono senza dubbio uno strumento molto valido ma che, per essere veramente efficace, deve essere utilizzato costantemente dal docente.

 

C’è sicuramente anche un problema di formazione, e dunque nel citato Decreto del 6 novembre 2014 si dice che “obiettivo dei progetti formativi è l’organizzazione, l’erogazione e la verifica della efficacia di corsi di formazione di tipo base e avanzato, in risposta ai livelli differenziati dei bisogni formativi dei docenti, sui linguaggi multimediali e l’integrazione tra risorse cartacee e digitali in una logica di modularità e flessibilità”[4]. Ci piace in particolare evidenziare quest’ultimo aspetto (l’integrazione tra risorse cartacee e digitali): sono stati gli stessi studenti dell’ultimo anno di un liceo maceratese – in un recente dibattito – a rifiutare l’uso esclusivo del digitale, ritenendo che un buon manuale sia ancora un necessario punto di riferimento.

 

Cosa implica ciò?

Una didattica diversa, un capovolgimento della didattica: UPSIDE DOWN, “sottosopra”.

 

Un primo aspetto da tenere in considerazione è quello legato al sistema. Mi piace richiamare una felice argomentazione dell’ispettore Maurizio Tiriticco[5] che da tempo sostiene che abbiamo bisogno di una nuova pedagogia delle 3 C: accanto a conoscenze capacità e competenze, a livello sistemico vanno modificate Classe Cattedra e Campanella.

 

Ciò significa che:

  1. CLASSE – bisogna superare il modello di gruppi di studenti per età cronologica, andando verso una individualizzazione e personalizzazione dei percorsi, in base agli interessi specifici degli alunni.

 

Superamento della classe significa che non esiste più lo spazio classico dell’aula abbinata ad un gruppo di studenti, ma solo l’aula per la disciplina specifica, dove il docente prepara il lavoro, il setting, i materiali.
Grazie alla completa informatizzazione della scuola e alla digitalizzazione della didattica sarà possibile sfondare le pareti, configurare una “scuola trasparente”, una scuola che possa finalmente uscire dalla sua tradizionale immagine “opaca”, per aprirsi a nuovi orizzonti.

C’è una “leggibilità” degli spazi, concetto già caro alla Montessori, per cui gli studenti devono essere in grado di riconoscere, attraverso la lettura dei luoghi, a quale tipo di apprendimento lo spazio è destinato. L’aula-disciplina è uno spazio in cui si può “leggere” l’apprendimento, quindi l’aula di matematica non può essere asetticamente uguale all’aula di italiano o di inglese. Classe e aula non sono più in corrispondenza biunivoca: avremo perciò una “aula disciplina” (lo spazio fisico in cui si svolge l’azione didattica) e la “aula classe” (l’insieme degli alunni). I laboratori sono a tutti gli effetti aule e le aule a tutti gli effetti laboratori. I docenti possono personalizzare gli arredi collegando la leggibilità dello spazio alla disciplina insegnata.

 

  1. CAMPANELLA- l’unità didattica basata sull’ora di lezione va modificata e resa più flessibile. Anche se i Regolamenti del 2010 (DPR 87 per i professionali, 88 per i Tecnici e 89 per i Licei) contemplano la possibilità di una quota di autonomia e di flessibilità nella gestione del tempo-scuola e dell’offerta formativa, in realtà tali e tanti sono i vincoli (tra cui, in particolare, l’espressione “nei limiti dell’organico assegnato”[6] ovvero “senza ulteriori oneri per lo Stato”) che rendono praticamente impossibile un vero cambiamento della struttura oraria e del curricolo. C’è bisogno di garantire maggiore e più reale autonomia alle scuole, come previsto dal DPR 275/99.

 

  1. CATTEDRA- la didattica va profondamente rinnovata e cambiata. Non è più possibile pensare ad un docente che “sale in cattedra” … e non ne scende più! Ritroviamo il docente in cattedra anche in quadri del medioevo, riferiti alle lezioni nelle prime Università europee, in cui si vede il docente in cattedra, appunto, gli studenti delle prime file attenti alla lezione, quelli più indietro disattenti o addirittura addormentati sui banchi. Sembra la fotografia delle nostre classi.

