Autonomia vò cercando ch’è si cara

Autonomia vò cercando ch’è si cara

di Giancarlo Onger

 

 

Mi accingo a scrivere queste note, volutamente, in un’atmosfera di attesa messianica dei decreti della Buona Scuola (d’ora in poi BS, come la targa di Brescia). Mi sento in un limbo, in attesa, appunto, di salire nella gloria celeste o di precipitare tra le fiamme. Il mio stato d’animo è la conseguenza di alcune settimane di vita virtuale, vissute pericolosamente, tra un FB (che sta per facebook e non per Fate (i) Buoni) e l’altro, senza contare i blog e i siti. Se volessi rappresentare gli intrecci di pensieri, di parole, di arrabbiature, di prese di posizione, di documenti, di liti familiari sfiorate (“Mamma, ma quando prepari la cena?”; “Caro, se non vieni subito a tavola io spreparo tutto e poi t’arrangi!”) consumati perché non riusciamo a staccarci dalla rete, ricorrerei certo alle affascinanti immagini delle sinapsi. E forse non a caso. Credo, infatti, che sia necessario riflettere su come, dopo il cibo, consumiamo troppo in fretta anche il pensiero.

Al contrario io penso che sia molto importante discutere, confrontarci, ma poi anche decidere con la consapevolezza che nulla è immodificabile. Quello che non condivido è il continuo rinvio alla ricerca della perfezione quando sappiamo benissimo che non potremo mai raggiungerla. Bisogna trovare, in ogni caso, un giusto equilibrio per non prendere decisioni con tempi biblici che rendono inutile la loro applicazione. Edgar Morin, tra i sette saperi necessari all’educazione del futuro, ha introdotto l’educazione all’incertezza. Howard Gardner, oltre ad aver elaborato le intelligenze multiple, nelle sue cinque chiavi per il futuro vi ha messo la capacità di sintesi tesa ad evitare di essere travolti dall’alluvione comunicazionale. Abbinare la capacità di governare l’incertezza (anche se può sembrare un ossimoro) a quella di fare sintesi può aiutarci ad offrire una scuola adeguata alle nuove generazioni. Su questo sfondo dobbiamo collocare i futuri decreti. Nel merito non mi soffermerò sulle graduatorie perché siamo arrivati ad un punto in cui (a proposito di capacità di sintesi) qualsiasi decisione verrà presa, scontenterà qualcuno. Quello che deve essere chiaro è che, da subito, il periodo di prova degli immessi in ruolo deve diventare, con regole precise e condivise, un filtro per far entrare nella scuola insegnanti capaci e motivati. Preferisco, tuttavia, focalizzarmi sul punto per il quale mi batto da tempo: l’implementazione della scuola dell’autonomia, intesa come scuola della comunità e non come scuola del Ministero. Lo strumento c’è già e si tratta del DPR 275/99, che attende da 16 anni di essere applicato. Le tre parole chiave che sottendono alla scuola dell’autonomia sono:

 

  1. l’assunzione di responsabilità da parte di tutte le componenti: il dirigente scolastico; gli insegnanti; il personale ausiliario, tecnico e amministrativo; i genitori e gli studenti;

 

  1. la flessibilità che consente di articolare il rapporto tra chi insegna e chi impara in forma non rigide;

 

  1. l’ integrazione dei vari progetti.

 

A questo schema dobbiamo aggiungere altri quattordici anni in cui abbiamo sviluppato il concetto di scuola inclusiva, che non è affatto una questione legata alle 3D (disagio, disabilità, disturbo), ma a una scuola di qualità che sa dare risposte adeguate ad ogni alunno in quanto persona e non perché appartenente a determinate categorie. Peraltro alcune categorizzazioni, sia degli alunni, sia degli insegnanti, sembrano prefigurare una scuola a parte, ma deve essere chiaro che sono una parte della scuola. E lo si può fare se la scuola si ritaglia il suo spazio peculiare, quello pedagogico didattico, libero dai condizionamenti delle mode transeunti che la vogliono ridurre ad un luogo medicali-zzato e avvocati-zzato. Con tutto il rispetto dovuto ai professionisti coinvolti, insegnanti compresi.

La scuola dell’autonomia non è una scuola dell’autoreferenzialità, ma una scuola che rende conto alla comunità, a cui appartiene in modo dialettico. È una scuola che ha i suoi cardini nella formazione e nella valutazione dei singoli operatori, ma con una visione sistemica o, meglio, olistica.

Dopo tante considerazioni ci si attende un ma. E un ma non si nega a nessuno.

Il ma che vado ad individuare è per me molto importante in quanto sarà la cifra della qualità della BS. È la messa in campo dell’organico funzionale per dare senso ai principi della scuola dell’autonomia e da intendersi funzionale alla progettazione educativo-didattica di una determinata scuola e non di una generica scuola. E qui voglio aprire una riflessione. La presenza degli alunni con disabilità non sempre ha bisogno di insegnanti di sostegno. Può avere bisogno di bravi insegnanti di matematica o di italiano perché gli alunni che frequentano hanno esigenze in quelle discipline. Perché dobbiamo avere un meccanismo rigido legato a tanti alunni, tanti docenti di sostegno? Attenzione che non ho detto di ridurre il personale, ma di permettere alle scuole di avere la possibilità, con l’organico funzionale, di adeguarlo alle proprie esigenze. Anzi. L’organico funzionale significa dare più risorse e più responsabilità alle scuole che dovranno progettare l’abito idoneo all’identità che si sono date.

Fedele all’idea che bisogna fare sintesi mi fermo qui, con la

consapevolezza che ci sono tante altre cose da fare, ma che ci sono delle priorità. Tra queste ho voluto mettere in primo piano proprio l’organico funzionale come chiave di svolta di una scuola per il futuro.