18 marzo Sentenza CEDU su Crocifisso nelle Aule

Il 18 marzo la Corte europea dei Diritti Umani di Strasburgo ha pronunciato la sentenza definitiva sul caso Lautsi c/Italia (ricorso n. 30814/06), riguardante l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.

Di seguito i comunicati del CdM e della Corte europea dei Diritti Umani:

Esposizione Crocifisso: la Corte europea assolve l’Italia

Il 18 marzo 2011 la Grande Camera della Corte europea dei Diritti Umani di Strasburgo ha pronunciato la sentenza definitiva (udienza del 30 giugno 2010) sul caso Lautsi c/Italia (ricorso n. 30814/06), in merito al quale lo Stato italiano aveva chiesto il riesame della sentenza di condanna del 3 novembre 2009.

Con 15 voti favorevoli e 2 dissensi, la Grande Camera ha deciso che non vi è stata violazione dell’articolo 2 del protocollo 1; che non si pone alcuna questione sull’articolo 9 e che relativamente al divieto di discriminazione di cui all’articolo 14 della Convenzione non vi è luogo a decidere perché si tratta di una norma che va letta in relazione ad altri tipi di violazione.

La prima sentenza della Corte europea e il ricorso del Governo italiano

Secondo la Corte, che il 3 novembre 2009 ha emesso la sentenza, la Convenzione riconosce il diritto di credere in una religione, ma anche di non credere in alcuna religione. Per la Corte, queste considerazioni comportano l’obbligo dello Stato di astenersi da imporre anche indirettamente, credenze, nei luoghi in cui le persone sono a suo carico o nei luoghi in cui queste persone sono particolarmente vulnerabili. Nel parere della Corte, il simbolo del crocifisso ha una pluralità di significati tra cui il senso religioso è predominante.Il crocifisso è uno dei simboli della nostra storia e della nostra identità. La cristianità rappresenta le radici della nostra cultura, quello che oggi siamo. L’esposizione del crocifisso nelle scuole non deve essere vista tanto per il significato religioso quanto in riferimento alla storia e alla tradizione dell’Italia. La presenza del crocifisso in classe rimanda dunque ad un messaggio morale che trascende i valori laici e non lede la libertà di aderire o non aderire ad alcuna religione.

Cultura, tradizione, storia, identità sono queste le parole chiave per spiegare e reinterpretare la sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo che chiama in causa il governo italiano per l’esposizione del crocifisso nelle scuole.

Contro la sentenza del 3 novembre 2009, il Governo – dopo la decisione presa nel Consiglio dei ministri del 6 novembre – in data 29 gennaio 2010 ha presentato fficialmente ricorso alla Grande Camera.

La Corte europea il 2 marzo ha accolto la domanda di rinvio alla Grande Camera presentata dal Governo e fissato l’udienza al 30 giugno.

Il caso e le motivazioni della sentenza. (Ricorso LAUTSI c/ITALIA n. 30814/06)

La signora Lautsi di origine finlandese ha sostenuto dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo che il simbolo del crocifisso è un affronto alle sue convinzioni e viola il diritto dei suoi figli che non professano la religione cattolica. L’interessato vede nell’esibizione del crocifisso il segno che lo Stato è dalla parte della religione cattolica. Questo significato è ufficialmente accettato nella Chiesa cattolica, che attribuisce al crocifisso un messaggio fondamentale. Pertanto, la preoccupazione del richiedente, secondo la Corte, non è arbitraria.

La presenza del crocifisso può essere facilmente interpretata dagli studenti di tutte le età come un simbolo religioso, e si sentono educati in un ambiente scolastico caratterizzato da una particolare religione. Ciò che può essere incoraggiante per alcuni studenti di una religione può essere emotivamente inquietante per gli studenti di altre religioni o di coloro che non professano alcuna religione. Questo rischio è particolarmente presente tra gli studenti appartenenti a minoranze religiose.

La Corte non vede come l’esposizione nelle aule delle scuole pubbliche di un simbolo – che è ragionevole associare con il cattolicesimo (la religione di maggioranza in Italia) – potrebbe servire al pluralismo educativo, essenziale per la conservazione di una “società democratica”, come concepito dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo.

