Una proposta di lettura della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia

Una proposta di lettura della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia mediante locuzioni in inglese, dall’holding al rebirthing

di Margherita Marzario

Abstract: L’Autrice scava nella profondità delle parole usate dagli estensori dello strumento normativo internazionale per farne scaturire, come da sorgente, tutti i significati (anche in lingua inglese) che ne dicono l’importanza a tutela dell’infanzia

 

Per “far conoscere diffusamente i principi e le norme della Convenzione” (art. 42) e “promuovere l’effettiva applicazione della Convenzione” (art. 45) Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989, per puntualizzarla ed anche vivificarla in nuovi contesti sarebbe interessante leggerla mutuando, in maniera atecnica, locuzioni inglesi usate nelle scienze umane o in altri ambiti per dare pure un nuovo significato a queste espressioni, spesso abusate o vanificate.

“[…] il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal Preambolo della Convenzione); mentre nell’art. 6 della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1959 si legge “[…] un’atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e morale”. La Convenzione ha allargato il concetto per far intendere che si deve circondare il bambino di situazioni positive, feconde di vita (qual è il vero significato di felicità). Il bambino ha bisogno di affettività, che non è l’ipoaffettività o disaffettività che spesso caratterizzava la famiglia del passato, prevalentemente normativa, ma non è nemmeno l’iperaffettività della famiglia attuale che rischia di portare all’anaffettività. Il bambino ha bisogno di “holding” (letteralmente “contenimento, sostegno”), teoria elaborata per la prima volta dal pediatra e psicoanalista inglese Donald W. Winnicott (1896-1971), per definire il ruolo della madre (o, più in generale, della figura significativa che si prende cura del bambino, “caregiver”) di fungere da contenitore delle angosce del bambino, di costituire una sorta di spazio fisico ma soprattutto psichico (“holding environment”) in cui il bambino si sente accolto, sostenuto, rassicurato, incoraggiato nelle prime espressioni di sé. All’“holding” si aggiungono l’“handling” e l’“object presenting”. Con il termine “handling” ci si riferisce all’insieme delle manipolazioni corporee materne così come i giochi corporei e gli atti affettivi (dalle carezze al “mangiucchiare” i piedini e il pancino). Il senso dell’“handling”, toccare, che evoca quello giuridico di “mantenere” (da “tenere per mano”) i figli, bandisce il manipolare psicologicamente o tiranneggiare i figli, soprattutto durante le crisi di coppia. Per “object presenting” si intende la capacità materna di rendere disponibile al bambino l’oggetto nell’esatto momento in cui ne ha bisogno, né troppo presto né troppo tardi. Tra il giusto contatto e il giusto distacco si contribuisce alla formazione del sentimento e della volontà del bambino: è questo uno dei significati di “crescere”. L’“holding” è diventata poi terapia, la cosiddetta “terapia dell’abbraccio”, elaborata e sviluppata negli anni’80 da Marta Welch negli USA e usata soprattutto per l’autismo e psicosi infantili. “Abbracciare” significa tendere le braccia, circondare con le braccia, ma non sostituirsi all’altro o soffocarlo; quindi genitori e adulti devono rispettare l’individualità e la personalità dei bambini. “Il figlio è come un puledro il cui addestratore fa girare all’interno della staccionata dandogli più o meno corda; quindi è il puledro che corre al comando dell’addestratore e non quest’ultimo che corre appresso al puledro” (don Antonio Mazzi[1]). “La famiglia di origine, mentre dà protezione e sicurezza, dovrebbe aiutare i figli a maturare. Dovrebbe buttarli nella vita. Compito difficile, per i genitori, il taglio definitivo del cordone ombelicale e altrettanto difficile l’impresa dei figli di lasciare il padre e la madre” (Valentino Salvoldi, teologo e scrittore).

