Valutare o valorizzare i docenti?
di Giancarlo Cerini
Dall’anzianità al merito
La consultazione su “La Buona Scuola” (la cui proposta di apertura era di riconoscere scatti di merito al 66% dei docenti) ha messo in evidenza che gli insegnanti sono “affezionati” alla loro anzianità, se la vogliono “portare” in carriera. Però la maggioranza di essi (vicino al 70%) ritiene che debba entrare in gioco anche il merito. Dunque, sono necessarie soluzioni innovative e ragionevoli, possibilmente condivise. Politicamente, il Governo ha deciso di utilizzare le risorse a disposizione degli insegnanti tenendo conto sia dell’anzianità, sia del merito. Il disegno di legge (n. 2994 del 27-3-2015) in discussione alla Camera dei Deputati affronta il problema del riconoscimento della professionalità attraverso l’istituzione di un apposito “fondo per il merito” (art. 11) che sarà gestito dal dirigente scolastico, sentito il Consiglio di istituto. Gli incentivi sono annuali e pertanto non vanno a configurare una vera e propria carriera, ma sono legati ad un apprezzamento sui risultati raggiunti (è evidente il richiamo alla performance dei pubblici dipendenti di cui al D.lgs. 150/2009). La dotazione iniziale del fondo è fissata in 200 milioni (però a decorrere dal 2016) e questo fa prevedere un finanziamento di circa 20-25.000 euro per ogni istituzione scolastica. I criteri indicati per l’assegnazione dei benefici si riferiscono a:
- “qualità dell’insegnamento;
- rendimento scolastico degli alunni e degli studenti;
- progettualità nella metodologia utilizzata;
- innovatività;
- contributo al miglioramento complessivo della scuola”.
La proposta ha suscitato accese reazioni, soprattutto in relazione alla titolarità (quasi esclusiva) del dirigente nella valutazione della qualità del lavoro dei docenti. Dunque, il dibattito è aperto, ed è auspicabile che il Parlamento possa trovare soluzioni maggiormente in sintonia con il mondo della scuola. Non è però facile districarsi in questo vero e proprio ginepraio, ove spesso prevalgono posizioni pregiudiziali, risentimenti antichi e recenti, percezione di marginalità della condizione docente. Vediamo, dunque, di ricostruire con pacatezza lo “stato dell’arte”.
La questione del “merito”
Riconoscere i meriti delle persone è “politicamente” corretto. Né di destra, né di sinistra (direbbe Giorgio Gaber). Anzi, il merito è il fondamento della democrazia, perché dovrebbe aiutarci a superare i vincoli sociali, di territorio, di cultura, di casta, che si sovrappongono al pieno sviluppo di talenti e potenzialità di ciascuno.
Il merito, in generale, è il valore “aggiunto” che le persone mettono ai loro talenti e alle loro attitudini… la scuola che promuove il merito dovrebbe “scoprire” i talenti, coltivarli, permettere a tutti di dare il meglio di sé (capability). Non è in gioco un’astratta gara meritocratica…
La parola “merito” può creare disturbo, ma in questo contesto è in gioco il problema della professionalità docente, degli standard professionali che gli stessi docenti (nelle loro forme di rappresentanza culturale e professionale) dovrebbero darsi.
Teniamo, inoltre, distinte la valutazione dei risultati degli allievi dalla valutazione del lavoro del docente (e degli altri operatori). Alle tecnicalità (come si fa, chi decide, quali conseguenze?) ci si dovrebbe arrivare solo dopo un confronto aperto sui principi.
Facciamo una prima ipotesi. Un buon insegnante:
- a) si prende cura della propria formazione,
- b) si prende cura della propria classe,
- c) si prende cura della propria scuola.
