Autismo

da Redattore sociale

Autismo, il “braccio di ferro” con le amministrazioni che stressa le famiglie
E’ una ”consapevolezza” ancora tutta da costruire quella sull’autismo e sulle condizioni e le esigenze che porta con sé. Due storie emblematiche: la battaglia di una mamma per ottenere il contrassegno disabili e la fatica dei “giardinieri autistici” per avere un pezzo di terra da coltivare

ROMA – L’autismo, si dice, è un problema, o un deficit, di relazione e comunicazione: e lo è in tutti i sensi, a 360 gradi, investendo tutto il sistema di rapporti che circonda la persona con autismo e chi le vive accanto. E proprio da questa difficoltà di comunicazione e di comprensione, derivano quei problemi “collaterali”, apparentemente “piccoli” problemi, che però rappresentano per le famiglie un grande fattore di stress. “Di essere sballottati da un ufficio all’altro siamo stanchi”, dichiara esasperato Enrico Fantaguzzi, papà di un ragazzo autistico e coordinatore di un gruppo di famiglie, rivolgendosi a al Comandante della Polizia locale con cui, da settimane, ha intavolato un vero e proprio braccio di ferro perché sia concesso il contrassegno disabili alla mamma di una ragazza con autismo, cui da tempo viene negato. Una frase emblematica, quella di Enrico, come emblematica è tutta la vicenda, delle difficoltà di comunicazione e di comprensione reciproca tra l’amministrazione, con la sua burocrazia e le sue regole, e l’autismo, con le sue peculiari necessità. “Io quest’anno ho seguito più di 200 casi di famiglie con autismo che si devono interfacciare con le istituzioni – riferisce ancora  Fantaguzzi, che coordina un gruppo di famiglie con autismo – e noto praticamente ovunque questa lontananza fra le esigenze della popolazione e le istituzioni”.

In vista della Giornata per la consapevolezza sull’autismo, Redattore sociale ha scelto di raccontare due storie, tra tante, che ben rappresentano questo problema: sono quelle di una mamma di Pietra Ligure e di un gruppo di famiglie di Roma. Due storie diverse, anche per l’esito che hanno: il primo ancora incerto, perché la soluzione, finora, non si è trovata. La seconda storia ha invece ha avuto un esito apparentemente positivo: è quella degli “autistici giardinieri” di Insettopia, che hanno iniziato la propria attività, stanno preparando i vasi e la terra e si apprestano a rendere rigoglioso un terreno incolto e abbandonato.
A Pieve Ligure, intanto, il braccio di ferro continua: da una parte la mamma di una ragazza autistica, con la sua richiesta di poter avere il contrassegno che le permetterebbe di parcheggiare nei posti riservati, risparmiandole così la fatica, spesso estenuante, di percorrere lunghi tratti a piedi con la figlia. Dall’altra, il comandante della Polizia locale, con le sue ragioni e il suo “regolamento”: in assenza di una certificazione dell’Inps, che attesti difficoltà nella deambulazione, il contrassegno non si può rilasciare. A mediare tra i due, cercando di rappresentare le ragioni della mamma e di spiegare quanto sia difficile per una persona autistica “deambulare”, pur in assenza di problemi motori, c’è Enrico Maria Fantaguzzi, coordinatore di un gruppo virtuale di quasi 7 mila famiglie. “E’ una situazione complicata – spiega Fantaguzzi – Una mamma sola con tre figlie, di cui una, L., con una forma grave di autismo, regolarmente certificata. Malgrado questo, L. è “l’unica bambina del nostro gruppo – riferisce Fantaguzzi – a non disporre del contrassegno”. Il motivo? Non risulta che abbia difficoltà di deambulazione.

“Il Comune rilascia il contrassegno, previa certificazione medica che ne attesti i requisiti – ci spiega il Comandante della Polizia locale di Pieve Ligure – e pertanto non ha alcun poter discrezionale in merito, ma deve semplicemente prendere atto di quanto ha accertato la Commissione medica. Se sul certificato è indicato che la persona ha ‘capacità di deambulazione impedita, o sensibilmente ridotta’, allora dobbiamo rilasciare il contrassegno, senza tale dicitura non possiamo rilasciarlo”.

