Il mio Sessantotto… ed anche prima per capirne di più!

Il mio Sessantotto… ed anche prima per capirne di più!

di Maurizio Tiriticco

68Saggio pubblicato in “Tutta colpa del ‘68”, a cura di Dario Missaglia e Alessandro Pazzaglia, Edizioni Diesse, 2010

 

Quel 25 luglio ’43… un balzo in un altro mondo!

I miei genitori erano stati sempre molto prudenti nei miei confronti per tutto il periodo in cui il fascismo fu al potere. Non si erano mai fatti scappare nulla contro il regime! Se io, “balilla escursionista”, poi “balilla moschettiere” e poi ancora “avanguardista moschettiere” – era la leva fascista, e l’anno successivo sarei diventato “avanguardista mitragliere” – ne avessi parlato con i compagni e se la cosa si fosse risaputa… le “spie “ del regime, che erano ovunque, chissà che cosa avrebbero detto e che sarebbe successo! Ma in quella sera del 25 luglio dopo l’annuncio radiofonico, fu festa grande in casa mia e il silenzio serioso e i mugugni di sempre divennero grida di gioia!

Il mio antifascismo militante, ma non troppo, ebbe inizio quando negli anni scolastici 43/44 e 44/45, studente del Liceo Classico “Giulio Cesare” di Roma, cominciai a portare a scuola qualche copia clandestina dell’“Avanti” che lo zio socialista mi passava – ovviamente raccomandandomi di non farne parola con nessuno – e a nasconderla sotto il banco di qualche aula o prima dell’ingresso degli studenti o durante la ricreazione. La cosa, fortunatamente per me e… per tutti noi, non ebbe seguito! Quella stampa clandestina o veniva interpretata come chissà che cosa o veniva molto prudentemente cestinata. Ricordo che un mio compagno di classe, Romano, pieno della sua fede fascista, a scuola sempre in divisa, pistola e stivaloni, all’appello dei professori, scattava provocatoriamente sull’attenti sbattendo i tacchi, gridando “presenteee!” e facendo, ovviamente, il saluto romano!

Tra un allarme aereo e l’altro, una retata e l’altra, la fame sempre più nera, gli anni del liceo trascorsero e la guerra ebbe fine! Gran festa quel 5 giugno del ’44, quando gli americani giunsero finalmente anche a Monte Sacro dove abitavo. La sera del 4 erano già a San Giovanni – ce lo dicevano le telefonate di amici e parenti – e li aspettammo per tutta la notte! Pane bianco, chewing gum a tavoletta, ufficiali vestiti come i soldati e boogiewoogie furono il primo impatto con una ritrovata libertà! Dopo una breve stagione di milizia con il Partito socialista, mi iscrissi alla Fgci, quindi alla cellula universitaria romana del Pci. La nostra segretaria era Luciana Castellina, una vera signora, come avrebbe detto mia madre, distinta, elegante e raffinata e noi… quasi tutti “poverelli” – era l’immediato dopoguerra – eravamo sempre in ammirazione: bellezza, intelligenza, determinazione erano “virtù” non molto diffuse in quel periodo, in una ragazza in particolare! Più tardi, da laureato, passai alle sezione di strada di Monte Sacro, quindi a quella del Trionfale.

 

Anni Cinquanta: scrivo e faccio politica

Sono stato redattore di “Pattuglia”, settimanale dei giovani socialisti e comunisti, diretto da Franco Funghi. Durante la campagna elettorale della primavera del ’53 (si votava il 7 giugno pro o contro la “legge truffa”) pubblicammo in prima pagina un “vota Pci”: il che mandò su tutte le furie i compagni socialisti. Così “Pattuglia” chiuse e nacque “Avanguardia”, settimanale della Fgci; fu chiamato a dirigerla Gianni Rodari. Dopo qualche mese passai a “l’Unità”, agli esteri con Alberto Jacoviello. Ne era direttore Pietro Ingrao e in redazione c’erano anche Maurizio Ferrara e Alfredo Reichlin. I compensi erano, ovviamente, meno che pochi, così, forte di una laurea in lettere, decisi che mi sarei dato all’insegnamento. Non avevo una particolare vocazione, ma le ore di lavoro sarebbero state “poche” – anche oggi si dice così – ed il che mi avrebbe permesso di dare più tempo alla sezione di strada del Partito, i “Dieci martiri” di Monte Sacro. Ebbi la responsabilità dell’“agitazione e propaganda”, leggevamo, studiavamo, “litigavamo” ma alla fine la ferrea regola del centralismo democratico aveva sempre ragione! Ed era quel collante che non solo teneva noi e il partito, ma che lo differenziava da tutti gli altri. Ed un collante che teneva saldo anche me! Così i miei dubbi erano solo “affar mio” o di discussioni molto molto animate e riservate tra i compagni più accorti e più critici. Ricordo Ravaglia, un operaio emiliano che si dichiarava bordighiano… con tutte le cautele del caso, per non essere bollato come troschista.