La sentenza della Corte europea si basa sull’interpretazione dell’art.9 della Convenzione (libertà di religione) con l’art. 2 del Protocollo 1 (diritto all’istruzione).

Secondo la Corte è sul diritto fondamentale all’istruzione, che si innesta il diritto dei genitori nel veder rispettate le proprie credenze religiose e filosofiche.

L’articolo 2 del Protocollo n.1 per la Corte mira a salvaguardare la possibilità di pluralismo in materia di istruzione, essenziale per la conservazione della “società democratica”, com’è intesa dalla Convenzione. A causa del potere dello Stato moderno, è soprattutto l’educazione pubblica che ha bisogno di raggiungere questo obiettivo.

Nell’ordinamento italiano l’esposizione del crocifisso, seppur non espressamente menzionata, è regolamentata dal decreto legislativo 297/1994 (Testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado). In particolare, in base all’art. 676 intitolato “norme di abrogazione” il quale dispone che “le disposizioni inserite nel presente testo unico vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate”, gli articoli 159 e 190 includono il crocifisso tra gli arredi delle aule. Queste norme si incanalano nel cuneo della tradizione del nostro Paese e sono retaggio di altre più antiche: R.D. 26-4-1928 n. 1297 – Approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare e R.D. 30-4-1924 n. 965 – Ordinamento interno delle Giunte e dei Regi istituti di istruzione media.

Crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane: la Corte non constata violazioni (issued by the Registrar of the Court no. 234 18.03.2011)

Nella sentenza definitiva 1 di Grande Camera, pronunciata oggi nel caso Lautsi e altri c. Italia (ricorso no 30814/06), la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha concluso a maggioranza (quindici voti contro due) alla:
Non violazione dell’articolo 2 del Protocollo no 1 (diritto all’istruzione) alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Il caso riguardava la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche in Italia, incompatibile, secondo i ricorrenti, con l’obbligo dello Stato di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e insegnamento, il diritto dei genitori di garantire ai propri figli un’educazione e un insegnamento conformi alle loro convinzioni religiose e filosofiche.

I fatti principali

I ricorrenti sono cittadini italiani, nati rispettivamente nel 1957, 1988 e 1990. La ricorrente, Sig.ra Soile Lautsi e i suoi due figli, Dataico e Sami Albertin, (“il secondo e terzo ricorrente”)2 , sono residenti in Italia. Questi due ultimi ricorrenti erano iscritti nel 2001-2002 presso la scuola pubblica “Istituto comprensivo statale Vittorino da Feltre”, ad Abano Terme. Il crocifisso era affisso nelle aule dell’istituto.
Il 22 aprile 2002, durante una riunione del consiglio d’istituto, il marito della ricorrente sollevò la questione della presenza di simboli religiosi, e del crocifisso in particolare, nelle aule chiedendone la rimozione. In seguito alla decisione del consiglio d’istituto di mantenere i simboli religiosi nelle aule, il 23 luglio 2002 la ricorrente adì il Tribunale amministrativo regionale del Veneto (T.A.R.) denunciando in particolare la violazione del principio di laicità.
Il 30 ottobre 2003, il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che nell’ottobre 2002 aveva adottato una direttiva secondo cui i dirigenti scolastici dovevano garantire la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche – si costituì parte civile nella procedura avviata dalla ricorrente il cui ricorso era, a suo avviso, infondato poiché la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche era prevista da due regi decreti del 1924 e 19283.
Nel 2004, la Corte Costituzionale dichiarò l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale di cui era stata investita dal T.A.R. in quanto le disposizioni impugnate – cioè, gli articoli rilevanti dei due regi decreti -, di rango regolamentare e non legislativo, non potevano essere sottoposte ad alcun esame di conformità costituzionale.
Il 17 marzo 2005, il T.A.R. rigettò il ricorso della ricorrente, ritenendo che le disposizioni dei regi decreti in questione erano ancora in vigore e che la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche non confliggeva con il principio di laicità dello Stato, che faceva “parte del patrimonio giuridico europeo e delle democrazie occidentali”. Più che un simbolo del solo cattolicesimo, il crocifisso fu considerato come simbolo del cristianesimo in generale e come tale rinviava anche ad altre confessioni. Il T.A.R. considerò inoltre che si trattava di un simbolo storico-culturale, dotato di una “valenza identitaria” per il popolo italiano, oltre che un simbolo del sistema di valori che innervano la Carta costituzionale.
Con sentenza del 13 aprile 2006, il Consiglio di Stato, adito dalla ricorrente, confermò che la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche trovava la sua base legale nei regi decreti del 1924 e 1928 e che, tenuto conto del significato che bisognava attribuirgli, era compatibile con il principio di laicità. In quanto veicolo di valori civili che caratterizzano la civilizzazione italiana – tolleranza, tutela dei diritti della persona, autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, solidarietà, rigetto di ogni discriminazione – il crocifisso nelle aule poteva, in una prospettiva “laica”, avere una funzione altamente educativa.