Tutto nel rispetto del “timing” (vocabolo inglese con più significati da “calcolo del tempo” a “sincronizzazione”; in psicologia s’intende la successione temporale di un fenomeno psichico o comportamentale) del bambino, ossia “in modo consono alle sue capacità evolutive” (artt. 5 e 14 Convenzione), “in relazione alla sua età ed al suo grado di maturità” (art. 12 Convenzione), “in particolare in ragione della sua età o condizione” (art. 40 Convenzione). Il bambino ha diritto al suo tempo e ai suoi tempi (aspetto che sembra scontato ma è sempre più trascurato), non perché sia immaturo ma perché è un bambino, una persona che va maturando e che deve vivere le tappe ed ogni tappa della sua vita per maturare (la cui radice semantica “ma“ significa proprio “misurare”) altrimenti rischia di diventare un immaturo cresciuto solo anagraficamente: non si può pretendere che il germoglio porti già i frutti dell’albero. Nel Preambolo della Dichiarazione del 1959 si prescrive: “Considerato che il bambino, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali compresa una adeguata protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita” (capoverso riportato nel Preambolo della Convenzione del 1989 come linea di continuità dell’impegno internazionale a tutela dell’infanzia). Delineata in tal modo sembra che l’infanzia sia uno stadio da minorati, invece è la fase fondamentale e fondante della vita tanto che continuando a leggere il Preambolo della Convenzione si trova “[…] che occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società”. Per cui occorre non solo circondare di positività il bambino ma anche abituarlo al “coping” (letteralmente “fronteggiamento”), capacità reattiva di fronte alle situazioni stressanti, alle negatività così lo si prepara appieno ad avere una vita individuale (letteralmente “indivisibile, inseparabile”) nella società, in mezzo agli altri e con gli altri.

Una delle più rilevanti novità della Convenzione rispetto alla Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1959 è stata quella di aver introdotto l’attenzione al “benessere” del fanciullo sin dal Preambolo. Mentre nell’art. 4 della Dichiarazione del 1959 si diceva “[…] devono essere assicurate a lui e alla madre le cure mediche e la protezione sociale adeguata”, nell’art. 3 della Convenzione si legge “[…] assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere”, quel benessere che, successivamente, nell’art. 17 è definito “sociale, spirituale e morale”. Adulti e bambini devono “com-prendere” che il “focus” (centro, a cosa prestare particolare attenzione) della vita non è il successo o l’avere cose esteriori ma il “ben-essere”, in altre parole devono imparare a fare “focusing” (“focalizzazione”; tecnica sorta negli anni ’70 ad opera dello psicoterapeuta Eugene T. Gendlin), fare attenzione alla percezione corporea, mettere a fuoco le sensazioni cariche di significato con le quali il corpo riassume continuamente ogni vissuto, accoglierle e tradurle in informazioni comprensibili e utili per la vita. I bambini sono dei focalizzatori naturali, poiché essere in rapporto col corpo e con i suoi messaggi è un’abilità innata nell’essere umano; hanno solo bisogno di un po’ di aiuto da parte di adulti, che sanno come fare, per fidarsi di quello che sentono. La dimensione corporea interiore (in gergo “felt sense”) diviene così fonte di vero benessere.

Nell’art. 5 della Convenzione si richiamano le responsabilità, i diritti ed i doveri di tutti gli adulti, dai genitori all’intera comunità. È questo il senso da dare alla cogenitorialità o al “co-parenting” e non, riferendosi a quest’ultimo, concepire e crescere un figlio senza essere una coppia legata sentimentalmente. Cogenitorialità che si esprime in “counseling” (relazione d’aiuto che consiste nell’accompagnare l’altro verso le proprie scelte autonome), nell’impartire al fanciullo l’orientamento e i consigli (etimologicamente “saltare insieme” o “fare silenzio insieme”) necessari all’esercizio dei suoi diritti.

L’art. 12 della Convenzione è noto per aver riconosciuto il diritto all’ascolto dei bambini trascurando, però, il dovere dell’ascolto e l’educazione all’ascolto. L’ascolto stesso è un procedimento, “audit” o “auditing” (termine inglese usato in vari settori e derivante dal verbo latino “audire” che aveva vari significati, da “sentire” a “interrogare”), in cui si rivede se stessi, ci si confronta, così si forma veramente un’opinione (da “giungere con la mente” e, pertanto, frutto di un processo interiore) e la si può esprimere liberamente e in qualsiasi materia.