Facevano testo la Storia del Partito comunista (bolscevico) dell’Urss, breve corso, Mosca, edizioni in lingue estere, i fascicoli dei corsi Lenin e Stalin ed i periodici “Vie Nuove” con qualche patinatura da rotocalco, e “Per una pace stabile, per una democrazia popolare”, una sorta di bollettino di informazioni antititine. E poi c’era poco da dubitare a fronte dell’impresa storica che ci attendeva e per cui ci eravamo tutti impegnati: la lotta contro la borghesia ed una Democrazia cristiana destinata solo a difendere interessi consolidati, in vista dell’affermazione di una società più giusta, di una vera Repubblica democratica fondata sul lavoro, di cui alla nostra Costituzione. Il tutto nella prospettiva più lontana di una società socialista, tutta da costruire! Ricordo l’amico e compagno Aldo Bollino, sposo felice, che si augurava che i figli nascessero in una Repubblica popolare!!!

 

Dagli entusiami ai dubbi

Tanti entusiasmi espliciti ed alcuni dubbi, impliciti! Ed i primi emersero in seguito alla vicenda dei compagni onorevoli Valdo Cucchi e Aldo Magnani, espulsi nel ’51 dal partito, e che Togliatti bollò con quella espressione, “anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa si possono sempre trovare due o tre pidocchi” (l’Unità del 28 febbraio ’51). In quegli anni le comunicazioni erano quelle che erano, i viaggi all’estero erano ancora un sogno, non c’era internet. Rivelare ciò che effettivamente era l’Unione sovietica, al di là della propaganda di partito, sempre prodiga, non era cosa facile, ma era più facile mettere alla gogna due testimoni scomodi! Nel ’53 morì Stalin e fummo in molti a piangere: i discorsi di convenienza e di esaltazione della sua persona e della edificazione del socialismo e, soprattutto della costruzione di un uomo nuovo, non più infettato da vizi della società borghese, costituirono una sorta di sedativo a qualsiasi dubbio. “Difficile è a me parlare oggi di Stalin; l’animo è oppresso dall’angoscia per la scomparsa dell’uomo più che tutti gli altri venerato ed amato, del maestro, del compagno, dell’amico. Giuseppe Stalin è un gigante del pensiero e dell’azione, con il suo nome verrà chiamato un secolo intero”. Con tali parole si espresse alla Camera Togliatti nella commemorazione che fece il 7 marzo del ’53: espressioni analoghe le possiamo ritrovare di un altro discorso, del ’49 a Mosca, in occasione del 70° compleanno del… grande compagno Stalin.

 

Il Manifesto del 101

Le vicende del ’56 ruppero ogni ragionevole incertezza! L’invasione di Ungheria fu una evento ben più eclatante delle denuncie di Cucchi e Magnani. Ed in 101 firmammo quel documento, in effetti una lettera riservata, destinata al Comitato centrale del Partito, con la quale prendevamo una ferma posizione contro l’invasione e chiedevamo al partito di pronunciarsi nettamente in merito. Non potevamo accettare che l’intera classe operaia di un Paese di Nuova Democrazia fosse diventata all’improvviso reazionaria e fascista o un burattino abbindolato dalle oscure trame della reazione. La lettera finì sulla rivista “Il Punto” ed il partito reagì pesantemente: gli organi di direzione e di controllo non contestarono tanto il contenuto, ma la forma: quale raffinatezza! Avremmo potuto pur dire quelle cose, ma nelle sedi di partito in cui eravamo iscritti. Rendere pubblica una posizione di dissenso non era compatibile con la linea del centralismo democratico! E ci si rimproverava anche il fatto che avessimo anteposto la nostra qualifica di “intellettuali” a quella di “normali” compagni iscritti! Come se il corpo sano del partito fosse stato infettato dal tarlo dell’intellettuale! Dai pidocchi alle tarme!

In effetti, con il senno del poi, a fronte di fatti che avrebbero comunque modificato il corso della storia e dello stesso movimento comunista, in molti pensammo che allo stesso Togliatti non convenisse affatto emarginare una serie di compagni il cui contributo politico ed “intellettuale” non sarebbe mancato quando svolte epocali, che sarebbero state inevitabili, si fossero verificate! Insomma, occorreva non rompere con i compagni sovietici – la ragion di Stato innanzi tutto! – ma neanche con una serie di fermenti, che più tardi, in situazioni diverse avrebbero maturato! Ma come? Ed al nostro navigato “migliore” l’intelligenza politica non mancava affatto! Se vent’anni dopo, nel ’76, con Berlinguer, alle elezioni politiche superammo il 34% – anche se non battemmo la DC – lo si dovette anche al fatto che i 101 non erano stati penalizzati più di tanto! Il tutto, ovviamente, sarebbe da approfondire!