 

Nulla è cambiato. Eppure la “lectio” (che deriva dal latino *legere) aveva originariamente lo scopo di leggere ad alta voce il libro, che era inaccessibile ai più; con l’avvento della stampa a caratteri mobili il libro era a disposizione di molti, ma gli eruditi continuavano a sostenere la necessità di una interpretazione autorevole, di una spiegazione da parte dei “saggi” e questo si è perpetuato nel tempo. Oggi con l’evoluzione della tecnologia e di Internet la diffusione dei contenuti avviene in modo istantaneo e su scala globale; gli stessi contenuti non sono più fissi e definiti come in un testo, ma fluidi, in continuo divenire e generati da tutti (si pensi a Wikipedia, per esempio).

 

La nostra è una società fluida, liquida, come sostiene *Bauman[7] e non c’è più distinzione tra produttore e fruitore di contenuti: tutti possono esprimere le proprie idee senza particolari filtri o impedimenti. Cambia quindi il meccanismo stesso di creazione della conoscenza: questa interconnessione globale ha dato vita a quella che *Levy chiamava già 20 anni fa “intelligenza collettiva”[8]: ci vengono offerte strategie di conoscenza del tutto nuove, come la realtà virtuale, la realtà aumentata, che consentono non solo una grande interattività con i contenuti, ma anche la possibilità di entrare in contatto diretto con le fonti, con persone in tutto il mondo.

 

Dunque, l’innovazione digitale rappresenta per la scuola l’opportunità di superare il concetto tradizionale di classe, per creare uno spazio di apprendimento aperto sul mondo nel quale costruire il senso di cittadinanza ed entrare in contatto con realtà sia locale che internazionali, con il supporto e il mentoring di esperti ed educatori.

 

Una metodologia didattica – già sperimentata da anni negli Stati Uniti e che si va diffondendo sempre più in vari paesi europei – è il cosiddetto “FLIP TEACHING”.

Le classi coinvolte in questa metodologia, chiamate flipped classrooms, sono protagoniste di una inversione delle modalità di insegnamento tradizionale, come ben sottolinea *Graziano Cecchinati[9]. Il termine “flip” indica il ribaltamento della modalità in cui vengono proposti i contenuti e i tempi utili per l’apprendimento, dunque “UPSIDE DOWN”, sottosopra!

La responsabilità del processo di insegnamento viene in un certo senso “trasferita” agli studenti: essi possono accedere ai contenuti in modo diretto, gestendo personalmente fonti, tempi e modalità necessari per l’apprendimento; gli allievi hanno a disposizione una ingente quantità di materiali didattici (video, podcast, websites, DVDs, CDs, o qualsiasi altra forma che fornisca un chiaro messaggio istruzionale), che possono condividere (ad esempio attraverso un forum), annotare, modificare o addirittura creare in maniera collaborativa (scricoll= scrittura collaborativa).

L’insegnante diventa quindi un supporto alla comprensione di ciò che gli studenti hanno appreso: la cosiddetta lezione è finalizzata all’acquisizione di capacità e competenze più che all’ampliamento delle conoscenze.

Tra i vantaggi dell’introduzione dell’insegnamento capovolto va indubbiamente messa al primo posto la motivazione; gli studenti si sentono pienamente coinvolti nel processo di insegnamento-apprendimento e non sono più spettatori passivi, bensì protagonisti attivi e responsabili nella costruzione del proprio sapere. Trasmettere entusiasmo è di certo una carta vincente per il raggiungimento del successo formativo.

 

Gli studenti possono dunque gestire il proprio apprendimento, senza doversi necessariamente adattare ai ritmi e alla velocità espositiva dell’insegnante ma utilizzando le loro indicazioni su come muoversi e sulle risorse che ciascuno di loro può utilizzare. D’altro canto i docenti potranno realizzare attività individualizzate e/o personalizzate, partendo dai diversi stili cognitivi degli alunni, senza alcuna generalizzazione o omologazione! […]

 

Alcuni studiosi ritengono che tra i punti deboli vada inserito il fatto che le relazioni, i rapporti interpersonali potrebbero essere fortemente penalizzati, in quanto l’allievo avrà un contatto molto stretto con il computer sia a scuola che a casa!