Nel cuore dell’elenco dei diritti positivi dei bambini, nell’art. 14 par. 1 della Convenzione si prescrive che “Gli Stati parti devono rispettare il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. È l’unico articolo che esordisce in tal modo: è un vero progetto di vita, è il progetto-persona. “Pensiero” (da “pesare con cura”), “coscienza” (da “sapere con, insieme, per mezzo”, quindi essere presenti a se stessi), “religione” (in latino “scrupolosità, considerazione, cura riguardosa”): ben lungi dai concetti di “facoltà” e “giudizio personale” espressi nell’art. 7 della Dichiarazione del 1959. È necessario avviare il bambino alla “mindfulness” (“consapevolezza, presenza mentale”), il cui ideogramma cinese con due caratteri diversi indica l’atto di vivere il momento presente con il cuore. Secondo la definizione, data nel 1994, dallo studioso statunitense Jon Kabat-Zinn, “mindfulness” significa “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante”. Si tratta di pre-occuparsi dello sviluppo mentale del bambino, richiamato negli articoli 27 e 32 della Convenzione (l’aggettivo mentale compare anche negli artt. 17, 19, 24, 25), come già nell’impostazione dell’antico ginnasio greco (“ginnasio” etimologicamente “esercizio della persona”) e secondo il notissimo apoftegma di Giovenale “mens sana in corpore sano”; “mente” deriva dalla radice semantica “ma” da cui hanno avuto origine molte altre parole come memoria, misura, madre, materia, matematica, perché la mente indica tutte queste facoltà, da quella razionale a quella creativa, per questo l’estensore della Convenzione ha preferito l’aggettivo “mentale” ad “intellettuale”, usato nell’art. 2 della Dichiarazione del 1959. Fra tutte le facoltà, una delle più importanti è la memoria, da non trascurare in un’epoca in cui si tende a resettare e cestinare tutto. La memoria concorre alla consapevolezza di sé e dell’altro da sé. “La memoria è la più preziosa esperienza intrapsichica che ci sia dato sperimentare ma ha bisogno di essere costantemente confermata dalle nostre scelte e dai nostri gesti perché altrimenti passa come acqua su una lastra, senza lasciare traccia. Il problema è creare una carta assorbente, noi stessi, che si intrida di ricordi. Qui entra in gioco la pedagogia della memoria in famiglia, che richiede fatica e attenzione ma che, in prospettiva, dà i suoi frutti” (Duccio Demetrio, docente di filosofia dell’educazione e della narrazione). Data la rilevanza di tutto ciò, “Gli Stati parti devono rispettare il diritto e il dovere dei genitori o, all’occorrenza, dei tutori, di guidare il fanciullo nell’esercizio del diritto sopra menzionato” (art. 14 par. 2 Convenzione). I genitori e le altre figure significative devono essere capaci di “coaching” (da “allenare, dare ripetizioni”), cioè devono accompagnare e motivare verso un determinato risultato. Per fare ciò è necessario, però, che loro vi siano già arrivati, che siano veramente adulti, che siano “cresciuti negli anni e nella persona, quanto basta per avere intelletto e discernimento”, quell’adultità che spesso latita soprattutto in libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Colui che guida un autoveicolo deve avere la patente di guida, conosce il mezzo, chi o cosa trasporta, la strada e la destinazione: così dovrebbe essere per la “patente” della genitorialità.

Ai genitori si chiede anche il “parent engagement” o “parental involvment” (letteralmente “coinvolgimento dei genitori”). I genitori non solo siano genitori, ma facciano i genitori, si sentano genitori, si sporchino le mani con la genitorialità. “[…] entrambi i genitori hanno comuni responsabilità in ordine all’allevamento ed allo sviluppo del bambino. La responsabilità di allevare il fanciullo e di garantire il suo sviluppo incombe in primo luogo ai genitori o, all’occorrenza, ai tutori. Nell’assolvimento del loro compito essi debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” (art. 18 par. 1 Convenzione). La genitorialità è una responsabilità e un compito che si possono e devono condividere, ma non dividere o delegare. L’interesse superiore del fanciullo è tale anche nei confronti del fanciullo stesso e non farsi prendere o condurre nelle scelte dai suoi capricci o interessi passeggeri.