Su questi tre punti, chiamiamoli standard professionali, non dovrebbe mancare la condivisione. Queste tre dimensioni erano abbozzate anche nel documento iniziale su “La Buona Scuola” del 3 settembre 2014, in forma di crediti formativi, professionali, didattici. Di questi aspetti si parla anche nel profilo professionale contenuto nel Contratto di Lavoro del personale docente (2006-2009) e “prove tecniche” di elaborazione dei crediti erano state condivise in varie sedi professionali e sindacali.
Dall’autovalutazione alla peer review
Siamo certamente convinti che l’esperienza maturata da un docente abbia un peso, un valore, ma da sola non basta. Deve accadere qualcosa per dare “valore” a quel trascorrere del tempo. La sola anzianità di servizio non è sufficiente (altrimenti al di fuori della scuola NON ci capiscono…). Ma della valutazione esterna non ci si fida. Si teme che sia una intrusione nella propria privacy professionale (che spesso indossa le vesti paludate della “libertà di insegnamento”), bypassando in un colpo solo tanti discorsi sulla condivisione delle scelte, il lavoro collaborativo, la responsabilità, la comunità professionale.
Proponiamo, dunque, di partire dalla “peer review...”. Significa che la valutazione scaturisce dalla “propria” comunità di pari, dal confronto con i colleghi. La valutazione dovrebbe essere associata NON ad un controllo, ma al miglioramento… questo è un principio irrinunciabile, da cui discendono poi molte conseguenze… Questo principio deve valere per l’intero Sistema di Valutazione (degli allievi, delle scuole, delle professionalità) e, fortunatamente, se ne provano tracce nel Dpr 80/2013 e, soprattutto nella Direttiva 11/2014 di avvio del sistema di valutazione).
La “peer review” è tipica di una comunità professionale che si prende le sue responsabilità, che fa crescere le persone che in essa operano, che trasforma l’autovalutazione in una occasione di confronto e di sviluppo professionale… l’alternativa non può che diventare la solitudine di ogni insegnante.
La “peer review” comporta anche la reciproca osservazione in classe, tra docenti, per capire e crescere sul piano didattico. In Emilia-Romagna è stata praticata per i docenti neo-assunti ed è stata considerata un buon strumento di formazione. Ora se ne propone la generalizzazione sul piano nazionale per l’anno di formazione dei docenti neo-assunti del 2014-15 (cfr. CM 6768 del 27-2-2015).[1]
Valorizzare la qualità del lavoro
Una proposta praticabile per la valorizzazione della professione docente non può concentrarsi solo sulla erogazione di alcuni incentivi temporanei, ma dovrebbe affrontare la questione in termini sistemici. Occorre intervenire in più direzioni:
- promuovere una formazione iniziale più rigorosa (con l’ultimo miglio della formazione universitaria affidato alla scuola), un periodo di prova dopo l’immissione in ruolo veramente formativo (attraverso peer review, supervisione didattica, bilancio di competenza, tutoring ecc.). Chi non è adeguato all’insegnamento viene orientato verso altre professioni (il periodo di prova dovrebbe durare almeno due anni);
- riconoscere in maniera più consistente l’impegno dei colleghi che sostengono l’organizzazione professionale e didattica della scuola: occorre valorizzare competenze, scegliere bene, remunerare l’impegno (parliamo del middle management, meglio di una vera e propria middle leadership);
- mantenere nel profilo contrattuale l’ANZIANITA’, ma questa non può essere inerte, occorre accompagnarla con alcuni impegni documentabili in materia di:
- formazione in servizio/ricerca (non parliamo però di corsettini di aggiornamento..),
- impegni per lo sviluppo/miglioramento della propria scuola (curvati in ottica collaborativa);
- innovazione sul piano didattico (autovalutazione, osservazione, documentazione, confronto…).
Si tratta di tre tipologie di standard professionali equilibrati nel loro insieme (cui possono corrispondere diverse tipologie di crediti e di evidenze). Ogni docente documenta i crediti formativi, professionali e didattici, mentre spetta ad un nucleo interno di colleghi autorevoli (chiamiamolo nucleo di valutazione), coordinato dal dirigente e affiancato da un “tecnico” esterno (in caso di valutazione di seconda istanza), validare l’autovalutazione.
