Dell’integrazione e del clinico-terapeutico

Dell’integrazione e del clinico-terapeutico

conversando a distanza con Alain Goussot ***

 

Cari amici della Cooperativa Trifoglio!

Ho letto con estremo interesse l’articolo di Alain Goussot, “Riprenderci la pedagogia per costruire dei percorsi di speranza” del 9 gennaio 2016 e so che il 15 e il 16 p.v. sarà da voi. Vi prego di rappresentargli la mia completa condivisione in merito al suo scritto. Quando nel lontano 1977 con la legge 517 avviammo l’integrazione degli alunni handicappati (li chiamavano così senza troppi giri di parole) nelle aule “normali” e liquidammo le classi “differenziali”, da gran parte dei cosiddetti benpensanti fummo accusati di faciloneria e pressappochismo. In effetti si trattò di un’esperienza ardita, originale – se non insolita – anche rispetto alla stessa organizzazione scolastica di altri Paesi. Ed eravamo certi di quanto avremmo rischiato. Ma confidavamo anche e soprattutto nel conforto e nel sostegno della ricerca pedagogica che in Italia in quegli anni mostrava una grande vitalità.

In effetti nel nostro Paese la pedagogia non ebbe più fortuna dopo l’avvento del fascismo, soprattutto dopo la “riforma della scuola” del 1923 e l’affermazione dell’attualismo di Gentile che, com’è noto, negava la validità stessa di tale disciplina. Basti pensare che noi nel nostro Paese “scoprimmo” Dewey solo nel 1949 quando La Nuova Italia pubblicò “Democrazia e Educazione” con la traduzione di Enzo Enriques Agnoletti, allievo di Piero Calamandrei: un volume che era stato pubblicato a New York nel 1916! In effetti, noi giungemmo a quell’opera, a quel filosofo, a quel pedagogista, che aveva segnato una traccia indelebile nella ricerca educativa, con ben 33 anni di ritardo! Ma fu un buco che riempimmo rapidamente e generosamente. E non è un caso che Goussot ricordi grandi maestri come Bruno Ciari e Mario Lodi.

Così la sfida lanciata con la legge 517 segnò tappe di grande interesse, pur attraverso tante difficoltà. Ma il sostegno parallelo – e assolutamente necessario – della ricerca pedagogica non ci mancò mai, per lo meno fino agli anni Novanta. Nel 1979 varammo i nuovi programmi per la scuola media, nel 1989 quelli per la scuola elementare, e nel 1991 scrivemmo quegli Ordinamenti per la scuola dell’infanzia che hanno riscontrato un interesse addirittura mondiale! Le nostre scuole emiliane!

Ma poi, dalla fine del secondo millennio il diluvio forse no, ma… violenti piogge cominciarono ad abbattersi sulla nostra scuola e sulla stessa ricerca pedagogica. Pertanto, leggi infauste da un lato e una ricerca educativa zoppicante dall’altro hanno fatto il resto. So che occorrerebbe un’analisi più puntuale e so di non avere gli strumenti per farlo; mi limito solo a registrare. Di qui l’impoverirsi di tutta la pratica dell’integrazione e il lento affermarsi, di contro, della pratica che Goussot sottolinea e denuncia con estrema decisione. “Questa cultura dominante del clinico-terapeutico ad ogni costo finisce per umiliare, mortificare e trasformare l’alunno o chi si trova in un momento difficile da soggetto di desiderio, di diritto, di cultura in oggetto di cura, di trattamento speciale o di assistenza”.

Di fatto, si è cominciato con i DSA per giungere poi ai BES e poi agli ADHD e poi ancora agli ADHD/DDAI e domani chissà… Basterà il nostro alfabeto per coprire tutti i disturbi e i deficit di personalità? Quando io insegnavo nella scuola dell’obbligo, questa tipologia di alunni esisteva? Forse sì! Ma io sapevo soltanto che nessun alunno è eguale a un altro e che ciascuno è portatore di tratti e atteggiamenti – non saprei neanche trovare la parolina giusta, tanta è la mia ignoranza in materia – così diversi tra loro. Ciascuno è se stesso. E con ciascuno assumevo atteggiamenti e comportamenti diversi. Loro erano obbligati a sopportarmi ed io ero obbligato a comprenderli, aiutarli, farli crescere. E non credo che alla scuola di Barbiana Don Lorenzo fosse esperto di sigle! Ma di essere umani certamente sì!