Doglianze, procedura e composizione della Corte

Invocando gli articoli 2 del Protocollo no 1 (Diritto all’istruzione) e 9 della Convenzione (libertà di pensiero, di coscienza e di religione), i ricorrenti si lamentavano della presenza del crocifisso nelle aule della scuola pubblica frequentata dal secondo e terzo ricorrente.
Invocando l’articolo 14 (divieto di discriminazione), i ricorrenti ritenevano che, per il fatto di non essere cattolici, avevano subito un trattamento discriminatorio rispetto ai genitori cattolici e ai loro figli.
Il ricorso è stato introdotto davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 27 luglio 2006. Nella sentenza di Camera del 3 novembre 2009, la Corte ha concluso che c’è stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo no 1 (diritto all’istruzione) esaminato congiuntamente all’articolo 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione). Il 28 gennaio 2010, il Governo italiano ha chiesto il rinvio del caso davanti alla Grande Camera, secondo l’articolo 43 della Convenzione (rinvio dinnanzi alla Grande Camera) e il 1o marzo 2010, il collegio della Grande Camera ha accettato questa richiesta. Un’udienza di Grande Camera si è tenuta il 30 giugno 2010 a Strasburgo.
A norma dell’articolo 36 § 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dell’articolo 44 § 2 del Regolamento della Corte Europea dei Diritto dell’Uomo, sono stati autorizzati a intervenire nella procedura scritta4:
– trentatré membri del Parlamento europeo intervenuti congiuntamente.
– le organizzazioni seguenti non-governative: Greek Helsinki Monitor5; Associazione nazionale del libero Pensiero; European Centre for Law and Justice; Eurojuris; intervenuti congiuntamente: Commission internationale de juristes, Interights e Human Rights Watch; intervenuti congiuntamente: Zentralkomitee der deutschen Katholiken, Semaines sociales de France e Associazioni cristiane Lavoratori italiani.
– i Governi di Armenia, Bulgaria, Cipro, Federazione russa, Grecia, Lituania, Malta, Monaco, Romania e della Repubblica di San Marino.
I Governi di Armenia, Bulgaria, Cipro, Federazione russa, Grecia, Lituania, Malta e Repubblica di San Marino sono stati inoltre autorizzati a intervenire congiuntamente nella procedura orale.
La sentenza è stata resa dalla Grande Camera di 17 giudici, composta da:
Jean-Paul Costa (Francia), presidente,
Christos Rozakis (Grecia),
Nicolas Bratza (Regno Unito),
Peer Lorenzen (Danimarca),
Josep Casadevall (Andorra),
Giovanni Bonello (Malta),
Nina Vajić (Croazia),
Rait Maruste (Estonia),
Anatoly Kovler (Russia),
Sverre Erik Jebens (Norvegia),
Päivi Hirvelä (Finlandia),
Giorgio Malinverni (Svizzera),
George Nicolaou (Cipro),
Ann Power (Irlanda),
Zdravka Kalaydjieva (Bulgaria),
Mihai Poalelungi (Moldavia),
Guido Raimondi (Italia), giudici,
Oltre che da Erik Fribergh, cancelliere.