“Chiamata” diretta, comunità professionale e supervisione
Come si costruisce il rapporto tra un insegnante e la scuola di servizio? Attualmente l’assegnazione avviene quasi “random” sulla base di punteggi e procedure amministrative. Fa discutere la proposta del disegno di legge del Governo, che affida al Dirigente Scolastica la scelta dei docenti da un albo territoriale (una sorta di organico senza sede). Un simile principio è stato adottato nel corso degli anni per le scuole sperimentali e lo ritroviamo vigente ancora oggi. Ma nelle scuole che adottano un criterio di chiamata ad hoc per i docenti che aspirano ad entrare (parliamo delle scuole sperimentali Don Milani-GE, Pestalozzi-FI, Rinascita-MI) è un gruppo di colleghi che procede alla valutazione del curriculum ed al colloquio dei richiedenti. Dunque, c’è una richiesta del docente e c’è una valutazione di congruità (ed una scelta) da parte della comunità professionale che accoglie.[2]
In queste realtà, fin dal suo ingresso nella scuola, il neo-docente viene affiancato da figure di tutor (tutoraggio diffuso) che lo “osservano” in situazioni tipiche del lavoro: in aula, nei laboratori, nella progettazione, nei consigli di classe. Le scuole sperimentali utilizzano appositi protocolli di supervisione dei comportamenti professionali, schede di sintesi con apposite rubriche descrittive (ove si apprezza in particolare la capacità di lavorare con i colleghi)[3].
L’intenzione non è quello di enfatizzare il momento valutativo, ma di accompagnare un insegnante in un processo di riconoscimento della propria professionalità (dei punti di forza e di criticità), di favorire l’autovalutazione convalidata da un occhio terzo, a scopo formativo e di miglioramento. Il percorso di tutorato prevede anche l’impegno a progettare una o più unità didattiche e a realizzare colloqui di supervisione con i propri tutor durante l’anno scolastico. Un patto per lo sviluppo professionale suggella questo impegno del docente ad arricchire la sua preparazione, in sintonia con la progettualità della scuola in cui opera[4].
Le figure intermedie, la comunità professionale, la solitudine del dirigente
Per i docenti che dedicano un impegno supplementare al funzionamento della scuola va previsto un riconoscimento più strutturato delle funzioni svolte (ma non come scelta discrezionale dovuta al collegio docenti o al dirigente), invece sulla base di titoli, un curriculum di crediti, il portfolio ed eventualmente un concorso pubblico. Il riconoscimento economico va di pari passi con il maggior impegno a favore dei colleghi. Ma questo è un aspetto parziale della questione… riconosce uno stato di fatto già ampiamente presente nelle scuole (funzioni strumentali, staff, middle management) ma ancora assai fragile. Tuttavia, la presenza di figure di sistema non esaurisce il tema della professionalità docente. Una scuola con autonomia (ci insegnava Piero Romei) ha bisogno di un modello organizzativo intelligente, che sa intrecciare dimensioni individuali e lavoro di squadra, con capacità di presidio dei gangli vitali del funzionamento e dell’organizzazione, affinché la scuola sia una comunità CULTURALE. E’ decisivo l’impegno del dirigente scolastico come “costruttore” di comunità, ma contano anche le figure intermedie, la “nervatura intelligente dell’autonomia”. Non per creare nuove gerarchie, ma affinché tutti si sentano partecipi, perché riconosciuti e motivati.
Valutare l’impegno didattico
Il problema vero è: come fare per creare dinamismo professionale in TUTTI i docenti e non solo in una quota ridotta di figure intermedie o di “premiati” con gli incentivi. Come stimolare tutti i docenti a raggiungere migliori standard? Non è proponibile una competizione tra docenti, ma una competizione con se stessi per migliorare, sì… però alla portata di TUTTI, senza quote prefissate in anticipo (fermo restando che occorre definire il budget complessivo di questa operazione). Né si può immaginare che tutto questo sia solo sulle spalle del dirigente scolastico.
