L’apprendimento permanente

L’apprendimento permanente, un grande obiettivo nascosto

di Gian Carlo Sacchi

 

Sull’apprendimento in età adulta il nostro Paese si trova in una palude, che da un lato rivela l’inconcludenza riguardo ad una specifica legislazione, e, dall’altro, la distanza dagli obiettivi di Europa 2020. Ci si è provato diverse volte a scrivere una normativa organica ispirata alla long life learning, che in quest’ottica avrebbe consentito di rileggere un po’ tutto il percorso scolastico, ma nel tempo anche le terminologie che si sono susseguite nell’identificazione di tali percorsi hanno evidenziato l’incertezza politica che ancora oggi caratterizza la visione istituzionale del settore. Si è iniziato con istruzione degli adulti per definire il recupero dei titoli di studio e ancora oggi questo termine connota l’ultima edizione dei Centri Provinciali (CPIA). C’è stato un breve periodo durante il quale si era passati all’educazione pensando che fossero i bisogni/interessi delle persone a condurre le diverse progettazioni, secondo un governo del territorio e lasciando un ampio margine di manovra alle autonomie scolastiche. Da sempre poi la formazione prevedeva l’aggiornamento delle performance professionali, in cui venivano a trovarsi anche le aziende. Questi tre sostantivi indicavano altrettante competenze istituzionali: allo Stato l’istruzione, alle Regioni la formazione professionale, ad un mix di soggetti non ben identificati tutto quanto afferiva alla così detta educazione permanente, che a livello semantico avrebbe potuto riassumerle tutte e che invece si è trovata a fare il vaso di coccio sia sul piano dei contenuti che della governance. Un tentativo in tal senso fu proposto con la direttiva De Mauro del 2001.Essa offriva linee guida per l’educazione permanente degli adulti, con validità triennale, mirate “all’alfabetizzazione funzionale della popolazione adulta, che consideri i differenti bisogni di istruzione delle persone e di promozione culturale nei contesti locali”. Lo sviluppo della collaborazione tra i Centri territoriali e gli Enti locali, caldeggiata dalla direttiva medesima, aveva lo scopo di rafforzare il complessivo sistema dell’educazione degli adulti e la personalizzazione dei percorsi, il riconoscimento dei crediti e la progressiva realizzazione del sistema integrato di certificazione. La dislocazione dei Centri territoriali veniva definita dalle Regioni, secondo obiettivi di programmazione dell’offerta formativa, mentre i precedenti CTP erano istituiti dall’amministrazione scolastica prevalentemente presso scuole del primo ciclo.

La direttiva arrivò a scadenza e non fu rinnovata ed ogni segmento tornò alla sua originaria identità, lasciando sullo sfondo le indicazioni europee, che nella logica del recepimento divennero il riferimento delle politiche nel settore. Anziché sui fini l’UE pose l’accento sui risultati, definendo un range di età entro il quale gli adulti di tutta Europa avrebbero dovuto frequentare corsi di formazione, valorizzando gli apprendimenti formali, ma anche quelli non formali ed informali.

La ricerca PIAAC dell’OCSE fornì ulteriori dati per quanto riguarda le abilità linguistiche, logico-matematiche e collegate all’uso delle tecnologie dell’informazione e comunicazione.

In linea con le indicazioni europee la legge 92 del 2012 fece piazza pulita delle precedenti dissertazioni introducendo il concetto di apprendimento permanente, pensando ad un processo che dura tutta la vita e che chiama in causa una pluralità di occasioni per apprendere. Il Consiglio d’Europa infatti (2012), nel convalidare l’apprendimento non formale ed informale, raccomanda che tutti i cittadini si trovino nella condizione di realizzare appieno le proprie potenzialità di crescita culturale, formative e occupazionale. Non ci si riferisce principalmente alle performance ma alle persone in una prospettiva sociale, di cittadinanza e occupazionale. E’ una legge che riprende idealmente dalla direttiva De Mauro, compreso il recupero del termine educazione, almeno come traduzione del linguaggio europeo, ma questo specifico dell’apprendimento permanente non ha un corpo legislativo autonomo, è inserito in un provvedimento sul lavoro; le imprese non hanno accolto bene l’allargamento della formazione oltre la dimensione professionale, per timore di una ricaduta troppo impegnativa sull’inquadramento dei lavoratori. Ma ormai è legge, forse la prima legge che finalmente cerca di operare una sintesi tra i predetti segmenti, anche se gli stessi per ora non hanno abbandonato le rispettive prerogative.

Il valore di tale operazione è da un lato porre un segnale nei confronti del superamento della suddetta rigida articolazione dei percorsi, e, dall’altro, aprire verso i bisogni formativi della popolazione adulta con le sue diverse modalità di apprendere. “La Repubblica….promuove l’apprendimento permanente quale diritto della persona” (DLeg.vo n.13/2013) ad intraprendere qualsiasi attività nelle varie fasi della vita al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze. Si possono percorrere itinerari così detti formali che si concludono con il conseguimento di un titolo di studio o una qualifica professionale. Ci sono poi apprendimenti informali che si realizzano nello svolgimento di attività nelle situazioni di vita quotidiana e nelle interazioni che in esse hanno luogo, nell’ambito del contesto di lavoro, familiare e del tempo libero (loisir).