Per aggirare l’ostacolo e venire incontra alla richiesta della mamma, il Comandante riferisce di averle suggerito procurarsi una dichiarazione dalla responsabile della struttura di riabilitazione frequentata dalla figlia, per poter almeno ottenere il permesso per la sosta temporanea gratuita nelle aree blu prossime all’istituto. O, in alternativa, di fare ricorso contro il pronunciamento della commissione medica. “Ma i miei consigli – riferisce – non sono stati seguiti”. La sua posizione, quindi, resta ferma: niente certificato, niente contrassegno. Anche se – riconosce il Comandante – “alcune regioni, come la Toscana e il Piemonte e forse anche la Liguria, hanno diramato delle linee guida alle commissioni mediche, perché considerassero il termine ‘non deambula’ in senso più estensivo rispetto al significato letterale. Ma questo riguarda l’aspetto medico, di competenza della Asl”. Per ora, quindi, niente da fare “Non appena verrà consegnata una certificazione medica che attesti il diritto al rilascio del contrassegno – assicura il Comandante – non verrà fatto alcun problema al rilascio, in giornata, dello stesso”.

Indignato, replica Fantaguzzi: “La diagnosi di autismo universalmente viene intesa come diagnosi altamente invalidante – ribatte – Sopratutto in presenza di Articolo 3 comma 3, quindi di massima gravità, come nel caso della ragazza. La capacità di deambulare, nel certificato Asl, è legata ad una valutazione meccanica e non psicologica. Ma se la patologia rende impossibile la deambulazione, questo deve essere tenuto in considerazione. Ora, io mi chiedo: era così difficile alleggerire questa famiglia, oltretutto in presenza di un certificato di una neuropsichiatra che confermava la nostra tesi? Forse, caro comandante, qualche volta lasciare il posto a una comprensione differente renderebbe le amministrazioni più vicine a quei cittadini che hanno in questo momento un carico notevole”. (cl)


Autismo, cosa è importante sapere per 9 persone che lo conoscono bene

Qual è la prima cosa da far sapere? E quale la prima da chiedere e pretendere? Alla vigilia del 2 aprile, lo abbiamo chiesto a genitori, figli, studiosi, medici e associazioni. Non è una vergogna, non è una malattia, è un modo di essere. Ma servono diagnosi e terapie certe e precoci

ROMA – Il 2 aprile è la Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’autismo: per brevità, diventa spesso Giornata mondiale dell’autismo, ma quel termine, ”consapevolezza”, ha un peso e un senso ben preciso. Perché dell’autismo, forse più delle altre disabilità, poco si sa, quel poco che si conosce è spesso detto male e la consapevolezza, insomma, è tutta da costruire: una consapevolezza vera, che spazzi via luoghi comuni e credenze e restituisca solo ciò che è vero e reale. Alla vigilia della ricorrenza, abbiamo pensato di fare a diversi interlocutori, protagonisti – a diverso titolo – della giornata di domani, la stessa domanda: “qual è la prima cosa da sapere (perché non si sa, o si sa male) dell’autismo?”. Dalla quale è sorta, spontanea, un’altra domanda: “qual è la prima cosa da chiedere, o da pretendere, in materia di autismo?”. Lo abbiamo chiesto a chi conosce l’autismo direttamente: due mamme, due papà, una ragazza autistica, studiosi e rappresentanti delle associazioni e del mondo medico-scientifico.

“Non è una vergogna”. Per Gianluca Nicoletti, giornalista e papà di Tommy, molto impegnato in queste ore nelle diverse iniziative previste per la Giornata mondiale, “la prima cosa da sapere è che avere un figlio autistico non è una vergogna: prima si accetta e più si fa per un suo futuro dignitoso. La prima cosa da pretendere, invece, è una diagnosi accompagnata da terapie adeguate e non fantasiose. E che l’inclusione scolastica sia reale, gli insegnanti di sostegno siano formati a trattare i nostri figli. Infine, dobbiamo pretendere una vita dignitosa per i nostri figli, quando noi saremo morti”.

“Non perdere tempo”. Per Patrizia Aleandri, mamma di Matteo, “la prima cosa da sapere è che l’autismo manifesta i suoi primi sintomi verso i due anni e che è fondamentale non aspettare e non perdere tempo prezioso, ma rivolgersi subito a un neuropsichiatra infantile, fin dai primi sospetti”. La prima “cosa da chiedere”, invece, è “una sensibilizzazione che deve partire dalla scuola”.
“Non sono anaffettivi”. Per Enrico Maria Fantaguzzi, papà di un ragazzo autistico e coordinatore di un gruppo virtuale di quasi 7 mila famiglie, “non è vero che i nostri figli autistici sono anaffettivi: esprimono invece sentimenti allo stato puro, talmente cristallini che noi non siamo in grado di vederli. L’autismo è un modo differente di vedere la realtà: solo unendo la visione dei nostri figli a quella delle persone senza autismo, avremo una definizione completa della realtà. La prima cosa da chiedere è un’accoglienza consapevole e un’informazione adeguata”.