In una prima fase sperimentale ci si potrebbe limitare ad un incisivo protocollo metodologico. Cioè ottiene un riconoscimento (in forma di crediti didattici) il docente che è disponibile a:
- documentare una o più sequenze didattiche del proprio insegnamento (attraverso modalità cartacee, multimediali, prodotti autentici, ecc.);
- discutere con un esperto delle caratteristiche della propria azione didattica;
- accogliere in classe un collega per osservazioni formative (peer review) sulle strategie didattiche adottate;
- condividere prove comuni di verifica e valutazione;
- ricostruire attraverso un portfolio la propria traiettoria professionale (verso un bilancio di competenze).[5]
Gli standard professionali
Un progetto per la valorizzazione della professionalità deve ripartire da una esplicitazione delle attese che la società riveste sulla funzione degli insegnanti. Il vertice politico deve raccogliere questa esigenza e dare voce ad un nuovo patto società-insegnanti, entrando anche nel dettaglio dei comportamenti attesi dagli insegnanti nel loro luogo di lavoro. Non basta una declaratoria di caratteristiche, un mansionario statico (come da contratto). E’ lo stesso gruppo professionale dei docenti (anche attraverso le loro associazioni) che dovrebbe elaborare propri standard professionali ed essere esigente nel richiederli ai membri della comunità professionale (e a coloro che si apprestano ad entrarvi). L’amministrazione dovrebbe porre tali standard alla base dei processi di formazione iniziale, dei criteri di accesso al ruolo, della formazione permanente in servizio. Gli standard dovrebbero essere il sicuro riferimento dei criteri di valutazione (e di autovalutazione) ed articolarsi in descrittori molto precisi e non vaghi. Il loro valore non è normativo, ma formativo: costituiscono una sollecitazione per processi di autovalutazione, di verifica tra pari, di bilancio di competenze, di proiezione per uno sviluppo ed una crescita professionale permanente.
Presentiamo, a titolo di esempio, la “griglia” degli standard che sarà alla base della costruzione sperimentale del portfolio professionale[6] come frutto del percorso di formazione proposto ai neo-assunti nello scorcio di questo anno scolastico (MIUR-INDIRE). Un progetto ambizioso[7], che giunge in ritardo, ma che potrebbe diventare la base per un più incisivo accompagnamento in servizio dei docenti di prossima “stabilizzazione”.
Prendersi cura degli allievi e della didattica
Organizzare e animare le situazioni di apprendimento |
Gestire la progressione dell’apprendimento |
Osservare e valutare gli studenti nelle situazioni di apprendimento, secondo un approccio formativo. |
Coinvolgere gli studenti nel loro apprendimento e nel loro lavoro |
Prendersi cura della gestione della scuola
Lavorare in gruppo con i colleghi |
Partecipare alla gestione della scuola |
Informare coinvolgere i genitori |
Prendersi cura della propria professionalità
Servirsi delle nuove tecnologie |
Affrontare i doveri e i problemi etici della professione |
Curare la propria formazione continua |
Nell’ambito del disegno di legge, va guardata con favore la messa a disposizione dei docenti di un voucher per finanziare la propria formazione (incentivando la domanda di formazione), ma vanno costruite anche opportunità di organizzazione di buona formazione (sul lato dell’offerta) per non lasciare tutto al libero mercato di interessi non sempre “disinteressati”. Una buona formazione in servizio va accreditata e certificata. Può essere un ulteriore passo per riconoscere la dimensione culturale e professionale della docenza nel nostro paese.