Anche se tra i firmatari della lettera non c’era Antonio Giolitti, che ne fu senz’altro l’ispiratore, c’erano però Muscetta, Sapegno, Asor Rosa, Tronti, De Felice, Puccini, Colletti, Vespignani e tanti altri! Mancava Concetto Marchesi, anche se era stato sollecitato da Giolitti e Sapegno! Così si diceva! Il sindacato Cgil, com’è noto, assunse una posizione critica che non si discostava dalla denuncia del 101! E’ noto quanto in quella occasione affermò Di Vittorio: “Il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico, sono possibili soltanto con il consenso e la partecipazione attiva della classe operaia e delle masse popolari, garanzia della più ampia affermazione dei diritti di libertà, di democrazia e di indipendenza nazionale”. Molti dei 101 uscirono dal partito. E molti dei fuorusciti si persero per strada! Io invece feci la mia “autocritica” di fronte al comitato di disciplina della mia sezione riconoscendo che la prassi avrebbe dovuto suggerirmi di dichiarare nelle sedi istituzionali le mie critiche, ma non rigettai la bontà del loro contenuto. In effetti, gli stessi compagni del comitato manifestarono anch’essi tutte le loro perplessità a proposito dei fatti di Ungheria. Insomma, nelle sezioni da allora si cominciò a discutere animatamente e i dubbi di ciascuno diventarono a poco a poco i dubbi di molti, ma nessuno dei compagni “allineati” si sarebbe più sognato di accusarci di revisionismo, socialfascismo od altre amenità di questo tipo. Un passo avanti interessante!

 

Dopo il ’56: un nuovo corso nel dibattito interno al Pci

Tutte queste considerazioni tendono a dimostrare come le vicende del Sessantotto avessero origini lontane: in effetti la strada verso il socialismo non poteva essere contrassegnata solo dai “successi” raggiunti dalla Rivoluzione d’Ottobre! Una rivoluzione che peraltro non sembrava garantire quella palingenesi che certa propaganda aveva predicato e che i fatti dimostravano assai precaria nei suoi stessi fondamenti. C’era stata la vicenda del “tradimento” di Tito; ed ancora le Democrazie popolari non sembravano garantire affatto benessere e liberà né alla classe operaia né alle popolazioni! Il primo ottobre del ’49 era nata la Repubblica popolare cinese e non sembrava affatto che il nuovo Stato “andasse d’amore e d’accordo” con l’Unione sovietica! La politica delle grandi potenze aveva forse infettato anche quei Paesi che, invece, avrebbero dovuto segnare una nuova storia per l’intera umanità?

Nel febbraio del ’56 si era anche celebrato quel ventesimo congresso del Pcus in cui in una segretissima relazione… si fa per dire, Krusciov aveva denunciato i delitti di Stalin! Una relazione scomoda per il gruppo dirigente del Pci, che scelse l’operazione silenzio! E proprio quando ormai veniva pubblicata da tutta la stampa “borghese” L’era dei media di massa cominciava ad affermarsi ed il Partito non poteva non fare i conti con il fatto che le informazioni ormai non sarebbero più state bloccate o filtrate. Insomma, non era affatto facile dare una interpretazione di comodo degli avvenimenti di quei primi anni Cinquanta.

Il lento ma inarrestabile tramonto del culto di Stalin segnò gli anni successivi. Ma l’erezione del Berliner Mauer – siamo nel 1961 – per certi versi sembrava contraddire l’avvio di un clima politico più disteso. La politica dell’Urss procedeva sulla medesima linea dei due blocchi sanciti dalla Conferenza di Yalta del febbraio del ’45, ma voluta anche e soprattutto da Stalin… quando con un tratto di matita tracciò sulla carta geografica quella linea discriminante tra due mondi, che Churchill poi definì cortina di ferro! Ma nel corso degli anni, con l’erezione del Muro, quella cortina sembrava diventare di acciaio! I due blocchi, la proliferazione dell’armamento atomico! La paura di una seconda guerra mondiale, che sarebbe stata definitiva per l’umanità!

Nel partito si discuteva animatamente e cominciarono a delinearsi – almeno per quanto riguarda le discussioni tra gli iscritti – due posizioni, non necessariamente in alternativa.

 

Dalle contestazioni alla ricerca di una linea

Da un lato urgeva e si praticava la ricerca delle ragioni strutturali dello stalinismo che per altro, al di là delle purghe e dei gulag, di fatto aveva trasformato un Paese da agricolo ad industriale, ed aveva vinto una guerra mondiale con un altissimo contributo di vite umane. Forse aveva pesato la scelta di costruire il socialismo in un Paese solo, impresa che i “sacri testi” non potevano né auspicare né prevedere, in quanto la nuova società avrebbe visto uniti tutti – non uno di meno? – i proletari del mondo, impegnati insieme ad abbattere un intero sistema di organizzazione della società, quello capitalistico nonché imperialistico. Il che rinviava la ricerca alle origini, e qui, assieme ai Bucarin, ai Kameniev, ai Kerenskij e agli Zinoviev si ritrovava quel Trotskij il cui pensiero aveva costituito la critica più rigorosa ed impietosa delle scelte operate da Stalin.

Era forse vero, come sosteneva da sempre Trotskij, che la rivoluzione avrebbe dovuto essere permanente (l’opera relativa è del ’30 e Stalin ha già saldamente in mano il partito e lo Stato) o non sarebbe mai stata? Pertanto l’ascesa di Stalin non aveva nulla di rivoluzionario se si sceglieva di chiudere i confini dell’Urss e di flirtare anche con i capitalisti! Insomma, la costruzione del socialismo in un solo Paese non era stata una scelta assurda? In effetti quella rivoluzione tanto attesa era stata tradita da Stalin (l’opera di Trotskij è del ’38 e il suo assassinio avverrà due anni dopo). Se si seguiva questa linea – siamo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta – occorreva fare un’opera di “bonifica” nel partito, riaprire un dibattito politico che la svolta di Salerno e la scelta della Terza Internazionale avevano di fatto in parte bloccato ed in parte avviato in una direzione unica. Occorreva quindi ritornare alle sue origini classiste ed agire anche all’interno dei “partiti fratelli”.