“L’autismo non è una malattia”. Per Stefania Stellino, mamma di un ragazzo autistico e presidente di Angsa Lazio, “la prima cosa di cui prendere consapevolezza è che l’autismo non è una malattia, ma un diverso modo di esperire il mondo, di sentire e di comunicare. La prima richiesta riguarda invece l’educazione alla diversità fin dalla scuola materna e la preparazione adeguata delle persone che devono interfacciarsi con i nostri bambini e ragazzi. Domani, al Quirinale, chiederemo al presidente della Repubblica che ci aiuti ad abbattere la barriera dell’ignoranza, nel senso etimologico del termine; la barriera della discriminazione, la barriera dello stigma”.

“L’autismo è un modo di esserci”. La pensa allo stesso modo Rosi Pennino, mamma di una ragazza autistica e vicepresidente del comitato “L’autismo parla”, la prima cosa da sapere sull’autismo è che “non si tratta di ritardo mentale, ma di un meccanismo di funzionamento. L’autismo è un modo di essere, è un modo di esistere al mondo. La prima cosa da fare – aggiunge – è creare servizi di supporto domiciliare alle famiglie e ai ragazzi. Questa può essere la salvezza, un sostegno reale: incentivare la terapia domiciliare, come già si fa in America e in altre parti del mondo”.

Non disabili, ma “neuro diversi”. Per Vita Capodiferro, presidente della onlus “Progetto Gian Burrasca” di Spoleto, “la prima consapevolezza da diffondere è che è importante socializzare, costruire percorsi comuni per bambini e famiglie con autismo e non. E poi, dobbiamo stare attenti alle parole: non bisogna parlare di disabilità, rischiando generalizzazioni e fraintendimenti. Si parla di persone ‘neuro diverse’. Niente facili generalizzazioni, dunque, per portare tutti verso una  comprensione vera dell’autismo”.

No ai ciarlatani, serve una “linea blu”. Per Carlo Hanau, docente di Programmazione e organizzazione dei servizi sociali e sanitari all’Università di Modena e Reggio Emilia e membro del comitato scientifico dell’Angsa (Associazione nazionale genitori soggetti autistici), “bisogna innanzitutto sgomberare il campo da malintesi ancora imperanti: come quello per cui l’autismo sarebbe della colpa della mamma e del suo guscio difensivo. Si tratta di un problema organico, neurologico, che deriva da diverse malattie diverse, tutte rare. E bisogna guardarsi bene dai ciarlatani che parlano di intossicazioni inesistenti o diete miracolose”. La prima cosa da chiedere, invece, “è un centro di riferimento serio a cui affidarsi, con un indirizzo preciso da parte di una linea dedicata, come la Linea Blu che presto nascerà grazie alla nuova Fondazione”.

Un disturbo del neuro sviluppo, che deve essere trattato presto. Per Luigi Mazzone, medico ricercatore in neuropsichiatria infantile presso l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, la prima cosa da sapere è che l’autismo “è un disturbo del neuro sviluppo, in cui la diagnosi precoce e di conseguenza un trattamento precoce possono realmente cambiare il percorso evolutivo di un bambino autistico. Una cosa da chiedere? Due: la prima, mettere in convenzione i trattamenti cognitivo-comportamentali che, come indicato dalle linee guida Iss, sono la prima scelta terapeutica; e la seconda, pretendere una formazione sull’autismo da parte di psichiatri e operatori sanitari che si occupano dell’età adulta”.

“Noi autistici sappiamo far felici gli altri”. Infine per Clelia, una ragazza con una forma di autismo, la prima cosa da sapere sull’autismo è che “non bisogna prenderla male, è un dono di Dio, non è una malattia da curare. Con l’autismo si nasce e non si può evitare. La prima cosa da chiedere, invece, è di non isolarci dal resto del mondo, perché noi autistici non siamo numeri da circo, siamo speciali e sappiamo far felice gli altri durante la vita”. (cl)