NATALE IN CASA NOSTRA
di Luigi Manfrecola
L’odore forte della “colla di pesce” riempiva la stanza, mentre papà rimestava con una stecca di legno scheggiata quella strana poltiglia trasparente. Ma a me, bambinello quieto, accovacciato sulla sediolina impagliata, quella puzza piaceva. C’era un che di magico e di rituale in quell’effluvio che richiamava alla mente incantata quasi l’odore d’incenso che si respirava in chiesa in quelle festività solenni. Perché proprio di festa si trattava , anche allora. Una “festa” sommessa e silenziosa che sentivi aleggiare furtivamente nell’aria, quasi volesse raccogliersi nell’intimità inviolata di quella famigliola serena, rannicchiata nella piccola casa arrampicata sulla collina di Posillipo.
Il Natale si annunziava così , mentre papà mio con le sue forti mani robuste spennellava il sughero odoroso per potervi incollare i pastorelli, sempre in equilibrio precario sulle esili gambe malferme. Lo spuntone metallico presente nei piedi di creta non riusciva mai a reggerli a lungo sulle croste irregolari di sughero, al punto che bisognava incollarli uno ad uno. Di anno in anno li ritrovavi quindi con qualche arto amputato, soprattutto le statuine di quella piccola banda di Mori con i loro piccoli strumenti , assai verosimilmente pitturati d’un giallo improbabile. Ed io mi chiedevo cosa ci facessero quei pastorelli di colore nerastro accanto alla prosperosa lavandaia che stropicciava i panni sulla tavoletta di creta poggiata sulla tinozza . Che poi, “i panni” si riducevano a due soli lembi minuscoli ricavati da un fazzoletto bianco che aveva da tempo esalato il suo ultimo soffio. Presso le tre grotte più ampie situate a valle , che ovviamente ospitavano – in quella centrale – Maria, Giuseppe e il Bambinello , affiancati dall’immancabile cantina e da un’osteria ben accorsata , si apriva lo striminzito pianoro destinato ad ospitare le due o tre bancarelle variopinte del castagnaro, dell’acquafrescaio, del mellonaro pronto a dare “la voce” per decantare i suoi melloni più rossi del fuoco…
I pastorelli più fortunati si raccoglievano tutti là perché rischiavano assai poco su quella base più stabile , affollata di gallinelle beccanti che si contendevano lo spazio con pecorelle dalle più svariate ed assurde dimensioni. Per recuperare un minimo di credibilità a quell’insieme improbabile io mi arrampicavo, allora, sulla sedia accostata al buffet sul quale troneggiava il presepio in costruzione e tentavo di sistemare con cura i pastorelli più piccoli e poi ne discendevo lentamente, soddisfatto per aver rispettato, con ingenuo orgoglio infantile, le leggi della prospettiva . Non prima, però, d’aver sistemato definitivamente “Benino” , il pastorello che avrebbe dormito fino alla notte di Natale, quando gli avrebbero annunziato la nascita di Gesù bambino. Lo strano era che , poi, quel Benino (che mammà s’ostinava a chiamare Benito) non si svegliava affatto e restava a dormire fino all’Epifania…Quando mammà faceva arrivare i Re Magi, un’incombenza che toccava a Lei sola perché io, a qual punto, avevo perso ogni interesse per il Presepio, a festa ormai passata; anche perché ero intento a ben altro, impegnato in feroci combattimenti col mio fuciletto di latta, corredato di letali e potenti turaccioli…Ma poi, a volerla dire tutta, vero è che da quando avevano comperato quel negro sul cammello, i Magi m’erano diventati tutti e tre antipatici…
La cavalcatura che più mi appassionava era quello di Ciccibacco sulla botte, ritto sul carro trainato da una coppia di buoi: che poi era il personaggio più costoso dei tanti che affollavano il mio “ricco” presepe: ben ricco di salumi, di quarti di bue appesi a spille da balia, di lunghe teorie di salsicce e di meloni pendenti dalle finestrelle aperte sul cortile che ospitava l’immancabile osteria con quell’ tavolo di vecchietti, ma tuttavia serviti dal cuoco in persona, con tanto di coppolone e di ventaglio in mano per poter arieggiare un’ improbabile fornacella i cui bagliori venivano restituiti all’esterno da una lucina rossastra.
Forse stavano ordinando del pesce fresco, com’è costume di noi napoletani, vista la contiguità col ruscelletto lì a pochi passi e l’instancabile solerzia del pescatorello, sempre intento all’opera anche quando il filo di cotone che gli pendeva dalla canna s’era magari perso nella carta stagnola che scendeva gorgogliando lungo il pendio. Cosa che non sarebbe mai potuto capitare agli angioletti sospesi dinanzi alla grotta a suonare la cetra e le lunghe trombe trionfali. Allora non mi fermavo a pensarci su più di tanto e nemmeno me lo figuravo il casino che sarebbe venuto fuori da quell’accavallarsi di suoni, visto che i due zampognari fermi sulla soglia della grotta non mostravano nessuna intenzione di interrompere la loro nenia. Che, anzi, era per me la cosa più bella e magica del Natale. La dolcezza di quelle note che risuonavano per le rampe al’imbrunire e che lentamente si avvicinavano sempre di più a casa mia ancor oggi riecheggia nella mia memoria più cara e segreta, come quell’immagine che non s’è più cancellata …e rivedo quelle due figure stranamente vestite, ritte a suonare davanti al mio presepio in cambio di qualche spicciolo elargito loro da mammà !
Perché mi si stringe il cuore? Perché alla dolcezza sommessa si associa una malinconia infinita?! Certo, è la nostalgia del tempo consumatosi e degli affetti più cari, smarriti per sempre nella nebbia infittitasi con gli anni e che tuttavia riesci a diradare per qualche istante, ma non solo….E’ anche un calore che ti fa sentire l’appartenenza ad una terra, ad un popolo “bambino” come sapeva esserlo quel tuo popolo napoletano ingenuamente proteso a rappresentare ed a rappresentarsi in quello spaccato di umanità colorita e vociante, festaiola nel manifestare la gioia dell’Evento a modo suo…una maniera povera e semplice di chi sa accontentarsi di poche cose : un cibo finalmente abbondante, una musica festosa, la vivacità dei colori, il vocìo del mercato, i ritmi d’una quotidianità febbrile, esuberante confusa.
Ed io, che mi sento oggi così distante da quella gente, riscopro per un momento le mie radici più vere, ritrovo i miei cari che sento nuovamente al mio fianco e considero quanto sia cambiato quel mondo che mi ha dato i natali. Allora formulo l’auspicio, poco convinto, che il Presepio non abbia a finire anch’esso come quel popolo di cui s’è persa ogni traccia. Perché il Presepio può e deve essere considerato e custodito come uno spaccato antropologico, come un testimonianza irripetibile d’una cultura semplice e bonaria, soffocata, travolta e smarrita da un’epoca priva di Storia e dimentica d’ogni sentimento di piena e vera umanità.