Da un altro lato si proponeva un superamento epocale – potremmo dire – della vocazione prettamente classista, di liquidare definitivamente lo stalinismo, di accettare con piena consapevolezza il “gioco” democratico che la Costituzione democratica e repubblicana, nata dall’antifascismo di tante forze politiche, aveva sancito, ed imboccare una via tutta italiana al socialismo. Nella famosa intervista a “Nuovi Argomenti” (giugno ’56) Togliatti non è molto tenero nei confronti della denuncia di Krusciov dei delitti di Stalin ed invita ad affidare agli storici la critica allo stalinismo. “Sulla base di ciò che conosciamo, noi possiamo fare solo alcune affermazioni generali, disposti a rivederle se necessario. Ci sembra debba essere riconosciuto che la linea seguita nella costruzione socialista continuò a essere giusta, anche se gli errori che vengono denunciati sono tali che non possono non avere seriamente limitato i successi nella sua applicazione. Questo è però uno dei punti su cui saranno necessarie le maggiori spiegazioni, perché la restrizione e in qualche caso persino la scomparsa della vita democratica è cosa essenziale per la validità di una politica. Ci sembra, ad ogni modo, incontrovertibile che la burocratizzazione del partito, degli organi dello Stato, dei sindacati, e soprattutto degli organi periferici, che sono i più importanti, deve avere frenato, limitato e compresso il pensiero creativo…”. Insomma, la proposta è di lasciare agli storici i giudizi sullo stalinismo e sui suoi “errori”; e, se un’egemonia è in crisi, sta ad ogni Paese e ad ogni Partito ricercare la propria via per la costruzione del socialismo. Occorre peraltro aprire a tutti i movimenti autenticamente democratici per creare un fronte comune di lotta e di rinnovamento.

E’ la via che poi diventerà quel compromesso storico che in effetti non ha mai avuto una vita facile nel nostro Paese. Ma questa è un’altra storia! Infatti, bisogna giungere alla stagione di Enrico Berlinguer che diresse il Partito dal ’72 all’11 giugno dell’84, data della sua scomparsa. Ed è proprio alla fine del ’72 che Berlinguer scrive su “Rinascita” due articoli che indicano una linea nuova al Partito sostenendo che occorreva adoperarsi per realizzare una politica improntata ad una collaborazione e ad una intesa “delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari d’ispirazione cattolica”.

I comunisti stanno smettendo la pelle del lupo per indossare quella dell’agnello! Così gli avversari dicevano di noi in quegli anni!

 

L’avvio degli anni Sessanta

Gli anni Sessanta si aprirono all’insegna di queste due linee, di fatto più intrecciate che contrapposte: l’analisi dello stalinismo e dell’intera nostra storia di comunisti, da un lato, e, dall’altro, la ricerca di nuove alleanze, che non fossero la riesumazione dei fronti popolari, ma la ricerca del “meglio” di una lunga tradizione, laica e cattolica, di impegno politico e sociale. Insomma, forse non si sarebbe più preso a calci un De Gasperi con un paio di scarponi chiodati (si era trattato di una rozza espressione di Togliatti in un comizio elettorale del ‘48), ormai scomparso nel ’54, ma si sarebbe ricercato il perché ed il per come della iniziativa politica e sociale di un Don Sturzo! Non tutti i cattolici votano Dc! Gli iscritti al Pci non sono poi tutti materialisti… storici o dialettici! Nello statuto del Partito non si chiede nulla a proposito del loro credo: la lotta politica richiede un impegno civile e sociale, che attiene alle condizioni materiali dell’iscritto e alla sua volontà di riscatto, non alle sue convinzioni religiose. E l’approvazione dell’articolo 5 della Costituzione – quello che nella redazione finale divenne l’articolo 7 – che negli anni della Costituente segnò discussioni anche veementi nello schieramento della sinistra, nell’intuizione di Togliatti prefigurava appunto una politica di partito che ricercasse il consenso di masse sempre più numerose. Guai a riesumare quell’anticlericalismo di buona – o cattiva? –memoria!

Negli anni Sessanta mi muovo in due direzioni, non so ancora se contrapposte o per certi versi interagenti: da un lato l’analisi dello stalinismo, quindi la lettura di Trotskij e della sua analisi dell’intera storia della Rivoluzione bolscevica e dell’Unione sovietica; dall’altro, la fattibilità o meno dell’incontro con le forze migliori del mondo cattolico, che andasse oltre quella nicchia dei Rodano e del gruppuscolo dei “cattocomunisti”: una sorta di fiore all’occhiello che ogni tanto ostentavamo per dimostrare che l’anticlericalismo non ci apparteneva. Quell’inizio degli anni Sessanta è anche contrassegnato da nuove vicende: nasce Cuba socialista, si afferma la rivoluzione cinese! Sul piano ideologico, la crisi dello stalinismo conduce direttamente a ricercare altre vie per il superamento dello Stato borghese, che per i più a sinistra di noi “si abbatte e non si cambia” per passare tout court ad una organizzazione socialista della società! Un’altra faccia delle tante forme dell’estremismo, malattia infantile del comunismo: Lenin ce lo aveva insegnato!