Per concludere, già so che tra qualche tempo qualche “esperto in materia” inventerà qualche altra sigla e getterà nello sconforto migliaia di insegnanti, preoccupati di essere o meno all’altezza del compito! Un compito poi ingigantito da DM, CM, Linee guida e via dicendo… spesso illeggibili… terrorismo psicopedagogico… direi. In effetti, dove la ricerca seria langue, gli azzeccagarbugli prosperano!

Grazie, carissimi, di essere giunti fin qui! Vi auguro un buon lavoro!

 

Roma, 14 gennaio 2016

Maurizio Tiriticco

 


 

***Riprenderci la pedagogia per costruire dei percorsi di speranza

 

Oggi le nostre vite sono invase da schemi culturali che fanno continuamente riferimento ai sintomi e al disturbo; qualsiasi difficoltà o disagio vengono interpretati come problemi della singola persona che va curata e riadattata alla vita considerata come normale. L’unità di misura è il comportamento e l’adattamento funzionale del singolo alla società; questo vale sia per l’ambito scolastico, gli apprendimenti , il lavoro e la vita personale. Se stai male, se sei in difficoltà, se sei demotivato e giù di tono, oppure troppo ipercinetico, la spiegazione va cercata essenzialmente nel singolo individuo. Come ha scritto Frank Furedi nel suo libro “Il nuovo conformismo”; domina il paradigma clinico-diagnostico che evidenzia i sintomi e si propone di curare per riadattare il singolo. Facciamo notare che questo modo di guardare le cose è fondamentalmente pessimistico: non crede nelle potenzialità della persona, nelle sue capacità di riscattarsi e di apprendere partendo dalle proprie caratteristiche.

E’ uno sguardo che nega nei fatti le differenze pure dichiarando di volerle rispettare in nome di una diversità prefabbricata. E’ uno sguardo che sottolinea quello che non funziona nel singolo, evitando d’interrogarsi troppo sul contesto e le sue dinamiche, nonché le sue responsabilità. Questa cultura dominante del clinico-terapeutico ad ogni costo finisce per umiliare, mortificare trasformando l’alunno o chi si trova in un momento difficile da soggetto di desiderio, di diritto, di cultura in oggetto di cura, di trattamento speciale o di assistenza. E’ una logica che disumanizza e produce disperazione, solitudine, sofferenza e aggressività, poiché si tratta di una logica di violenza e di dominio che cancella la speranza di un futuro migliore e più umano.

Per questo la pedagogia è stata marginalizzata, anche per causa degli stessi pedagogisti, perché parte dal potenziale umano, concepisce il singolo come soggetto di relazione inserito in un contesto sociale che svolge un ruolo decisivo nel costruire le possibilità della speranza. Paulo Freire parlava di pedagogia della speranza, Ovide Decroly di pedagogia della felicità affettiva, Célestin Freinet di pedagogia liberatrice.

Le pedagogie che mettono al centro la persona come portatrice di un potenziale di apprendimento che va scoperto e che danno una importanza fondamentale al collettivo, al contesto e all’ambiente socio-culturale sono anche delle pedagogie di comunità che sanno legare il particolare di ognuno con il globale del sociale in una prospettiva effettivamente inclusiva e impregnata di giustizia e di equità. Una prospettiva che produce cittadinanza attiva e quindi democrazia. Allora riprendiamoci la pedagogia , rileggiamo Heinrich Pestalozzi, Maria Montessori, Lev Vygotskij, Anton Makarenko , Bruno Ciari, Mario Lodi e tanti altri; partiamo da queste fonti vive della speranza per costruire insieme ai nostri ragazzi , alle loro famiglie e alla comunità un mondo a dimensione umana dove ciascuno avrà un proprio posto e sarà riconosciuto nella propria dignità e soggettività.

 

9 gennaio, 2016

Alain Goussot