Didattica Orientativa

Didattica Orientativa

di Salvatore Amato

L’azione orientativa ha accompagnato l’esistenza dell’uomo nel corso dei secoli, modificandosi parallelamente allo sviluppo della società umana. Nella nostra civiltà, fino al diciannovesimo secolo la pratica di orientamento si poteva definire come una “pratica spontanea”, la pratica professionale ha preso forma parallelamente allo sviluppo della società industriale che richiede una disponibilità continua all’aggiornamento e alla formazione, unitamente ad una rapida capacità di adattamento e riconversione delle proprie competenze.
L’esigenza di un orientamento che si realizzi lungo un continuum attraverso l’arco della vita e non si limiti ad un atto episodico viene ribadito a livello internazionale anche nella “Raccomandazione” conclusiva sul tema dell’orientamento del Comitato di esperti al Congresso internazionale UNESCO a Bratislava (1970).
A livello europeo il ruolo strategico attribuito all’orientamento nella lotta alla dispersione e all’insuccesso formativo trova adeguati riferimenti nel Memorandum del 2000 condiviso dagli stati membri dell’Unione Europea e nel successivo documento contenente i 15 indicatori considerati rilevanti per la qualità dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita (Lifelong learning).
A livello italiano, merita una riflessione la Direttiva Ministeriale n. 487 del 6 agosto 1997 che sottolinea la necessità di un rinnovamento della concezione e della pratica dell’orientamento: una nuova visione del concetto di orientamento, promosso al ruolo di “componente strutturale dei processi educativi” e non più un’attività laterale, saltuaria, circoscritta, mirata a risolvere situazioni di transizione o scelte come può essere il passaggio dalla scuola media alla scuola superiore o da questa all’università.
Nel corso del ventesimo secolo l’orientamento è stato ed è tutt’ora oggetto di studio e tema di confronto fra differenti teorie, sia dal punto di vista ideologico e sia metodologico, specialmente nell’ambito formativo.
All’inizio è prevalsa una concezione “psicologistica” dell’orientamento, che a partire dagli anni ’70 è stata sostituita da una concezione “socio-economica” che vede succedersi tre modelli consecutivi di orientamento di cui il primo aperto al mondo del lavoro e sottomesso al sistema socioeconomico, il secondo chiuso, isolato rispetto al mondo esterno e finalizzato principalmente al successo formativo dello studente e il terzo che favorisce il pieno sviluppo della persona e, allo stesso tempo, inserisce l’individuo nel contesto sociale e nei processi di cambiamento in corso in esso.
In questo processo di ricerca ci sono stati in Italia alcuni contributi teorici di grande rilievo nella letteratura dedicata alla didattica orientativa, inizialmente riferiti alla scuola media ma successivamente sempre più decisamente all’intero sistema scolastico.
Per fare un breve irrinunciabile riferimento mi rifaccio alla Prof.ssa Maria Luisa Pombeni la quale nel 2000 introduceva la nozione di competenze orientative necessarie per auto-orientarsi, distinguendo le competenze orientative specifiche, che si sviluppano esclusivamente attraverso interventi intenzionali gestiti da professionalità competenti, con le cosiddette azioni orientative (di monitoraggio o di sviluppo) dalle competenze orientative generali, finalizzate principalmente ad acquisire una cultura ed un metodo orientativo (orientamento personale) e propedeutiche alle prime, che si acquisiscono principalmente attraverso i saperi formali (per esempio la didattica orientativa).
Nella nostra società complessa, caratterizzata da profondi cambiamenti, ci si interroga su quello che devono “fare” le scuole per far sviluppare queste competenze agli studenti.
Devono semplicemente riprodurre la cultura, uniformare i giovani a uno stesso stile, secondo la concezione sofistica della téchne ad esempio trasformandoli in tanti “piccoli” italiani come sosteneva il Linati dopo l’Unità d’Italia per esigenze di unificazione?
O la scuola farebbe meglio a dedicarsi all’ideale altrettanto rischioso di preparare i giovani ad affrontare il mondo in evoluzione che dovranno abitare?
In questo secondo caso, però, come faremo a decidere quale sarà quel mondo e cosa richiederà loro?
Nel mondo in cui viviamo, in continua evoluzione, l’unica soluzione percorribile per la scuola è quella di educare gli studenti all’autonomia, alla indipendenza, alla responsabilità, alla capacità di inventare il proprio futuro, rendendoli immuni da ogni forma di massificazione, di inquadramento.
Sotto il profilo pedagogico, l’orientamento come approccio educativo suscita quindi molto interesse e ci pone d’obbligo l’interrogativo, se esso debba essere considerato un mezzo o un fine.
Se l’orientamento è considerato un mezzo (téchne educativa/orientativa), per l’educazione delle persone, significa che è un problema di razionalità tecnica e sotto questo aspetto, sarebbe solo una raffinata “tecnica manipolatoria”, attraverso la quale qualcuno si impone su un altro facendogli interiorizzare, come scelte libere ed autonome, gli oggettivi rapporti di forza culturali, personali e sociali delle strutture di potere esistenti.
Se l’orientamento è considerato un fine, per l’educazione delle persone, significa che non è solo un problema di razionalità teoretica o tecnica, ma di razionalità pratica, umana, quella morale, che coinvolge la volontà, la libertà e la responsabilità di ciascuno.
Fin qui è emerso chiaramente che l’orientamento non costituisce più un processo a sé stante o indipendente, che si affianca al processo formativo, bensì si identifica con esso e se ne distingue solo in quanto contribuisce alla chiarificazione della scelta, ponendo, responsabilmente, l’individuo di fronte all’ambiente che lo circonda.
Di qui l’importanza, di un’ipotesi di lettura epistemologica dell’orientamento, per riflettere sul nostro modo di conoscere e di formarci, negli ambienti di apprendimento formali dove quasi tutto l’impianto della conoscenza ruota attorno all’apparato disciplinare e le discipline costituiscono l’oggetto dell’attività formativa.
Le discipline con i saperi che ne conseguono, sotto l’aspetto epistemologico, non sono intese come contenitori o classificazioni di conoscenze (come potrebbero esserlo le materie), ma come strutture e metodologie di pensiero e linguaggi (norme specifiche) per leggere la realtà o come strumenti per agire sulla realtà per una costruttiva integrazione di chi apprende nell’ambiente in cui vive.
Visto il duplice ruolo che può assumere la disciplina, a questo punto, è lecito porsi la seguente domanda: sarebbe bene, insegnare le discipline o insegnare con le discipline?
La mediazione, istruita dalla razionalità pratica, umana, che coniuga insieme le discipline come oggetto dell’apprendere e le discipline come strumento d’azione apprenditiva e formativa, ci conduce al fine dell’azione educativa “buona”: la competenza orientativa.
Alla luce di tutto ciò i docenti non possono più considerare l’orientamento come un’azione di tipo progettuale, affidata esclusivamente a funzioni strumentali o a figure di sistema, ma devono progressivamente acquisire l’ottica orientativa, per una didattica orientativa, come imprescindibile condizione dell’attività didattica quotidiana.
Scuola e territorio necessitano quindi di docenti e dirigenti formati, capaci di governare la complessità del processo alla scelta per mezzo di offerte formative e non semplicemente informative.
E’ in questo nuovo scenario che al Dirigente Scolastico è richiesta una cultura organizzativa, da ricercare nel quadro normativo e nella ricerca scientifica, che gli consenta di cogliere il senso e la trasformazione nel superamento del vecchio modo direttivo di gestire la scuola.

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