Stimolare lo sviluppo professionale
In generale non è auspicabile un sistema di verifiche ispettive “random” per valutare un insegnante dall’esterno (però quando ci sono criticità conclamate occorre intervenire con più decisione, soprattutto all’inizio del percorso professionale). Il problema è stimolare lo sviluppo professionale di tutti i docenti, abbinando lo scorrere dell’esperienza, con la capacità di organizzarla documentarla confrontarla rendicontarla. Si parte con l’autovalutazione che viene validata attraverso un vaglio di tipo critico (nucleo interno) a scopo formativo. Non si vuole costruire una competizione artificiosa tra i docenti, ma creare occasioni di sviluppo per tutti, per rendere la professione più accreditata sul piano sociale, perché sa far vedere (accountable) i proprio standard professionali.
La “buona” carriera… la buona formazione
La società (non solo la politica) deve decidere cosa vuole fare della sua scuola e dei suoi insegnanti. Noi operatori scolastici dobbiamo aiutarla a prendere una buona decisione. Dal dibattito in corso emergono toni aspri, conflittualità, dati emotivi, difficoltà di dialogo. E’ necessario riprendere il filo del discorso con serenità e con il tempo necessario per costruire le decisioni più opportune, senza però rimandarle alle calende greche.
Ormai i dati della questione sono ben presenti: c’è un problema di conoscenza del lavoro docente (ma allora occorrono: documentazione, trasparenza, rendicontazione), di affidabilità (ma allora occorrono: formazione, verifiche, autocontrollo, ecc.) di responsabilità (ma allora, quale è il ruolo del dirigente e della comunità scolastica). La buona carriera (certo che bisogna elevare gli stipendi!) va accompagna dalla buona professionalità (tolleranza zero per la mediocrità), sistema di incentivi per stimolare TUTTI i docenti a prendersi cura della propria formazione, a occuparsi della propria scuola, a interrogarsi sulla propria didattica.
[1] Riportiamo, a titolo di esempio, gli orientamenti predisposti dall’USR Emilia-Romagna per accompagnare il percorso di reciproca osservazione tra docenti, che in quella regione è al secondo anno di sperimentazione (la nota è accompagna dal resoconto dell’esperienza di tutoring realizzata in Emilia-Romagna nel corso dell’a.s. 2013-14, con un monitoraggio curato da Lorella Zauli). Materiali, esempi, ricerche sono riportati in: USR ER, Essere docenti 2015, Tecnodid, Napoli, 2015
[2] si veda al proposito G.C. Cerini, “La Buona Formazione”: passo dopo passo…, “Rivista dell’istruzione”, 6, 2014).
[3] S.Bertone, M.Pedrelli, Il ruolo della comunità in un modello di valutazione professionale dei docenti, in “Rivista dell’istruzione”, n. 6, novembre-dicembre 2014, pp. 36-45, Maggioli.
[4] Un esempio di “patto per lo sviluppo professionale” adottato dalla Scuola Don Milani di Genova è ripreso in G.Cerini, Crediti e portfolio, Voci della scuola “La Buona Scuola 1”, Notizie della Scuola ¾, ottobre 2014, Tecnodid.
[5] Il portfolio, come documentazione dinamica della propria crescita professionale, è stato già adottato in alcune realtà sperimentali. Su questo tema, si può consultare per esempio un volume prodotto dall’USR Emilia-Romagna (a cura di G. Cerini), La strategia del portfolio docente,Tecnodid, Napoli, 2011, con interventi, tra gli altri, dei responsabili nazionali dell’associazionismo professionale: ADI, AIMC, APS, CIDI, FNISM, DIESSE, UCIIM.
[6] La collaborazione è assicurata dall’Università di Macerata. Cfr. P.G. Rossi, Che cos’è l’e-portfolio, Carocci, Roma, 2006 e P.G. Rossi,Progettare e realizzare il portfolio, Carocci, Roma, 2006)
[7] G.Cerini, Anno di formazione: che sia un anno utile. Cfr. http://www.giuntiscuola.it/scuoladellinfanzia/magazine/articoli/anno-di-formazione-che-sia-un-anno-utile/
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