Educare alla fragilità

Educare alla fragilità

SECONDA AREA TEMATICA
Le fragilità nella privazione della libertà: un nuovo approccio assistenziale

A giorni si svolgerà nella nostra città, un convegno sul tema dell’educare alla fragilità nella privazione della libertà.
Parteciperanno molti esperti e specialisti della sanità, della giustizia, dell’Amministrazione Penitenziaria.
Si tratterà di delineare nuove assi di coordinamento sociale finalmente condivise e partecipate, affinché si possa parlare del carcere e della pena non più solamente con grammatiche emergenziali sgrammaticate, ma con un progetto che metta in condizione di esser riconosciuti nei propri ruoli e come persone: gli operatori ed i detenuti.
Sarà questo un momento importante di riflessione, per fare tesoro delle intuizioni e creatività di ognuno e di ciascuno, potrà concretizzarsi una possibilità per accorciare le distanze dalla reale sostanza delle cose, infatti il carcere non è assolutamente quello dei films.
Occorre prendere coscienza che c’è da fare i conti con la persona/e, con i suoi errori, con la giusta punizione, ma anche con una carcerazione che mantenga inalterati gli scopi costituzionali e la propria utilità sociale, affinché chi privato della libertà dentro una cella, possa uscire al termine della propria condanna, quanto meno un po’ migliore.
“Il percorso che verrà tracciato in questo consesso, mira a stimolare la riflessione sulle diverse e differenti condizioni umane, che spesso si presentano con un unico volto, il volto del disagio, fuori e dentro le realtà ospedaliere. Contesti che comportano incontri e confronti, fra persone con culture, storie e vissuti molto differenti fra loro, le cui risposte, necessitano di una cultura dell’accoglienza e della solidarietà.
Ri-progettare anche l’assistenza sanitaria-infermieristica dando particolare rilievo alla componente educativa, può favorire e accelerare il processo di cambiamento in atto oltre che dare un spinta propulsiva e innovativa in termini di concretezza, all’interno del più ampio contesto delle politiche di welfare.
Sensibilizzare i professionisti a conoscere i bisogni di salute delle persone con maggior disagio biopsicosociale, acquisire e/o affinare le competenze di processo in materia di aspetti relazionali (la comunicazione interna, esterna, con paziente) e umanizzazione delle cure per accogliere il paziente straniero e la sua famiglia, affermare la cultura dell’inclusione e garantire il rispetto dei principi di uguaglianza e universalità delle cure”.
Ma non solo, infatti come accade in una comunità di servizio e terapeutica come la Casa del Giovane, dove da molti sono impegnato come operatore, sarà necessario investire sulle professionalità e conoscenze umane, non soltanto sul cartaceo delle disposizioni ed i regolamenti interni di un penitenziario, occorrerà adoperarsi non a mantenere un istituto come un lazzaretto, ma favorendone la propria autorevolezza ri-educativa.
Soprattutto diverrà stringente il disporsi ad aiutare chi è detenuto, non per una pseudo solidarietà accudente e buonista, ma con l’obiettivo di recuperare strumenti e occasioni per ritornare in possesso di un equilibrio, soprattutto per ri-conquistare la propria dignità personale, perché checchè qualcuno si ostini a ripeterci che veniamo al mondo con la nostra dose di dignità ben allacciata in vita, lì rimarra’ per sempre, qualunque cosa accada, ebbene, non c’è panzana più grossa e deleteria.
La dignità la si può perdere e come, in maniera devastante, tragica, poi ritornarne in possesso diventa davvero difficile, e non sarà sufficiente la nostra buona volontà, né mettercela tutta per riuscire a ben camminare: nessuno si salva da solo, nessuno ha ragione da solo, dovremo esser capaci di chiedere aiuto, perchè chi chiede aiuto non è persona debole, o uno sfigato, ma una persona con la propria fortezza interiore. Dovremo creare le basi per accedere a un’opportunità di incontro con qualcuno che ci viene incontro, stende il suo braccio, stringe forte la nostra mano, sradicandoci letteralmente dal buco nero profondo in cui siamo caduti.
Educare alla fragilità della privazione della liberta’, accompagna chi sta dentro una cella verso la consapevolezza che occorre davvero la forza del coraggio per cambiare: per prendere convinzione interiore di un progetto, di vista prospettica, di un percorso, una strada nuova in cui camminare non più rasenti ai muri, con le spalle al muro, ma passo dopo passo al centro del sentiero, da cui abbandonare i carichi inutili, le zavorre che ci fanno camminare sulle ginocchia e neppure ce ne accorgiamo: i deliri di onnipotenza, di commiserazione : pensare che siamo i più furbi, che attraverso le nostre pratiche violente o truffaldine, raggiungiamo ogni traguardo, infischiandocene di chi davanti a noi arranca, inciampa, cade, no, noi non ci fermiamo a soccorrerlo, ci passiamo sopra, per arrivare alla meta.
E così facendo non soltanto si perde contatto con la realtà, con la sostanza delle cose, peggio, molto peggio, la stessa vita umana perde il suo valore.
Deliri di commiserazione per cui tutto ciò che succede, tutto ciò che accade, tutto ciò che mi piega di lato, non è mai per colpa mia, è tutta colpa di qualcuno altro, è colpa degli altri, mai colpa mia, eppure, forse, più semplicemente l’unico vero problema siamo noi.
La solidarietà non è manna che cade dal cielo, non è prodotto che si compra al supermercato, ma strumento vitale che lega insieme un dopo auspicabile attraverso un durante solidale costruttivo, ecco dunque la radice profonda su cui poggia l’umanità, su cui dovrebbe poggiare il carcere, la pena, la riparazione.
Parlare di carcere è tema aspro, ostico, spesso confinato alla pancia, invece è auspicabile valorizzarne la speranza, perché soltanto chi è disperato n’è privo.
La speranza è dentro la fatica del passaggio, del tragitto, del confluire dentro la consapevolezza che occorre ri-partire dal riconoscimento dell’esigenza di giustizia che sale alta della sofferenza delle vittime, dei parenti della vittime, degli innocenti, di quelli che spesso sempre più spesso rimangono privati di una giustizia giusta.
Con l’esperienza ho compreso che soltanto da questo riconoscimento possono nascere e svilupparsi nuove opportunità di riscatto e riconciliazione da parte di chi il male l’ha commesso, unicamente da questo riconoscimento potrà nascere una possibilità di riparare al male fatto, in ogni conversione c’è necessità di riparazione, di sollievo e conforto e giustizia per chi ingiustamente ha ricevuto il dolore della sofferenza e della tragedia.

Vincenzo Andraous