Nell’art. 5 della Dichiarazione dei Diritti del fanciullo si legge: “Il bambino che si trova in situazioni di minorazione fisica, mentale o sociale ha diritto a ricevere il trattamento, l’educazione e le cure speciali di cui abbisogna per il suo stato o per la sua condizione”. L’art. 23 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia invece recita: “Gli Stati parti riconoscono che un fanciullo fisicamente o mentalmente disabile deve godere di una vita soddisfacente che garantisca la sua dignità, che promuova la sua autonomia e faciliti la sua partecipazione attiva alla vita della comunità”. Col bambino disabile, ma anche con quello “normodotato” affinché non diventi disabile nel vivere o inabile nell’amare, occorre fare “reflecting”, aiutare qualcuno a riflettere su di sé, sul proprio essere e sul proprio esistere, utilizzando prevalentemente le proprie risorse personali; si tratta di una relazione di aiuto in cui si convertono gli atteggiamenti di rinuncia e di rassegnazione in atteggiamenti costruttivi. Il bambino disabile impara a vivere la sua disabilità e a conviverci. Per questo sono necessari il “curing”, “cure speciali”, e il “caring”, “prendersi cura” (art. 23 par. 2 Convenzione). Si pensi, tra i tanti casi, alle Paraolimpiadi o ai traguardi raggiunti nella vita quotidiana da ragazzi con la sindrome di Down.

In tutto questo i genitori hanno bisogno di “parent training”, da non intendersi solo attività di formazione rivolta ai genitori di bambini con difficoltà ma come “educazione dei genitori”, di cui si parla nell’art. 29 lettera f della Convenzione ed inserita come ago della bilancia tra la “medicina preventiva” e la “pianificazione familiare”, proprio perché l’educazione dei genitori è fondamentale per il benessere dei bambini e per il benessere sociale soprattutto considerando l’aumento di bambini problematici o caratteriali tra gli effetti della crescente incompetenza genitoriale. L’educazione dei genitori da esplicarsi non solo in appositi corsi o incontri ma anche e soprattutto come loro capacità di mettersi in discussione, di confrontarsi con gli altri, di accettare consigli, suggerimenti, correzioni, come avveniva in passato in cui contavano il rapporto di vicinato, la considerazione degli insegnanti, il parentado (e non consulenze professionali e trasmissioni televisive su tate) e valori comuni. La pianificazione familiare in passato (e ancora oggi in alcuni Paesi sovrappopolati) riguardava il controllo delle nascite e di eventuali gravidanze indesiderate; oggi la pianificazione va intesa nel far capire ai genitori che i figli non devono essere frutto dei loro egoismi, per “cementificare” una coppia vacillante o inesistente, o da concepire in età molto matura dopo aver raggiunto altri traguardi professionali o personali o altro ancora. Per far fronte a tutto questo, esperti di pedagogia della famiglia, quali Luigi Pati e Antonio Bellingreri, propongono l’istituzione di scuole per genitori impostate come percorsi di apprendimento, che possono aiutare in particolare una crescita della consapevolezza di fronte alle responsabilità e alle difficoltà poste dalla vita di famiglia nei momenti critici. Le scuole possono attivare processi virtuosi di cambiamento, soprattutto perché l’apprendimento avviene attraverso una riflessione sulle esperienze di vita condotte da ciascuno in prima persona. Mediante la solidarietà tra le famiglie e il processo di apprendimento riflessivo, la coppia diviene esperta della propria vita e può trovare in se stessa le energie per affrontare e superare i problemi che ogni giorno si vanno ponendo.