Forse altri soggetti, oltre la classe operaia, saranno i protagonisti della nuova strategia rivoluzionaria. Tutti gli esseri umani indifferentemente sono gli oppressi del regime capitalistico, non solo gli operai e i contadini. Nel ’64 esce negli Stati Uniti L’uomo ad una dimensione di Marcuse! Negli stessi anni lavorano ricercatori come Ciomskj e Marshall McLuhan, poeti e scrittori come Ginsberg e Kerouac (“la Beat Generation è un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo”). Il felice superamento della “crisi dei missili” a Cuba non significa la restaurazione della pace tra i due blocchi! I regimi autoritari sono quelli che sono e la loro oppressione sulle popolazioni tutte, non solo su certe classi sociali, è a tutto campo… ed il movimento rivoluzionario anch’esso deve coinvolgere tutti gli oppressi, anche e soprattutto coloro che soffrono della imposizione di una cultura e di una ideologia borghese, quindi i giovani, gli studenti, vittime di quegli “apparati ideologici di Stato” di cui ci parlava Althusser. Esistono forme diverse del pensiero marxista dopo Marx, elaborazioni interessanti che vanno al di là dell’ossequio formale dei “sacri testi”. I francofortesi, Horkheimer, Adorno forniscono elaborazioni interessanti, anche critiche nei confronti di quel marxismo di cui i partiti ufficiali pretendono di essere gli unici esegeti. Insomma tanti steccati cadono, anche se lo steccato concreto del muro di Berlino sta lì fermo e non si sa fino a quando!

 

Gli interrogativi sulla scuola e sulle sue funzioni

E’ in questa temperie di ricerca, di studi, di discussioni che l’educazione e la scuola diventano oggetto di grande attenzione. Il compito di queste istituzioni è quello di formare i nuovi nati ai valori delle classi dominanti, di “includerli” con la promozione, o di “escluderli” con la selezione! Le bocciature nelle scuole sono uno strumento di emarginazione sociale, e le promozioni di legittimazione ai valori della società dominante, quindi di pura e semplice riproduzione. Vedi, appunto, La riproduzione, per una teoria dei sistemi di insegnamento, di Bourdieu e Passeron. E gli insegnanti non sono altro che notai, Le vestali della classe media, di Marzio Barbagli e Marcello Dei, addetti, appunto, a questa opera di riproduzione dei modelli sociali dominanti. E allora non sarebbe meglio liberarci dalla scuola, di questo primo strumento di selezione sociale? Restituiamo al sociale la funzione educativa e chiudiamo le scuole. Sono le teorie dei cosiddetti descolarizzatori, Illich, Reimer, Goodman.

Però un’altra scuola, una scuola “altra” può essere, invece, uno strumento di liberazione: è questa la pedagogia militante e rivoluzionaria di Paulo Freire (La pedagogia degli oppressi). Insomma, i primi anni Sessanta sono importantissimi, almeno nel nostro Paese, per quanto concerne la materia Educazione. L’obbligo viene elevato ad otto anni ed ebbe inizio nel 63/64. Ma la struttura della scuola media postelementare non era stata modificata per nulla, ci si era semplicemente adoperati ad unificare la scuola media di Bottai con quegli avviamenti al lavoro che nell’immediato dopoguerra erano proliferati. E le “vestali” – ed io ero una di loro: insegnavo allora nella scuola media – bocciavano, come sempre! Ci volle Don Milani a bacchettarci sonoramente nel ’67! Il fatto è che quando eravamo giunti a varare la scuola media unica, nulla si fece per trasformarla veramente! Il dibattito che aveva preceduto la sua istituzione aveva riguardato una questione soltanto, se il latino si dovesse insegnare o no, come se quell’unica disciplina, di fatto lo strumento principe e visibile della prima selezione sociale, fosse però l’unica discriminante e non fossero, invece, discriminanti una serie di altre cose, finalità, ordinamenti, metodologie, i concreti comportamenti degli insegnanti! Ma di queste cose ci accorgemmo solo successivamente, dopo le frustate di Don Milani, appunto!

 

Nel Pci lievita il dibattito interno

Insomma, i primi anni Sessanta furono anni di ricerca, di studio ed anche… di nuove scelte politiche! Dalla lettura di Trotskij alla scoperta della Quarta internazionale, sezione italiana, guidata da Livio Maitan il passo non fu né lungo né difficile! Eravamo un po’ carbonari, anche perché nei Paesi di chiara fede sovietica non era facile avviare una opposizione “da sinistra”: io, Maurizio, ero diventato Ferruccio (ricordavo Ferruccio Parri che nella Resistenza era Maurizio) e così fu per altri compagni del Pci organizzati nella Quarta. Occorreva non lasciare il partito, ma lavorare al suo interno, avviare critiche stringenti, ma prudenti, proporre interrogativi ineludibili, partecipare ai dibattiti nelle assemblee di cellula, di sezione anche in preparazione dei congressi e fare emergere le “contraddizioni” in cui la politica del partito – ovviamente a nostro giudizio di neotroskisti – rischiava di impantanarsi.

