Di quell’altra America…
di Antonio Stanca
L’ “invisibile” Cormac McCarthy è ancora vivo. Ha ottantatré anni e si trova nel Nuovo Messico, a Tesuque, con Jennifer Winkley, sua terza moglie e il figlio John. Non appare in pubblico, non prende parte a cerimonie o manifestazioni ufficiali nemmeno a quelle di carattere culturale o specificamente letterario, non scrive più da quando nel 2006, a settantatré anni, pubblicò l’ultimo romanzo, La strada, col quale vinse il Premio Pulitzer per la Narrativa e mostrò di riprendere i modi dei primi romanzi, quelli degli anni Novanta anche se con un accentuato senso del fantastico e del disastroso. “Invisibile” è stato definito perché sempre e ovunque assente è ormai McCarthy.
E’ nato a Providence, Tennessee, nel 1933, ha studiato in scuole cattoliche, ha più volte frequentato l’Università senza mai completare gli studi, è stato per quattro anni nell’esercito, ha lavorato per la radio e a ventiquattro anni, nel 1957, ha scritto i primi due racconti. Questi furono premiati e seguiti, nel 1965, dal primo romanzo Il guardiano del frutteto, che l’editore Albert Erskine avrebbe pubblicato per venti anni consecutivi e che recentemente è stato ristampato dalla Einaudi di Torino nella serie “ET Scrittori” con la traduzione di Silvia Pareschi.
Ha anche viaggiato McCarthy, è stato in Alaska, in Irlanda, nell’Europa meridionale, in Jugoslavia e sia in questi luoghi sia nel suo Tennessee ha scritto. Molto ha scritto e i suoi romanzi gli hanno procurato importanti riconoscimenti. E’ compreso tra i maggiori scrittori della letteratura americana contemporanea insieme a Thomas Pynchon, Don Delillo e Philip Roth. Si è pure dedicato al teatro come autore e sceneggiatore e da alcuni suoi romanzi sono stati tratti film di successo. Noto, famoso è diventato McCarthy anche se la sua fama non ha superato i confini dell’America. E in America sono ambientate le sue narrazioni, in quell’America rimasta lontana, esclusa dai grossi sviluppi industriali, dall’inarrestabile avanzata del progresso, dalla rapida formazione della ricchezza e della forza proprie di una potenza economica e militare a tutte le altre superiore. L’America del McCarthy scrittore è quella che non ha partecipato di tali movimenti, quella ancora primitiva, ancora immersa tra boschi, fiumi, monti, praterie, abitata da comunità rurali, da animali selvaggi, capace di meravigliare, affascinare perché antica nelle sue luci, nei suoi colori, nei suoi suoni, nella sua vita. Di questi luoghi, di questa vita scrive McCarthy, di una vita che ha accettato di rimanere invariata, che è fatta di espedienti di ogni genere, che è determinata dall’ambiente, dalle sue condizioni e perciò priva di regole, affidata al caso, imprevedibile. Così ne Il guardiano del frutteto e così in tanti altri romanzi dello scrittore. Il suo primo sembra abbia stabilito quello che sarebbe stato l’intero percorso della sua produzione narrativa. In quel romanzo difficile riesce distinguere quanto effettivamente accade tra le persone che vi prendono parte. La vicenda, il suo senso, il suo svolgimento, i suoi protagonisti non seguono un ordine completamente chiaro, sono sempre nuovi nelle loro parole, nelle loro azioni, sempre da scoprire nelle loro intenzioni. Senza alcun riferimento preciso, senza alcuna certezza si svolge la vita in quel Nord America dei primi anni del Novecento, in quel Tennessee dove è ambientata l’opera. Un Tennessee ricco di piante, di acque, di animali ma selvaggio, senza ordine, senza regole.
Un vecchio che vive in una capanna da lui costruita tra gli alberi di una collina e che si mantiene con il misero guadagno ricavato barattando radici di piante, un ragazzo che non ha dimora fissa e baratta pelli di animali catturati con trappole, un giovane che contrabbanda whisky, il cadavere di una persona uccisa scoperto dopo molto tempo in una vasca d’acqua, una legge che interviene senza molta decisione e si arrende alle prime difficoltà, un paesaggio che tutto contiene e tutto sembra spiegare: questi sono i personaggi, gli ambienti, i temi di una narrazione che li fa comparire e scomparire, che procede a intervalli, che si sposta tra luoghi, momenti, eventi diversi protraendosi per molte pagine, diventando interminabile poiché bisogno ha McCarthy di dire dei tanti aspetti di un’America poco nota, di come si vive, di cosa avviene in quell’America, tra le campagne, le foreste che la compongono. E lo fa con una scrittura così ampia da raggiungere e mostrare ogni cosa, con un linguaggio così esteso da saper dire di tutti quei posti, da diventare come essi, mai definitivo, mai ultimo, sempre disposto ad accogliere, aggiungere altro, ad essere altro, a stare tra la terra e il cielo, il giorno e la notte, la fine e l’inizio, la vita e la morte, la storia e la leggenda, la realtà e l’immaginazione, la verità e il mistero, la fede e la credenza, la rassegnazione e la speranza, la volontà e il destino, tra tutto ciò che può appartenere ad un’umanità che vive di risorse proprie, di un patrimonio proprio e che ad esso non vuole rinunciare.
Eccezionale è questo processo d’identificazione tra l’uomo e la natura che lo scrittore riesce a compiere tramite infinite, raffinate metafore. Con McCarthy non sembra di leggere ma di vedere.
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