L’educazione dei genitori è inserita nell’art. 24 relativo alla salute del fanciullo ed anteposta all’educazione del fanciullo disciplinata nell’art. 28 della Convenzione. Il punto di svolta è e rimane l’educazione, dall’autoeducazione alla coeducazione. Tra gli obiettivi europei la “vocational education and training” (VET, istruzione e formazione professionale), già stabilita nell’art. 28 della Convenzione di cui resta disattesa in particolare la previsione della lettera d “rendere l’informazione educativa e l’orientamento professionale disponibile ed alla portata di tutti i fanciulli”, soprattutto perché non ci si pone alla portata dei fanciulli, dal livello legislativo a quello operativo, perché si trascura il “tutti” ripetuto quattro volte nell’art. 28 e perché non si fa della propria vocazione la propria professione. Ha trovato maggiore applicazione il terzo paragrafo dell’art. 28: “Gli Stati parti devono promuovere e favorire la cooperazione internazionale in materia di educazione, in particolare al fine di contribuire all’eliminazione dell’ignoranza e dell’analfabetismo e facilitando l’accesso alle conoscenze scientifiche e tecniche ed ai metodi di insegnamento”. Nell’art. 28 della Convenzione si parla distintamente di ignoranza e di analfabetismo, perché ci sono varie e sottili forme di analfabetismo, da quello di ritorno a quello emozionale. Contro ogni ignoranza ed analfabetismo si sono diffuse varie tecniche, tra le più note: “role playing” (gioco di ruoli), “circle time” (tempo del cerchio), “problem solving” (soluzione dei problemi), “coding” (programmazione, per passare poi al cosiddetto pensiero computazionale), “brainstorming” (tempesta di cervelli). Quello che più conta, però, sono i “metodi di insegnamento”, un richiamo affinché s’insegni con metodo (etimologicamente “l’andare indietro per ricercare, per investigare”), s’insegni il metodo (ricordando che “metodo” deriva dal greco “metà”, dopo, oltre, e “hòdos”, cammino, via, strada; parole che ben si addicono all’istruzione e all’educazione) e che si insegni veramente tendendo principalmente a “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia fra tutti i popoli, gruppi etnici, nazionali e religiosi, e persone di origine autoctona” (art. 29 lettera d Convenzione). E questo lo si può ottenere meglio e prime attraverso la “peer education” e la “peer mediation”, educazione tra pari e mediazione tra pari, giacché bambini e adolescenti vivono in un mondo sempre più popolato di adulti e adulterato dagli adulti. In tal modo bambini e adolescenti diventano davvero soggetti educativi e l’infanzia e l’adolescenza divengono tavolo di “lifelong learning”, apprendimento permanente (basti pensare alle tante parole e storie inventate dai piccoli, capacità innata dei piccoli e che, spesso, viene frenata), e non solo fasi problematiche per gli adulti sempre più incapaci di affrontarle. Il tutto se impostato in modo ludico e ludiforme (“gamification”, ludicizzazione), intendendo la vita come il più bel gioco cui partecipare (anche per prevenire le forme di ludopatia, internet-patia e altre dipendenze): “Gli Stati parti devono rispettare e promuovere il diritto del fanciullo a partecipare pienamente alla vita culturale ed artistica ed incoraggiano l’organizzazione di adeguate attività di natura ricreativa artistica e culturale in condizioni di uguaglianza” (art. 31 par. 2 Convenzione). Formulazione molto più efficace di quella dell’art. 8 par. 2 della Dichiarazione dei Diritti del fanciullo del 1959: “Il bambino deve avere tutte le possibilità di dedicarsi a giochi e ad attività ricreative che devono essere orientate a fini educativi; la società e i poteri pubblici devono fare ogni sforzo per favorire la realizzazione di tale diritto”. Nell’art. 31 della Convenzione il gioco è auspicato come stato d’animo, come approccio di vita, infatti è l’unico articolo scritto in questo modo incisivo e positivo prima degli articoli successivi in cui si parla di situazioni negative da cui salvaguardare i bambini.

Anche in caso di esperienze negative, però, si deve trasmettere ai bambini lo spirito di “rebirthing” (letteralmente “rinascita”), inteso come rinnovamento e nuova scoperta del sé, a maggior ragione nei casi di un “fanciullo accusato e riconosciuto colpevole di aver violato la legge penale” cui si deve facilitare il suo reinserimento nella società e fargli assumere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima (art. 40 par. 1 Convenzione).

Concludendo sono attuali, oggi più che mai, le parole del Preambolo della Dichiarazione del 1959 “[…] l’umanità ha il dovere di dare al fanciullo il meglio di se stessa” ribadite da quelle del Preambolo della Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance (Parigi, giugno 2007; atto non normativo e, pertanto, non vincolante) “Ogni bambino ci dice a modo suo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama anche alla nostra responsabilità”. Responsabilità: dare una risposta. Dovere di tutti e di ciascuno.

[1] Durante la presentazione del libro “Stop ai bulli. La violenza giovanile e le responsabilità dei padri” (Mondadori, 2008) a Matera il 17 gennaio 2009.