 

In realtà è vero il contrario, dal momento che si passa da una didattica fondamentalmente istruzionista (fondata sulla trasmissione del sapere) ad una didattica costruttivista e sociale; infatti le attività di studio e di elaborazione personale sono portate in classe dove verranno svolte in un contesto collaborativo e con la supervisione del docente, attività di elaborazione dei contenuti che prima avvenivano in solitudine; in particolare gli studenti sono chiamati a lavorare sia su ciò che ritengono di aver ben compreso, sia su ciò che risulta ancora poco chiaro. L’attività in aula potrà svolgersi principalmente secondo uno schema basato sul problem solving: viene posta una domanda o viene chiesto di risolvere un problema che impegna a riflettere sui concetti sottesi e ad applicarli in contesti di vita reale (ma non è forse proprio questa la tipologia delle domande proposte dalle rilevazioni INVALSI che suscitano tante perplessità tra i docenti?). Per poter sfidare effettivamente la classe, le domande del docente dovrebbero essere né troppo semplici né troppo complesse, secondo il concetto di “linea di sviluppo prossimale” di *Vygotskij.[10]

Il docente è un mèntore, una persona che funge da sostegno e aiuto nello costruzione e nello sviluppo dei processi di conoscenza, anche in chiave critica. […]

 

L’insegnante deve aiutare l’alunno a tirar fuori ciò che ha dentro: “inside out”, ovvero il metodo socratico della maieutica. Socrate paragonava l’arte dialettica a quella della levatrice: come quest’ultima, il filosofo di Atene intendeva “tirar fuori” all’allievo pensieri assolutamente personali, a differenza di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l’arte della persuasione.

In tal direzione deve oggi cambiare il ruolo dell’insegnante: egli deve trasformarsi in guida, sostegno alla costruzione della conoscenza negli studenti, stimolo per favorire un’elaborazione personale dei contenuti, per attribuire significato a ciò che studia, per sviluppare pratiche che consentano l’acquisizione di competenze.[11]

E non è forse la competenza digitale (che consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione e richiede quindi abilità di base nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione) una competenza chiave per l’apprendimento permanente?[12]

 

Utilizzare le tecnologie a scuola ha il merito di favorire l’apprendimento di un nuovo tipo di competenza che aiuterà i ragazzi a vivere nella società dell’informazione e ad essere “cittadini digitali”.

Occorre qui precisare che la didattica digitale è la didattica che si avvale delle tecnologie. La tecnologia da sola non fa niente; la tecnologia permette semplicemente di fare una didattica migliore, ci permette di fare cose che se non avessimo la tecnologia non potremmo fare, quindi la tecnologia è uno strumento e non ha nessuna altra funzione.

 

Nel mondo del lavoro di oggi si richiede che le persone siano autonome, che sappiano risolvere i problemi, che lavorino in team, che sappiano andare su Internet, che siano globalizzati: sarà poi l’azienda a provvedere a formarli sulle compente specifiche di cui ha bisogno.

 

Quindi adesso bisogna preparare i nostri ragazzi a un mondo del lavoro diverso, dove occorre  insegnare a saper progettare, a lavorare in gruppo, a condividere del materiale, a collaborare, a interagire nella rete, ad essere un cittadino digitale ‘responsabile’. Bisogna  insegnare loro a muoversi nel digitale, conoscere il copyright, le leggi,  come si fa a selezionare i siti, come si selezionano le risorse digitali e così via. E l’insegnante deve essere disposto ad apprendere insieme al proprio studente. […]

Con le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) è stato possibile scardinare la dimensione temporale della lezione in classe: le nuove tecnologie  hanno portato ad una socializzazione della conoscenza legata a processi di interconnessione mai visti prima (si pensi ai social network), espandendo le possibilità di conoscenza, collaborazione, progettazione, indipendente dal tempo e dal luogo. E’ la metafora della rete.

Per spiegare questa nuova modalità di apprendere tipica dell’era digitale è emersa recentemente una nuova teoria dell’apprendimento, denominata connettivismo.

