Dalla cartella al trolley, ma lo studente resta ambulante

Dalla cartella al trolley, ma lo studente resta ambulante

di Giovanni Fioravanti

 

Appartengo alla generazione di quelli che andavano a scuola con la cartella. Nella cartella ci stavano i materiali di lavoro, libri, quaderni, astuccio e l’immancabile merenda, che costituiva un po’ quello che gli psicologi chiamerebbero l’oggetto transizionale, ciò che rende meno traumatico il distacco da casa, una sorta di cordone ombelicale non reciso, la tua coperta di Linus.

La cartella ti assegnava uno status sociale, un’identità, quella dell’alunno, quella dello scolaro. La dignità del lavoro, come quella dell’impiegato che si reca in ufficio con la sua borsa. Non c’era l’idea né della fatica né del peso della cultura dato dai numerosi tomi da portarsi appresso.

Poi arrivò la mitica cinghia “Longo”, quella elastica, davvero una rivoluzione. Portare i libri legati significava essere diventati finalmente grandi e che non avevamo più bisogno della cartella, così si capiva che non eravamo più alle elementari.

Ma quando poi abbiamo iniziato a passare noi dall’altra parte, dai banchi alla cattedra ecco comparire indistintamente sulla schiena di piccoli e adolescenti un oggetto che avevamo sempre e solo usato per le escursioni in montagna: lo zaino, come gli alpinisti e gli sherpa.

Uscire di casa al mattino presto con la schiena caricata di tutto l’armamentario per scalare le vette del sapere anno dopo anno: libri, quaderni, penne, matite, gomme, forbici, squadre e righe, compassi, colori ecc e poi il sacchetto della ginnastica e poi semmai anche la valigetta del disegno. Pare che la nostra scuola e i suoi insegnanti su questo punto siano stati sempre inesorabili e inflessibili, insensibili ai rischi di contratture muscolari e di scoliosi per zaini troppo pesanti da reggere su schiene troppo giovani. In merito è intervenuto pure il Consiglio Superiore della Sanità a dettare norme sul peso degli zaini, indicando che non dovesse superare il 10-15% del peso corporeo del suo portatore. A fronte di zaini del peso quotidiano di 14 chili, qualche sindaco fu pure costretto con delibera comunale a ordinare il rispetto nel proprio territorio del range stabilito dal Consiglio Superiore della Sanità. Ciò nonostante nelle ore di ingresso e di uscita dalle scuole le strade dei nostri paesi e delle nostre città sono percorse da bimbetti e ragazzi che esibiscono sulle loro spalle ponderosi zaini di ogni marca per la gioia soprattutto dell’industria del settore.

La cosa che resta strana è che qualunque lavoratore non si porta da casa gli arnesi del lavoro, ma se li trova sul posto, non solo, spesso e volentieri ognuno ha il suo armadietto personale.

Per la scuola e i suoi studenti non è così. Ma vi pare possibile? È possibile che un problema così banale da anni non trovi soluzione? E abbiamo ancora il coraggio di parlare di “buona scuola”? Ma fatemi il piacere. Non si tratterebbe di una riforma e neppure di una rivoluzione, ma di un intervento di quelli cosiddetti “leggeri”.

Ma non è finita perché il peso dello studio e dei compiti a casa oggi ha finalmente raggiunto il suo apice nel trolley. Se voi guardate bene, bambine e bambini di oggi, ragazze e ragazzi dalle elementari alle medie, non hanno più lo zaino, ma si tirano dietro il trolley, come nelle sale delle stazioni e degli aeroporti. In epoca di classi digitali 2.0, di lavagne interattive, di iphone, ipad si va a scuola con la valigia, perché gli zaini sono divenuti inadeguati, insufficientemente capaci a contenere la moltiplicazione dei materiali scolastici di ciascuno, con portate che evidentemente superano gli standard consentiti dal Consiglio Superiore della Sanità.

Così dalla cartella dei miei tempi, status symbol dello scolaro, si è passati alla valigia, status symbol del viaggiatore, del migrante, dei non luoghi, della precarietà. La scuola della precarietà, per insegnanti e studenti, un’istituzione secolare, eppure così precaria! Dalla scuola si va e si viene, come da un viaggio, senza mai lasciare o dimenticare nulla dei propri effetti personali.

Ora poi che molte scuole medie hanno abdicato ad avere un proprio progetto educativo e hanno ceduto alla richiesta dei genitori per la settimana corta, orario e materie si sono concentrati su cinque giorni, dalle otto alle quattordici come i turni in fabbrica, con gli stessi compiti, se non più di prima, e con il peso dei libri, pure questo, caricato su cinque giorni anziché su sei, di qui forse la necessità della valigia, del trolley e neppure è venuta meno, nonostante i proclami di buona scuola e gli inviti alla Lizanne Foster, la prassi sanzionatoria della nota sul diario, se per caso dimentichi un qualche quaderno o libro a casa. Come chiamare tutto ciò se non ‘malascuola’?

Sarebbe questa la scuola amica, accogliente, ospitale? La scuola aperta al territorio? La scuola dei tempi distesi? La scuola dei libri digitali? A proposito che fine ha fatto l’adozione dei libri in formato digitale? Non è per caso che nel frattempo si è ceduto agli interessi dell’editoria, tipo Mondizzoli?

La realizzazione di una scuola diversa da quella tradizionale ha inizio dagli ambienti dove si apprende, dal loro uso e dalle relazioni al loro interno, capaci di comunicare non la tradizione ma i messaggi di una cultura nuova e amica. Non più le aule, non più le classi come tante catalogazioni d’esseri umani (Signori il catalogo è questo!), non più l’insegnamento trasmissivo e standardizzato, impartito dalle cattedre ai banchi, in scuole spoglie, male ammobiliate, con atri disadorni, spazi vuoti inutilizzati, luoghi per sostare, estranei alla famigliarità.

Non c’è discorso sulla scuola, non c’è protesta contro le riforme se non si parte da qui: la scuola deve essere innanzitutto ospitale. Un luogo aperto dove vivere oltre l’orario scolastico, incontrarsi, fare i compiti, riunirsi, ideare, creare, organizzare, lasciare le proprie cose, quelle che servono tutti i giorni, avere uno spazio, anche piccolo, ma proprio e personale. Se no, la scuola sarà sempre più simile a una caserma, a un carcere, a una istituzione totalizzante, con tempi e spazi contingentati, anziché un luogo amico, un luogo di benessere, un luogo di vita. L’abc di ogni scuola ha inizio qui. Questa è la prima vera riforma ‘gentile’ (rigorosamente con la “g” minuscola) che dovrebbe vedere mobilitati, studenti, insegnanti, genitori, amministratori locali, un modo altro d’essere per il quale i tempi sono più che maturi e che con un po’ di buona volontà da parte di tutti potrebbe iniziare già domani.