Il ’64 fu l’anno del Memoriale di Yalta e dei… Funerali di Togliatti, forse più importanti ed incisivi della sua stessa morte. Le linee Ingrao ed Amendola si facevano sempre più palesi ed il centralismo democratico diventava sempre più evanescente. I mass media – parola nuova allora – veicolavano sempre più informazioni da una parte all’altra del mondo e i dibattiti pubblici ne erano fortemente sollecitati! Se certi discorsi fossero stati fatti nei partito dieci anni prima, i loro autori sarebbero stati bollati di revisionismo, sciovinismo, infantilismo, troskismo od altre “nefandezze” di questo tipo. Negli anni Sessanta il clima era diverso e le critiche al gruppo dirigente del Pci figliavano giorno dopo giorno, soprattutto negli ambienti “intellettuali”, università, scuola… Sì! Scuola soprattutto!

Ma torniamo al ’67! Non fu solo l’anno della Lettera di Don Milani, la quale aveva costituito una sorta di acceleratore di un consenso contro un modello di scuola e, soprattutto, un modello di società che la scuola tenta, quasi per vocazione sociologica, di riprodurre! E gli insegnanti migliori non se la sentono affatto di essere complici di un simile disegno. Bando alle vestali, dunque! Il libro di Barbagli e Dei esce nel ’69 per Il Mulino, un editore caro agli insegnanti impegnati! E nacque anche una nuova casa editrice, Samonà e Savelli, di ispirazione troskista, che raccoglieva e pubblicava scritti fortemente critici della linea ufficiale del Pci.

Certi pensatori e certi testi, da Marcuse ad Althusser fanno anche la loro parte. Il disagio comincia ad avvertirsi anche negli studenti. Era sufficiente la scuola di allora a prepararli alle nuove competenze professionali che l’Italia modificata dal boom degli anni Cinquanta e Sessanta richiedeva? L’interrogativo era il seguente: a che cosa serve la scuola? Se non prepara “per la vita” – come si suol dire – prepara solo all’acquiescenza e all’integrazione in un dato sistema sociale? In tale situazione, la scuola può costituire il ventre molle dove “colpire” il partito! Fu così che molti di noi professori lasciammo e denunciammo i sindacati della suola autonomi – autonomi da che? – per dar vita al sindacato scuola Cgil! Gli insegnanti sono lavoratori come gli altri! E gli insegnanti più sensibili e responsabili, di sinistra ma non riconducibili tout court alla politica del partito, ci seguirono! E la Cgil ci ospitò: era tempo che anche gli insegnanti, piccoloborghesi da sempre quasi per natura, facessero una scelta che li affiancasse a tutti gli altri lavoratori, ma… Il nostro lavoro di critica alle linee generali del Partito e del Sindacato erra ormai alla luce del sole! Mozioni ed ordini del giorno “ufficiali” di un sindacato “di sinistra” urtavano contro la “linea” del sindacato confederale. Così, quando dalle assemblee della Cgil scuola cominciarono ad uscire documenti che andavano oltre la scuola in senso stretto, le cose cambiarono rapidamente! In effetti “l’apparato” compì un grande sforzo organizzativo: furono iscritti rapidamente insegnanti ed ausiliari “fedeli” e nel giro di qualche mese i comitati direttivi della prima ora furono dismessi ed il sindacato confederale assunse il controllo di un sindacatino di categoria vivace ma troppo capriccioso! Fu Aldo Bondioli ad assumere questo compito ingrato! Ricordo le sue “violente liti” con noi e con Adriana Buffardi, nostra leader! Ma ricordo anche il loro felice matrimonio, quando le bufere cessarono! Nonostante tutto, la sponda del movimento insegnanti rimaneva praticabile e per tutta la stagione del Sessantotto fu più che attiva, in concorso con il movimento studentesco.

 

Il Maggio parigino e i fatti di Praga

Ma facciamo un passo indietro! Già nel ’67 si erano sviluppati movimenti studenteschi negli Stati Uniti (Berkley) contro l’intervento americano nel Vietnam. Nel ’66 ha inizio in Cina la rivoluzione culturale di cui sono protagonisti le giovani generazioni. Insomma è un movimento giovanile e studentesco a contagiare a macchia d’olio tutti i “Paesi capitalisti”, fino in Francia dove avrà il suo clou con il Maggio parigino del ‘68 che accese quel movimento che per antonomasia divenne il Sessantotto! Nel partito lo scontro Ingrao-Amendola, già presente nell’undicesimo congresso del Pci (1966, il primo dopo la morte di Togliatti) attorno sia ai problemi della democrazia interna che al cosiddetto nuovo “modello di sviluppo” sostenuto da Ingrao, riprese nel dodicesimo (1969). Sono gli anni in cui matura una “opposizione” interna al Pci, opposizione che il gruppo dirigente posttogliattiano, diretto da Luigi Longo (fu segretario nell’interregno tra Togliatti e Berlinguer, da 64 a ’72) difficilmente può tollerare, ma neanche governare!