Partendo dall’analisi dei limiti del comportamentismo, cognitivismo e costruttivismo nel tentativo di spiegare gli effetti dell’uso delle tecnologie sul nostro modo di apprendere, *George Siemens[13] ha formulata questa teoria, secondo cui l’apprendimento è un processo che crea delle connessioni e sviluppa una rete; un nodo è qualunque cosa che possa essere connessa ad un altro nodo: informazioni, dati, immagini, sentimenti… L’apprendimento è dunque un processo di connessione di nodi specializzati o fonti di informazione e si fonda sulla differenza di opinione. Per facilitare l’apprendimento permanente è necessario alimentare e mantenere le connessioni. […]

Ci sono tuttavia varie critiche al connettivismo che arrivano dal mondo scientifico; in particolare *Antonio Calvani sostiene che “un trasferimento selvaggio del connettivismo alla scuola può indurre a credere che basti mettere gli allievi in rete per produrre conoscenza, consolidando quel famoso stereotipo diffuso, secondo cui più tecnologie si usano, in qualunque modo lo si faccia, e meglio è per l’apprendimento[14].

 

Occorre infatti ribadire che l’introduzione delle tecnologie nella scuola deve avere come scopo principale quello di innovare la didattica, altrimenti la presenza degli strumenti non solo sarà superflua, ma anche controproducente. In alcune scuole sono stati introdotti i tablet ma poi sono stati messi nel cassetto adducendo la motivazione che distraevano e basta; in realtà distraggono se gli insegnati non fanno lavorare seriamente i ragazzi, se non c’è un uso continuo, se non c’è il consolidamento di buone prassi. […]

 

In conclusione possiamo affermare che il web rappresenta una straordinaria opportunità di rinnovamento della didattica se adeguatamente utilizzato.

 

Per far ciò c’è bisogno di formazione continua e aggiornamento da parte degli insegnanti non solo per quanto concerne le competenze tecnologiche e digitali in senso stretto, ma anche e soprattutto per le competenze cognitive, creative, emotive, comunicative, collaborative e… maieutiche, per tirar fuori, per sviluppare le potenzialità delle diverse forme di intelligenza[15] nel rispetto delle attitudini di ciascuno e per creare una cultura della rete o, meglio ancora, una rete della cultura.

ars maieutica digitalis


 

[1] MIUR, La Buona Scuola, settembre 2014, pag. 95

[2] Sintesi del dibattito sulla tematica specifica “La digitalizzazione” promosso dall’USR Marche a San Benedetto del Tronto il 24 ottobre 2014

[3] MIUR, La Buona Scuola, cit., pag. 74

[4] DDG n.12 cit., pag. 2

[5] La rivoluzione copernicana proposta dall’ispettore Maurizio Tiriticco, PVM Scuola, 23 Febbraio 2014,  http://www.pvmscuola.it

[6] Cfr. CM 34/2014

[7] Bauman Z., Modernità liquida, Ed. Laterza, Bari, 2002

[8] Lévy P., L’intelligenza collettiva. Per un’antologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996

[9] Cecchinato G., Flipped classroom. Innovare la scuola con le tecnologie del Web 2.0, Atti del seminario residenziale “il fascino discreto dell’innovazione”, Lecce, 2012

[10] Vygotskij, Pensiero e linguaggio, 1934

[11] Competenza è “la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale; sono descritte in termini di responsabilità e autonomia” – Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea del 23 aprile 2008 sulla costituzione del Quadro Europeo delle Qualifiche per l’apprendimento permanente

[12] Il quadro di riferimento delinea otto competenze chiave: 1) comunicazione nella madrelingua; 2) comunicazione nelle lingue straniere; 3) competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; 4) competenza digitale; 5) imparare a imparare; 6) competenze sociali e civiche; 7) spirito di iniziativa e imprenditorialità; 8) consapevolezza ed espressione culturale. – Raccomandazione 2006/962/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 dicembre 2006, relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente [Gazzetta ufficiale L 394 del 30.12.2006, pag. 10].

[13] Connectivism: A Learning Theory for the Digital Age, International Journal of Instructional Technology and Distance Learning, Vol. 2 No. 1, Jan 2005

[14] Connectivism: new paradigm or fascinating pout-pourri? , Antonio Calvani, Je-LKS n.1, 2008

[15] Gardner, Frames of mind, 1983