Decisione della Corte

Articolo 2 del Protocollo no 1
Dalla giurisprudenza della Corte6 emerge che l’obbligo degli Stati membri del Consiglio d’Europa di rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori non riguarda solo il contenuto dell’istruzione e le modalità in cui viene essa dispensata: tale obbligo compete loro nell’“esercizio” dell’insieme delle “funzioni” che gli Stati si assumono in materia di educazione e d’insegnamento. Ciò comprende l’allestimento degli ambienti scolastici qualora il diritto interno preveda che questa funzione incomba alle autorità pubbliche. Poiché la decisione riguardante la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche attiene alle funzioni assunte dallo Stato italiano, essa rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 del Protocollo no 1. Questa disposizione attribuisce allo Stato l’obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e d’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire ai propri figli un’educazione e un insegnamento conformi alle loro convinzioni religiose e filosofiche.
Secondo la Corte, se è vero che il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso, non sussistono tuttavia nella fattispecie elementi attestanti l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di questa natura sulle mura delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni. Inoltre, pur essendo comprensibile che la ricorrente possa vedere nell’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche frequentate dai suoi figli una mancanza di rispetto da parte dello Stato del suo diritto di garantire loro un’educazione e un insegnamento conformi alle sue convinzioni filosofiche, la sua percezione personale non è sufficiente a integrare une violazione dell’articolo 2 del Protocollo no 1.
Il Governo italiano sosteneva che la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche rispecchia ancora oggi un’importante tradizione da perpetuare. Aggiungeva poi che, oltre ad avere un significato religioso, il crocifisso simboleggia i principî e i valori che fondano la democrazia e la civilizzazione occidentale, e ciò ne giustificherebbe la presenza nelle aule scolastiche. Quanto al primo punto, la Corte sottolinea che, se da una parte la decisione di perpetuare o meno una tradizione dipende dal margine di discrezionalità degli Stati convenuti, l’evocare tale tradizione non li esonera tuttavia dall’obbligo di rispettare i diritti e le libertà consacrati dalla Convenzione e dai suoi Protocolli. In relazione al secondo punto, rilevando che il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione hanno delle posizioni divergenti sul significato del crocifisso e che la Corte Costituzionale non si è pronunciata sulla questione, la Corte considera che non è suo compito prendere posizione in un dibattito tra giurisdizioni interne.
Di fatto gli Stati contraenti godono di un certo margine di discrezionalità nel conciliare l’esercizio delle funzioni che competono loro in materia di educazione e d’insegnamento con il rispetto del diritto dei genitori di garantire tale educazione e insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche. La Corte deve quindi di regola rispettare le scelte degli Stati contraenti in questo campo, compreso lo spazio che questi intendono consacrare alla religione, sempre che tali scelte non conducano a una qualche forma d’indottrinamento. In quest’ottica, la scelta di apporre il crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche rientra in principio nell’ambito del margine di discrezionalità dello Stato, a maggior ragione in assenza di un consenso europeo7. Tuttavia questo margine di discrezionalità si accompagna a un controllo della Corte, la quale deve garantire che questa scelta non conduca a una qualche forma di indottrinamento.
A tal proposito la Corte constata che nel rendere obbligatoria la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, la normativa italiana attribuisce alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico. La Corte ritiene tuttavia che ciò non basta a integrare un’opera d’indottrinamento da parte dello Stato convenuto e a dimostrare una violazione degli obblighi previsti dall’articolo 2 del Protocollo no 18. Quanto a quest’ultimo punto, la Corte ricorda che ha già stabilito che, in merito al ruolo preponderante di una religione nella storia di un Paese, il fatto che, nel programma scolastico le sia accordato uno spazio maggiore rispetto alle altre religioni non costituisce di per sé un’opera d’indottrinamento. La Corte sottolinea altresì che un crocifisso apposto su un muro è un simbolo essenzialmente passivo, la cui influenza sugli alunni non può essere paragonata a un discorso didattico o alla partecipazione ad attività religiose.
La Corte ritiene inoltre che gli effetti della grande visibilità che la presenza del crocifisso attribuisce al cristianesimo nell’ambiente scolastico debbono essere ridimensionati alla luce di quanto segue: tale presenza non è associata a un insegnamento obbligatorio del cristianesimo; secondo il Governo lo spazio scolastico è aperto ad altre religioni (il fatto di portare simboli e di indossare tenute a connotazione religiosa non è proibito agli alunni, le pratiche relative alle religioni non maggioritarie sono prese in considerazione, è possibile organizzare l’insegnamento religioso facoltativo per tutte le religioni riconosciute, la fine del Ramadan è spesso festeggiata nelle scuole…); non sussistono elementi tali da indicare che le autorità siano intolleranti rispetto ad alunni appartenenti ad altre religioni, non credenti o detentori di convinzioni filosofiche che non si riferiscano a una religione. La Corte nota inoltre che i ricorrenti non si lamentano del fatto che la presenza del crocifisso in classe abbia implicato delle pratiche di insegnamento volte al proselitismo o che i figli della ricorrente siano stati confrontati a un insegnamento condizionato da tale presenza. Infine la Corte osserva che il diritto della ricorrente, in quanto genitrice, di spiegare e consigliare i suoi figli e di orientarli verso una direzione conforme alle proprie convinzioni filosofiche è rimasto intatto.
La Corte conclude dunque che, decidendo di mantenere il crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche frequentate dai figli della ricorrente, le autorità hanno agito entro i limiti dei poteri di cui dispone l’Italia nel quadro del suo obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e d’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire tale istruzione secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche; di conseguenza, non c’è stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo no 1 quanto alla ricorrente. La Corte considera inoltre che nessuna questione distinta sussiste per quanto riguarda l’articolo 9.
La Corte addiviene alla stessa conclusione per quanto concerne il secondo e terzo ricorrente.