A rendere più vivo e deciso il movimento del Sessantotto furono i fatti di Praga; siamo nell’estate di quell’anno e il tentativo del “nuovo corso” avviato da Dubcek in Cecoslovacchia per avviare un “socialismo dal volto umano” – la cosiddetta primavera di Praga – viene violentemente ricacciato indietro dai carri armati sovietici. A dodici anni dai fatti di Ungheria sembra che in Unione sovietica, nonostante la morte e la condanna di Stalin, nulla sia cambiato! E qualcosa è cambiato nel nostro Pci? Assolutamente no! L’apparato non assume una posizione decisa in merito nonostante larga parte della base avvertisse l’estrema gravità della situazione. Non solo! L’opposizione interna – se vogliamo chiamarla così – viene espulsa dal partito. Nasce così il gruppo del Manifesto che vede tra i suoi fondatori Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli! E poi ancora altri nomi illustri, Luciana Castellina, Lucio Magri, Valentino Parlato, Massimo Caprara. Insomma, le critiche interne, i risentimenti, i dissensi, di cui erano stati portavoce i “Quaderni Rossi”, la prestigiosa rivista avviata nel ‘61 da un gruppo di eretici della sinistra, tra cui Renato Panzieri e Mario Tronti, e chiusa nel ’66, avevano infine dato i loro frutti!

In questa situazione così nuova e diversa da quella del Pci pre-sessantotto, aveva ancora ragion d’essere la politica troskista dell’entrismo? Gruppi e gruppuscoli nascevano un po’ dovunque: da Servire il popolo, filomaoista ad Avanguardia operaia, Autop, ovvero Autonomia operaia, Potere operaio, Lotta continua e via dicendo! Va anche sottolineato che la “ribellione” non partiva solo da sinistra e che non proprio tutti i giovani potevano dichiararsi compagni. Nel ’69, infatti, prendeva consistenza anche quel movimento fondato anni prima da Don Giussani, che assunse il nome di Comunione e liberazione. Sosteneva che il cammino della liberazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non poteva attuarsi con una via rivoluzionaria libertaria, che avrebbe finito con il riprodurre tutti gli errori e gli orrori dello stalinismo, ma solo nella comunione cristiana, con cui sarebbe stata possibile la vera liberazione dell’uomo, e non solo dallo sfruttamento. Per non dire delle tante formazioni neofasciste, che si segnalavano negli scontri con i compagni del movimento per la durezza dei loro picchiatori!

 

Valle Giulia e la poesia di Pasolini

L’assalto alla politica “conservatrice” del Pci ormai era tutta dall’esterno del partito e la ricetta troskista ebbe di fatto i giorni contati! La prudenza di un’analisi attenta e circostanziata della politica del partito e la proposta di progressivi – ed anche lenti – cambiamenti, che poi si risolveva nella pratica dell’entrismo, era ormai superata dalle proposte “eversive” tout court e dall’arroganza – anche – di tanti giovani che ostentavano di saperla molto più lunga dei quadri dirigenti del Pci. In effetti, chi veniva da analisi attente e di lungo periodo, come me e tanti altri compagni della vecchia guardia degli anni Cinquanta, si trovava anche a dover competere con posizioni a volte molto infantili e improvvisate! Spesso una sfrenata moda anti-pci era più forte e invadente degli esiti di tante analisi condotte nel corso degli anni! Mi trovai così – e ci trovammo in molti – in una strana situazione: quella di criticare il partito per le sue scelte, ma di sostenerlo per quello che era stata la sua “cultura” e la sua storia. A fronte della quale lo stesso rapporto di Krusciov al ventesimo congresso appariva grossolano e banale. Potremmo anche dire che Valle Giulia – siamo nel marzo del ’68 – cominciò a segnare molti ripensamenti.

E Pasolini scrisse quella poesia sull’Espresso che fece tremare le vene e i polsi a tutti noi! “… Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. […] Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia. Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri…”.

In seguito, con l’affievolirsi del movimento e dei movimenti, molti di noi, sull’onda di ritorno del Sessantotto “rientrarono nei ranghi” – se si può dir così – perché occorreva comprendere le ragioni della “fine”. Di fatto si aprivano due vie: si sceglieva l’analisi, la ricerca, un ritorno alla politica ineluttabile del passo dopo passo, oppure la strada del tutto e subito, lotta, comunque e sempre, senza generali e con molti soldati, anche ad oltranza? Erano assemblee convulse quelle nostre di un Sessantotto “in crisi”: occorreva “risalire sulle montagne” e scegliere la clandestinità e la lotta armata, come nuovi partigiani oppure “rimanere nella valle”, riassumere un ruolo di lotta nello specifico del proprio posto di lavoro e della propria professionalità? Ed il dibattito non era soltanto nostro, ma aveva anche una dimensione transnazionale, perché lo stesso movimento aveva assunto negli ultimi anni una dimensione transnazionale.

