Una vita, tante vite
di Antonio Stanca
Il 21 Giugno 2015 a Bruxelles il Premio dell’Unione Europea per la Letteratura è stato assegnato alla scrittrice francese Gaëlle Josse per il suo romanzo L’ultimo guardiano di Ellis Island, uscito in Francia nel 2014 e in Italia nel 2015 nella collana “Narratori Francesi Contemporanei” della casa editrice Gremese International di Roma (pp.187, € 15,00). La traduzione dal francese è di Annarita Stocchi.
La Josse è nata nel 1960, ha studiato diritto, giornalismo e psicologia, ha lavorato come editor per un sito di Parigi, ha tenuto laboratori di scrittura e di musica e le prime sue pubblicazioni, nel 2005, sono state di genere poetico. Nel 2011, a cinquantuno anni, ha debuttato nella narrativa col romanzo Le ore silenziose che le è stato ispirato dall’incontro col pittore olandese Emanuel de Witte e dalla conoscenza delle sue opere. Seguiranno altri romanzi fino a quest’ultimo. Per il 2016 la Josse pensa di pubblicare uno dal titolo L’ombra delle nostre notti.
Come era successo per il primo romanzo anche per L’ultimo guardiano di Ellis Island la scrittrice muove da un’esperienza vissuta, stavolta da una visita da lei fatta nel 2012, mentre era a New York, al Centro d’Immigrazione di Ellis Island che allora era stato chiuso già da molto tempo e trasformato in Museo dell’Immigrazione. La vista “delle stanze, dei corridoi, delle scale, di luoghi deserti, ma colmi di oggetti, di fotografie e di ricordi”, il contatto con un posto che per tanti anni, tutti i primi cinquanta del Novecento, aveva accolto immigrati provenienti da tutte le nazioni europee compresa l’Italia, avevano suscitato in lei il desiderio, il bisogno di dire, di scrivere, di ricostruire quel mondo scomparso, di recuperare quell’umanità finita. Convinta è, infatti, la Josse che il compito di un autore, di uno scrittore consiste nel saper combinare quanto gli giunge dall’esterno con le proprie tendenze, le proprie aspirazioni, i propri problemi, nel saper rappresentare questo “incontro” e ricavare una storia che comprenda i due termini, li superi e diventi di tutti, valga per tutti. E’ quanto l’arte ha sempre richiesto per essere tale e la Josse sembra voler rispondere a questa antica domanda. La visita di Ellis Island le ha suggerito l’idea di un’opera, le ha fatto scrivere un romanzo che colmasse le sue esigenze di sapere di quel luogo, delle tante persone, delle tante vite che vi erano passate, di come erano trascorse, che le ricordasse, diventasse la loro voce, la loro storia. E riesce a farlo ne L’ultimo guardiano di Ellis Island dal momento che nel romanzo fa raccontare quanto successo nel Centro, dal suo inizio alla sua fine, dal direttore John Mitchell che tutto ha visto, a tutto ha assistito ed ora, rimasto solo, è in attesa dei funzionari dell’Ufficio Immigrazione che a giorni verranno per chiudere definitivamente Ellis Island. E’ il Novembre del 1954 e la Josse mostra il Mitchell che trascorre quegli ultimi giorni a percorrere il Centro in ogni sua parte, in ogni suo angolo, a ricordare tante cose e a metterle su carta, a scrivere di esse. In lui si trasferisce, quindi, la scrittrice, con quella del suo personaggio fa coincidere la propria volontà di ricordare, riportare quanto è finito per sempre, di quella di Mitchell fa la voce che narra per l’intero romanzo senza mai fermarsi e nella maniera semplice, chiara che poteva essere propria di un’anima buona, di uno spirito rassegnato. A Mitchell la Josse farà dire dei milioni di immigrati che a Ellis Island erano giunti da tutta l’Europa, dei reduci dalle due guerre mondiali, dalla rivoluzione russa del 1917, dal comunismo, dall’antisemitismo. A Ellis Island tutti questi avevano trovato asilo dopo le gravi, pericolose condizioni nelle quali erano venuti a trovarsi durante la traversata dell’Atlantico su vaporetti non molto sicuri. Mitchell dirà pure delle violenze, delle persecuzioni, della miseria, della povertà, della fame dalle quali fuggivano, della speranza di una nuova condizione che per molti rimaneva limitata alla soddisfazione dei bisogni del corpo mentre per altri significava diventare cittadini americani, entrare a far parte di un’altra vita, di un’altra società, di un altro popolo. E ancora dirà dei luoghi del Centro adibiti a refettori, a dormitori di massa dove l’immigrato perdeva ogni elemento della sua identità, delle sue origini, della sua famiglia, della sua terra e un numero tra tanti diventava. Interprete si farà Mitchell della tristezza, della sofferenza, dell’angoscia che aveva visto su tanti volti e che avevano assunto una dimensione estesa, erano diventate i soli aspetti di quel posto, di quell’umanità, avevano fatto di tanti casi disperati un unico, immenso caso. Parlerà pure della sua vita, dirà che aveva perso la moglie Liz e la compagna Nella, che aveva sofferto per sé e per tutti i poveri che i suoi occhi avevano visto sfilare. A Ellis Island Mitchell aveva accolto, accettato tante pene, le aveva sofferte ed ora le raccontava perché ne rimanesse il ricordo, perché valessero a richiamare a quei valori, a quei diritti umani e civili che tanto spesso vengono calpestati, perché diventassero motivo di letteratura.
Non poteva trovare modo migliore la Josse per fare di una sua visita a Ellis Island la trama di un romanzo dall’alto significato morale e sociale, non poteva trovare per questo espressione migliore della voce di John Mitchell essendo stata la sua vita composta da tutte quelle altre vite, da tutte quelle altre verità, da tutta quell’altra umanità che l’opera intendeva rappresentare.
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