Infine si parla di apprendimenti non formali , la vera novità per il nostro sistema, che sono caratterizzati da una scelta intenzionale delle persone che vogliono formarsi, che si realizza al difuori dei due sistemi indicati, in ogni organismo che persegue scopi educativi, anche del volontariato, del privato sociale e delle imprese.

Con il citato decreto n. 13 vengono definiti i livelli essenziali delle prestazioni per l’individuazione e la validazione degli apprendimenti non formali e informali e gli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze.

Poche righe per individuare un’operazione titanica, che non parte da risultati predeterminati, tipici del nostro sistema, perlopiù formale, ma da standard che tutti, pur nei diversi ambiti in cui si svolge l’attività formativa, si devono impegnare a raggiungere, con la relativa certificazione in base all’ambito nel quale è stata conseguita. Anche sulla questione degli standard c’è ancora molto da lavorare, così come quando si parla di interoperatività delle banche dati per la certificazione, cosa appena partita nel settore dalla formazione professionale, che cerca di andare verso la fusione delle anagrafi regionali, in vista di un migliore rapporto con le istituzioni europee.

COME VENGONO STRUTTURATI I PERCORSI NON FORMALI

Partendo dalle analisi PIAAC ci si rende conto che i così detti percorsi formali non bastano se si vogliono raggiungere obiettivi formativi significativi per un’ampia gamma di popolazione, la quale non ha a che fare soltanto con i titoli di studio o l’aggiornamento professionale, ma con competenze che permettano di vivere al passo con i tempi, mantenendo i diritti di cittadinanza, facendo fronte al così detto analfabetismo di ritorno. Il non formale, come si è detto, consente di raggiungere gli standard prescritti (competenze chiave per l’apprendimento permanente, EQF, decreto 139/2007, ecc.), con modalità che sono interessanti per le persone e per i diversi stili e ambienti di apprendimento. Davanti al formale c’è il titolo con le sue prescrizioni e gli obblighi di chi deve recuperare in età adulta, con alle spalle il valore giuridico, nel non formale c’è la motivazione delle persone a mettersi in gioco, l’esigenza di mantenersi in forma, con la possibilità tuttavia di venire certificati ed avere un riconoscimento sociale e perchè no sul libero mercato.

Una competenza in lingua straniera ad esempio può essere inserita in un determinato percorso che prevede una certa terminalità, ma può anche essere indicata in standard comunicativi ottenibili da turisti, mediante scambi culturali, ecc. Nell’informale poi sarà il singolo a condurre un’esperienza permeata da diversi apprendimenti linguistici che verranno apprezzati sul campo. Per questi ultimi due ambiti il citato decreto prevede che sia lo stato a mettere a punto modelli di certificazione, fermo restando che nelle lingue esiste già uno standard europeo.

Gli strumenti legislativi prevedono un’intesa Stato-Regioni per regolamentare le rispettive competenze . L’accordo approvato il 10 luglio 2014 detta linee strategiche di intervento in ordine ai servizi da attuare e all’organizzazione delle reti territoriali, che sono lo strumento che la legge stessa ha previsto per costituire un sistema integrato di apprendimento permanente.

Di tali reti fanno parte i CPIA, a loro volta reti territoriali di servizio del sistema di istruzione dello Stato per le attività destinate alla popolazione adulta, le reti Politecniche professionali, le Università, e, per la prima volta vengono legittimati “organismi che perseguono fini educativi e formativi, anche del volontariato, del servizio civile nazionale e del privato-sociale”.

Si tratta di aprire la strada sul piano della domanda al ruolo del non formale e su quello dell’offerta a soggetti privati attivi sul territorio, che devono essere riconosciuti in termini di status, ai quali non è richiesto di uniformarsi ai soggetti pubblici come operanti nel campo del formale, ma che possono mantenere la loro identità ed il loro progetto educativo. Sarà la rete territoriale a farsi carico della programmazione della predetta offerta integrata, riconoscendo un “ruolo specifico e non sostituibile” al così detto privato-sociale.

L’intesa attribuisce a tali ultime organizzazioni da un lato un valore rispetto all’innovazione metodologica, ma dall’altro indulge nel considerarle ancora un pezzo di welfare, ricalcando quella che è la nostra tradizione culturale e cioè la capacità di entrare in contatto con cittadini spesso a rischio di esclusione sociale. L’esperienza dimostra che diverse sono le motivazioni secondo le quali gli adulti si avvicinano alle varie offerte e proprio nel campo del non formale spesso si tratta di ricerca di qualcosa che soddisfi un interesse culturale più che di necessità di colmare lacune pregresse o di beneficiare di strumenti per l’inclusione sociale, seppure tutto il sistema territoriale deve guardare, come si è detto, verso l’acquisizione delle competenze chiave per l’apprendimento permanente o ai repertori professionali, regionali e nazionale.

