Se il Consiglio è lo specchio di una scuola low profile

da Il Sole 24 Ore

Se il Consiglio è lo specchio di una scuola low profile

di Luisa Ribolzi

Il 15 gennaio scorso si è insediato il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (CSPI), a vent’anni (!) dalle ultime elezioni per il rinnovo della componente elettiva. Stiamo parlando di un organismo storico, forse il più antico della scuola italiana: istituito nello statuto Albertino del 1847 con il nome di Consiglio Superiore, confermato dalla legge Casati ed esteso al Regno d’Italia, allo scopo di far crescere la cultura e l’istruzione, era composto di 21 membri di nomina regia. Ne ha fatto parte il Gotha della cultura e della politica italiana, da Carducci a De Amicis, da Gemelli a Gentile, da Sella a Cannizzaro, fino alla presidenza di Benedetto Croce. Nel 1974 viene sostituito dal Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, composto di 71 membri, quasi tutti (62) eletti dalle diverse categorie del personale su liste sindacali, con ben poco spazio per componenti esterni alla scuola. A questo punto inizia la parte surreale della vicenda: dopo le elezioni del 1996, l’allora ministro Berlinguer con il D.M. 233/1999 riforma il Consiglio, rinominandolo “superiore” per sottolineare la dimensione di eccellenza versus rappresentatività, come «organo di garanzia dell’unitarietà del sistema nazionale dell’istruzione e di supporto tecnico scientifico per l’esercizio delle funzioni di governo». Diviene più snello: 36 membri, di cui 18 elettivi (dall’87% al 50%) e 18 nominati dal Ministro, nove direttamente e nove su designazione di vari soggetti (CNEL, conferenza Stato-Regioni ecc.). La riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 riporta tutto in alto mare, e il Consiglio eletto nel 1996 viene prorogato inizialmente di tre anni in tre anni e poi fino al 2011, con continue sostituzioni dei consiglieri eletti nel 1996, finché nel 2012 il Ministro Profumo rifiuta l’ennesima proroga, e il Consiglio decade. Nel 2014 il Consiglio di Stato impone al Ministro di indire le elezioni, che si tengono nell’aprile del 2015. Il Ministro nomina i membri di sua competenza il 31 dicembre, e arriviamo ad oggi. A parte l’assurdità dell’intera vicenda, mi chiedo se quantomeno questa lunga attesa ha raggiunto i suoi scopi, e mi rispondo di no. Nelle intenzioni sottostanti al DM 233, il Consiglio avrebbe dovuto diventare la sede rappresentativa della cultura e dell’alta formazione, con l’ingresso di esponenti di prestigio del mondo della letteratura, dell’arte, della ricerca: ma i membri (questo non comporta alcuna valutazione di carattere personale, ma solo tipologico), sono quasi tutti sindacalisti e funzionari del Ministero stesso, o provengono dalle segreterie politiche e dagli enti locali: sono, in altre parole, tutti addetti ai lavori. Chi teme che curino, più che la crescita dalla cultura e dell’istruzione, l’autotutela del personale della scuola, trova conferma ai suoi timori nel primo provvedimento, il 27 gennaio, che rivede al ribasso i requisiti del concorso per docenti. Temo che si sia persa un’ulteriore occasione per contrastare l’immagine miserabilistica dell’ istruzione italiana. Serviva il coraggio di un colpo d’ala, almeno per i rappresentanti nominati direttamente dal Ministro. Ma qui nasce un dubbio preoccupante: che non solo di autodifesa si tratti, ma che l’immagine sociale della scuola sia scaduta a livelli di guardia, che il suo prestigio sia sempre più low profile (perché stupirsi allora se è anche low cost?) tanto che il Ministro (ma anche, perché no, sindacati e associazioni) temeva che intellettuali e scienziati di prestigio internazionale avrebbero rifiutato. Non so, francamente, quale delle due ipotesi sia più deprimente. Sarebbe gravissimo se l’élite culturale e artistica ritenesse dequalificante occuparsi di scuola, e si tratterebbe, in questo caso, di una preoccupante accelerazione: a quella che poi fu chiamata “Commissione dei saggi” che lavoravano sui saperi minimi di cittadinanza, parteciparono personalità come Rita Levi Montalcini, Umberto Eco, Carlo Bo, Eugenio Scalfari, Carlo Bernardini, il cardinal Tonini, tanto per citarne alcuni. Non vennero tutti e non vennero sempre, ma accettarono la designazione, e fornirono contributi di grande interesse. Ma la scuola si oppose con forza alle proposte che emersero da quei lavori. Avrebbero potuto essere Galileo, Dante, Marconi: non erano dei loro, non potevano sapere. Se è così, forse sarebbe meglio lasciar perdere: una pura e semplice ripetizione delle vecchie logiche non merita un nome così prestigioso.