 

Oltre il Sessantotto

La mia scelta fu quella di “rientrare” nello specifico professionale. Avevo sempre insegnato – forse anche non male – ma la mia testa era sempre alla milizia politica. La domanda che allora mi posi era questa: chi sono io in quanto professionista in un determinato settore lavorativo? Al di là delle “grandi lotte” per un avvenire incerto, che cosa posso e debbo fare perché il mio ruolo, il mio concreto comportamento, sia conforme ad una linea di concreto rinnovamento nella specificità che mi riguarda e mi coinvolge nella prospettiva, ovviamente, di un disegno progressivo più ampio e di lunga durata? Una sorta di glocal giocato di anticipo! Lavorare nel locale avendo però la testa nella prospettiva del globale!

Fu così che con i nuovi anni Settanta “rientrai nei ranghi” con l’intento di studiare, ricercare, discutere sul ruolo docente e quello della scuola e delle sue istituzioni: ed allora fu forte e determinante scegliere il sindacato per quello che era e per il ruolo che gli competeva… ma la scelta mirata investiva la Fiom e la Fim! C’erano pur sempre delle differenze, a mio vedere tra un sindacato confederale e due sindacati di categoria… e quali categorie! I metalmeccanici, la punta di diamante delle lotto operaie, fin dall’epoca della Ricostruzione, del boom, della Seicento per tutte le tasche! E furono i metalmeccanici a rivendicare per primi il diritto allo studio! Esigevano una scuola diversa che facesse loro recuperare ciò che la “scuola borghese” aveva loro negato. Nacquero quelle 150 ore a cui molti di noi lavorarono: costituivano una premessa per avviare una ricognizione dei “saperi” scolastici di sempre e di una messa a punto di “saperi” diversi, che fornissero non solo nozioni, pur sempre necessarie, ma chiavi di lettura della realtà!

Qualche anno prima mi era anche nato Pierluigi! Mi chiedevo: che cosa deve fare un padre con un “nuovo arrivato” delle cui dinamiche di crescita/sviluppo non capisce assolutamente nulla? Il mio specifico professionale e… famigliare mi conduceva forzatamente a quella pedagogia di cui conoscevo soltanto il nome. Così, in quell’avvio degli anni Settanta feci delle scelte importanti e determinanti per il mio futuro professionale e politico. Rientrai nel Partito. Quale differenza rispetto alla prima iscrizione del ’50: nessuna presentazione da parte di almeno due compagni, nessuna autobiografia scritta, nessun “interrogatorio” da parte degli organismi di controllo! I tempi erano veramente cambiati! E poi l’ingresso nella redazione di “Riforma della Scuola”. C’erano Lucio Lombardo Radice, Alberto Alberti, Lucio Del Cornò, Mario Alighiero Manacorda, Giorgio Bini, Marino Raicich! E la frequentazione dell’Istituto Gramsci! Ed ancora: l’ingresso nella cattedra di Raffaele Laporta, il barone rosso del Magistero, facoltà da sempre fascisteggiante. Era un cattedra molto numerosa: eravamo tutti i sopravvissuti del ’68, con matrici e culture molto diverse, ma tutti animati da due imperativi: capire che cosa e come fare, e soprattutto fare! Una cattedra vista dagli altri dello establishment come un covo di transfughi sì, ma sempre pericolosi rivoluzionari! Laporta stava lavorando a La difficile scommessa, aveva alle spalle la Scuola città Pestalozzi di Firenze, La Nuova Italia e “Scuola e Città” con tutti suoi autori, Lamberto Borghi, Tristano Pippo Codignola, Guido Calogero, Francesco De Bartolomeis, Aldo Visalnerghi.

E con Laporta c’era anche il Movimento di Cooperazione Educativa, con Bruno Ciari, Mario Lodi, ed anche il Movimento di Collaborazione Civica con Ebe Flamini, Cecrope Barilli, Augusto Frassineti. Mi si aprì un nuovo mondo, di impegno civile, culturale e politico… quest’ultimo forse in seconda battuta, ma indubbiamente più incisivo per certi versi dei dibattiti politici nelle sedi di partito.

Gli studenti del postsessantotto della nostra cattedra erano assolutamente diversi! Non ci chiedevano di parlare di HoCiMin, ma volevano capire che diavolo fosse questa ricerca pedagogica. E che cosa dovevano fare in concreto per insegnare in una scuola che stava cambiando. Nel ’74 furono varati i Decreti delegati: che cosa significava e che cosa comportava la democratizzazione della scuola? E fu un grosso impegno anche per me misurarmi non solo con la didattica “spicciola”, ma anche con la pedagogia marxista e con quella cattolica (erano miei “alunni” Luigi Calcerano e Antonio Giunta La Spada): quali scelte comportassero sul piano delle finalità, ma anche del concreto “saper fare” insegnante! E nel ’74 nacque il Cidi, per iniziativa di Luciana Pecchioli e Tullio De Mauro, anche con un ampio e convinto sostegno del Pci (siamo già nella stagione Berlinguer). Nasceva così, a fianco dell’Uciim, l’associazione che dal ‘44 organizzava gli insegnanti di ispirazione religiosa, un nuovo soggetto, che avrebbe fatto della battaglia per la laicità della scuola e di una rigorosa professionalità dei suoi insegnanti la sua bandiera.

A questo punto occorre mettere la parola fine perché comincerebbe un’altra storia!

 

Roma, 4 ottobre 2009