Articolo 14

Nella sua sentenza di Camera la Corte ha ritenuto che, tenuto conto delle sue conclusioni in merito alla violazione dell’articolo 2 del Protocollo no 1, non c’era motivo di esaminare il caso dal punto di vista dell’articolo 14.
Dopo aver ricordato che l’articolo 14 non ha esistenza propria ma ha valenza esclusivamente in relazione al il godimento dei diritti e alle libertà garantiti dalle altre disposizioni della Convenzione e dei suoi Protocolli, la Grande Camera stabilisce che, anche ad ammettere che i ricorrenti vogliano lamentarsi di una discriminazione nel godimento dei diritti garantiti dagli articoli 9 della Convenzione e 2 del Protocollo no 1, non si pone nessuna questione separata da quelle già decise nell’ambito dell’articolo 2 del Protocollo no 1. Non vi è dunque motivo di esaminare questa parte del ricorso.

Opinioni separate

I Giudici Bonello, Power e Rozakis hanno espresso ognuno un’opinione concordante. Il Giudice Malinverni ha espresso un’opinione dissenziente, condivisa dalla Giudice Kalaydjieva.
Il testo di queste opinioni è allegato alla sentenza.
La sentenza esiste in inglese e francese.

Note:

1 Le sentenze della Grande Camera sono definitive (articolo 44 della Convenzione).
Tutte le sentenze definitive sono trasmesse al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che ne controlla l’esecuzione. Per maggiori informazioni sulla procedura d’esecuzione, consultare il sito Internet: http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/execution
2 Nel suo ricorso, la ricorrente indica agire a suo nome e per conto dei suoi figli allora minori, Dataico e Sami Albertin. Divenuti nel frattempo maggiorenni, questi ultimi hanno confermato la loro volontà di proseguire il ricorso.
3 Articolo 118 del regio decreto n° 965 del 30 aprile 1924 (Ordinamento interno delle giunte e dei regi istituti di istruzione media) e articolo 119 del regio decreto n° 1297 del 26 aprile 1928 (Regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare).
4 Osservazioni dei terzi intervenuti : v. §§ 47 a 56 della sentenza
5 Già terzo intervenuto davanti alla Camera
6 Sentenze Kjeldsen, Busk Madsen et Pedersen c. Danemark del 7 dicembre 1976 (§ 50), Valsamis c. Grecia del 18 dicembre 1996 (§ 27), Hasan et Eylem Zengin c. Turchia dell’8 ottobre 2007 (§ 49) e Folgerø e altri c. Norvegia, sentenza della Grande camera del 29 juin 2007 (§ 84).
7 v. i §§ 26 à 28 della sentenza.
8 Folgerø e altri c. Norvegia (sentenza della Grande camera del 29 juin 2007), Hasan et Eylem Zengin c. Turchia (sentenza dell’8 ottobre 2007) 4