H. Tuzzi, Casta Diva

Una vacanza-indagine per il commissario Melis

di Antonio Stanca

tuzziA Settembre del 2015 la Bollati Boringhieri di Torino, nella serie “Le Piccole Varianti”, ha ristampato Casta Diva, romanzo giallo di Hans Tuzzi, comparso la prima volta nel 2005 nel volume Tre delitti un’estate. Tuzzi, che in verità si chiama Adriano Bon, è nato a Milano nel 1952, ha sessantaquattro anni, è autore di saggi critici relativi soprattutto alla storia del libro e del suo mercato antiquario, è consulente editoriale e Master in editoria cartacea presso l’Università di Bologna. Dal 2002 ha cominciato a scrivere romanzi di genere “giallo” e a questi ha legato il suo nome anche se nel 2012 con Vanagloria e nel 2014 con Il Trio dell’arciduca ha sperimentato un altro genere di narrazione.

Per i romanzi polizieschi Tuzzi è ormai conosciuto e seguito da un grosso pubblico di lettori che in essi amano ritrovare ogni volta il commissario Norberto Melis impegnato a scoprire i responsabili di un’oscura vicenda, di un misterioso delitto. E insieme all’indagine amano pure seguire i particolari che lo scrittore vi aggiunge e che appartengono agli ambienti, alle persone, ai costumi dei luoghi dove l’indagine si svolge. Abile è Tuzzi ad accogliere in un romanzo giallo tanta vita, tanta storia, a costruirle, combinarle, farle procedere insieme all’inchiesta che Melis conduce, a rendere tutto con un linguaggio molto chiaro, molto scorrevole, a non rinunciare ad una certa, sottile ironia.

Stavolta il commissario è sulla costiera amalfitana dove, a Giugno del 1982, è stato invitato dal suo ex questore Lecaldano a trascorrere un fine settimana. Melis vi è giunto accompagnato da un subalterno, D’Aiuto, e insieme vengono ricevuti nella sontuosa villa di Lecaldano. Qui partecipano alle feste, ai conviti che spesso sono organizzati e conoscono le altre importanti e a volte strane personalità che vi partecipano. Una vacanza dovrebbe essere per Melis e D’Aiuto tenuto conto anche dei posti stupendi dove si svolge, del mare, del sole, della costa, dei boschi della Campania, delle loro luci, dei loro colori durante l’estate. Tutto è diverso dalla Milano che Melis e D’Aiuto hanno lasciato e le prelibatezze della cucina partenopea si aggiungono a rendere ancora più piacevole la loro vacanza.

In un’altra villa, vicina a quella di Lecaldano, trascorrono la loro vecchiaia due noti personaggi del mondo dello spettacolo, un pianista e una soprano, entrambi stranieri e di fama mondiale. In un’altra ancora era vissuto, dal 1939 al 1945, il celebre studioso francese Antoine-Chrysostome De Quincy che in quel posto aveva svolto pure attività di scenografo e di impresario di balletti. Tra De Quincy, omosessuale, e il suo primo ballerino, Taginskij, c’era stata una “relazione appassionata” e i due si erano scambiati un certo numero di lettere che De Quincy in punto di morte aveva affidato al pianista con l’impegno che non venissero mai pubblicate. Questi, invece, giunto a corto di denaro le aveva vendute ad un antiquario tedesco che il giorno dopo l’acquisto era stato trovato morto nella sua camera d’albergo. Cominciano le indagini condotte dalla polizia locale e si scopre che l’antiquario tedesco era morto per aver ingerito un bicchiere di birra nel quale era stata versata una dose eccessiva di valium. Al tedesco che soffriva di cuore il valium era stato fatale anche se chi lo aveva versato voleva solo addormentarlo per rubare le lettere che, infatti, sono sparite. Molte perquisizioni vengono fatte in molti posti, in molte case, ma le lettere non si trovano. Melis sente continuamente parlare di quanto sta avvenendo, vi assiste finché, dopo una seconda morte, quella del notaio Muraro, trovato in fondo ad un dirupo, Lecaldano non lo prega di assumersi l’incarico di un caso che sta diventando sempre più complicato. Melis lo farà e aiutato da D’Aiuto scoprirà che Filomena, l’anziana domestica di casa Lecaldano, da bambina era stata al servizio di De Quincy e si era molto affezionata a lui. Filomena sapeva di quelle lettere, le aveva viste e il suo rispetto per il loro autore era tanto da farle temere che il tedesco che le aveva acquistate le avrebbe rese pubbliche e avrebbe infangato il nome di De Quincy. Pertanto aveva pensato di addormentarlo e sottrargli le lettere che poi aveva bruciato. Invece lo aveva fatto morire. Quanto a Muraro era stata pure lei ad avere uno scambio violento col notaio mentre tornava di notte dalla cena alla quale aveva partecipato in casa Lecaldano. Durante la cena Muraro ubriaco aveva sparlato di De Quincy, aveva detto della sua omosessualità, delle strane serate che si svolgevano nella sua casa, delle strane persone che la frequentavano. Tanto accesa d’ira era diventata Filomena, che serviva a tavola, da giungere a scontrarsi col notaio sulla via del ritorno a casa. Non chiaro sarebbe rimasto, tuttavia, se Muraro fosse precipitato nel dirupo perché spinto da lei o perché scivolato. Di nessuno degli omicidi Filomena poteva essere accusata con certezza anche se entrambi le dovevano essere imputati.

Meglio sembra essere riuscito stavolta Tuzzi poiché capace si è mostrato di trovare il modo col quale far dubitare che una povera domestica si trasformi in una crudele assassina solo perché legata al suo padrone.