Quindi saranno l’analisi dei bisogni formativi, le specificità dei singoli attori ed il monitoraggio dei risultati in termini di soddisfazione dell’utenza e di aumento degli indici di competenza, a sviluppare un prodotto formativo che serva da motivazione e orientamento permanenti.

UNA NUOVA GOVERNANCE

La palla passa alle Regioni che nel recepire l’intesa indicano i percorsi di riconoscimento dei predetti soggetti sociali/formativi e l’organizzazione delle reti territoriali. Sul piano della legittimità a livello regionale esistono già tutti gli albi necessari ai quali tali organismi devono essere iscritti (associazioni di promozione sociale, di volontariato, cooperative sociali, ecc.), che vanno solo riunificati in un unico apposito registro; nei loro statuti deve essere chiara la finalità formativa; dovranno documentare il loro specifico, il progetto educativo e la programmazione con carattere pluriennale.

Trattasi di soggetti privati e volontari, che vanno giudicati dai risultati e non dai prerequisiti, in quanto non devono attribuire titoli aventi valore legale, bensì certificati da porre in un’ottica relazionale e per un aumento generale di conoscenze e non di selezionare quelle validate ai fini pubblicistici. Allo stesso modo le competenze degli operatori devono essere garantite da modalità e percorsi promossi dalla stessa associazione. Qui il terreno si fa scivoloso perché quando si tratta di competenze culturali la tradizione burocratica del nostro Paese è quella di uniformarne i requisiti alle agenzie formali, e questo metterà a rischio l’originalità della proposta formativa di una struttura abbastanza fragile piegandola a quelle molto più forti delle università, dei CPIA e delle stesse scuole .

In questi ultimi anni sono aumentate le Università Popolari, strutture molto dinamiche e assai diversificate, capaci di attrarre utenze diverse per età, livelli culturali, etnie di appartenenza, per valorizzare le persone adulte come soggetti attivi e risorse per l’intera società. Prendono lo spunto dai “circoli culturali” diffusi nel nordeuropa , si sviluppano secondo attività formative top down, in base ad un’offerta riconoscibile e programmata, ma anche bottom up, in luoghi dove le persone si trovano a discutere ed approfondire problemi del contesto in cui operano e dove l’apprendimento non formale costituisce uno strumento di partecipazione democratica. I risultati delle loro attività potranno essere riconosciuti come crediti anche per percorsi formativi di tipo formale. Diverso è altresì il rapporto con le istituzioni locali e per quanto riguarda le modalità di finanziamento. Si tratta di differenze che costituiscono una ricchezza che va salvaguardata e non cercare di omologarle secondo un modello scolasticistico; sono il risultato di storie particolari, di volontariato e di politiche territoriali. Ogni università deve perciò esprimere con chiarezza una propria intenzionalità ed un’offerta formativa; essa è e deve restare libera, le regioni devono rispettare tale libertà pur nella individuazione dei requisiti minimi per il loro riconoscimento.

Alcune regioni hanno iniziato a muoversi, limitandosi al recepimento dell’intesa o seguendone i tratti fondamentali nella costituzione di comitati regionali, che tuttavia appaiono generici e senza un orientamento programmatico chiaro, nella indicazione dei requisiti per il riconoscimento dei soggetti del terzo settore. In altri casi si ritiene che possa essere esaurito il compito nell’ambito di una visione lavorista dell’apprendimento permanente.

Saranno le regioni ad adottare un proprio modello che identifichi la dimensione territoriale, eventuali connotazioni settoriali, la definizione dei soggetti che la compongono. Verranno altresì attivati processi di governance democratica e partecipativa che permettano alle comunità locali (nella componente istituzionale e no-profit) di essere protagoniste della propria crescita.

Regioni ed Enti locali sono evidentemente i nodi delle reti, essi dovranno garantire i servizi informativi, favorire l’emersione dei bisogni formativi inespressi, soprattutto dai soggetti più deboli, sostenere l’orientamento, coordinare la programmazione ed il monitoraggio dei risultati. Allo Stato l’individuazione degli standard e la certificazione delle competenze. I soggetti che compongono la rete definiscono le proprie modalità di gestione per assicurare un’offerta che espliciti quali competenze tra quelle europee di cittadinanza e quelle del repertorio regionale i cittadini possono acquisire attraverso il percorso di apprendimento non formale.

Ancora molto c’è da costruire e l’occasione di far diventare l’apprendimento permanente l’anima pedagogica dei recenti provvedimenti sulla buona scuola e sul lavoro non si è realizzata, vedremo se qualcosa comparirà nella riforma del terzo settore dal momento che da un lato la formazione fa diminuire le disuguaglianze e fornisce strumenti per l’inclusione sociale, e, dall’altro, il no-profit aumenta la sua presenza tra le competenze non formali.

Si crede che questo discorso interessi maggiormente il mondo del lavoro, mentre si apre sempre di più verso la cittadinanza, specialmente per quanto riguarda la popolazione adulta. Si potrebbe pensare alle soft skill che sono più attinenti alla cittadinanza stessa, ma sono le più richieste anche per i lavoratori.