Aspettando il referendum: ritirata delle Regioni?

Aspettando il referendum: ritirata delle Regioni?

di Gian Carlo Sacchi

 

Istruzione e formazione professionale furono le materie tra le più movimentate ai tempi delle leggi Bassanini circa il decentramento amministrativo dallo Stato verso gli enti territoriali. Da quel poco già indicato nel DPR 616/1977: assistenza scolastica e formazione professionale, ripreso dalla prima stesura della Costituzione, ad una massiccia delega alle Regioni, nel frattempo istituite, nella programmazione e gestione di un’ampia gamma di funzioni del servizio scolastico e formativo, per indicare la necessità che lo stato provveda a garantirlo, ma che siano le realtà territoriali a configurarlo: protezione dei diritti dei cittadini, conseguimento di obiettivi nazionali, da un lato, attenzione ai bisogni ed alle realtà locali dall’altro.

Dare spazio al governo dei territori fu un compromesso tra le anime del centro-sinistra, ma anche una comune volontà di favorire la partecipazione diretta dei cittadini stessi, togliendo allo stato “etico” le scelte di merito sulle diverse politiche, riservandogli le competenze relative alle indicazioni generali ed ai livelli essenziali delle prestazioni che nell’ultimo decennio del secolo scorso caratterizzarono tutti gli interventi legislativi: dalla riforma degli enti locali, a quella della pubblica amministrazione, per arrivare al decentramento e fino al nuovo titolo quinto della Costituzione del 2001, confermato, anche se secondo alcuni un po’ frettolosamente, da un referendum popolare.

Quel percorso non venne applicato: cambiò la maggioranza politica sia al governo nazionale che in diverse regioni, e mancando degli strumenti necessari diede origine ad un notevole contenzioso solo sui principi che oggi richiama gli elettori ad una controriforma e ad un referendum opposto, per tornare cioè al centralismo, causa la faragginosità di quella normativa. Un sistema che anziché creare armonia tra centro e periferia, in nome dell’allargamento dei suddetti principi democratici, aveva originato conflitti, nel bene e nel male, tra Stato e Regioni, arrivando a predicare strumentalmente il “federalismo devolutivo”, cosa che gli italiani respinsero con un nuovo pronunciamento.

L’Italia non è dunque la Germania rispetto al modello di governo, ma forse c’è chi crede che dovrebbe esserlo, in quanto un buon federalismo potrebbe essere educativo anche per responsabilizzare maggiormente quella politica che ha fatto del regionalismo un’occasione di sprechi e di malaffare, ma che anche prima e forse anche dopo continuerà nello stesso modo con il governo centrale. E’ un esempio per tutti il federalismo fiscale, introdotto nel 2009 ed oggi soggetto ad un tira e molla continuo tra quest’ultimo e gli enti locali, con una girandola di tasse che non offre riferimenti certi ai contribuenti. Cosa succederà al riguardo dopo la prossima consultazione referendaria ? Tutto è incluso nella nebuolsa del nuovo Senato.

L’elemento di svolta impresso da Bassanini fu la riorganizzazione dei compiti amministrativi, lasciando alla “conferenza stato-regioni” gli interventi di armonizzazione. Senza entrare in ambiti troppo dettagliati si coglie la volontà di mantenere statali l’indirizzo e il coordinamento delle attività, l’individuazione degli standard e le modalità di certificazione delle competenze. A Regioni ed Enti Locali vanno tutti gli aspetti della programmazione, sia in termini di strutture che di offerta formativa, in vista anche delle prerogative attribuite alle autonomie scolastiche, fino a far diventare regionali gli attuali istituti professionali. Ai comuni, come accade un po’ in tutta Europa, veniva affidata l’educazione degli adulti.

Nel D.Leg.vo 112/1998 furono poste le basi per la “competenza concorrente” che la passata riforma costituzionale aveva assegnato con priorità alle Regioni e l’introduzione di un nuovo canale sempre regionale riguardante “istruzione e formazione professionale” che avrebbe avuto l’ambizione di riunificare tutto il settore. La direzione sembrava segnata, anche se all’inizio del nuovo secolo si vide diminuire l’interesse per il cambiamento istituzionale, furono introdotte caratteristiche di privatizzazione del sistema e se ne orientò l’affidamento al mondo del lavoro. Il che consentì proprio per l’assenza di una rinnovata politica nazionale alle regioni di differenziarsi notevolmente anche rischiando atteggiamenti conflittuali tra di loro e rispetto alle disposizioni europee.

Quasi tutte ebbero a legiferare, dando origine non solo ad un inedito quanto significativo corpo giuridico, ma anche ad un modo più evoluto di interpretare le deleghe ricevute: dall’assistenza scolastica al diritto allo studio, dalla mera formazione professionale, ad un reinquadramento delle funzioni per offrire pari dignità alle offerte formative del territorio.

Una di loro che ebbe modo anche di affermare le proprie ragioni anche dinnanzi alla Corte Costituzionale, fu l’Emilia Romagna che emanò, tra le prime in Italia, una legge così detta di sistema all’insegna della piena assunzione di poteri e responsabilità nella gestione delle funzioni amministrative affidate, riproponendo tutti i temi in una nuova sintesi di governo del territorio (LR n 12/2003). Un pronunciamento senz’altro innovativo, anche se poi non tutto venne regolarmente applicato, anche perché non tutto quanto annunciato venne effettivamente decentrato: si pensi ad esempio alla grossa falla dell’educazione degli adulti, iniziata con un grande protagonismo sulla carta e finito con il compassato riconoscimento dei CPIA, una riforma che lo Stato propose in via residuale per continuare a garantire i tioli di studio alla popolazione adulta che ne facesse richiesta.

La spinta iniziale del regionalismo emiliano-romagnolo, sulla scorta di una lunga storia culturale e pedagogica, si era già un po’affievolita e l’ottica di sistema cedette su alcuni importanti fronti, ad esempio quello della chiamata in correo della regione per sostenere progetti di recupero della licenza media da parte di preadolescenti a rischio di abbandono e per poter far entrare nella formazione professionale con il possesso del titolo di studio. Fu la prima ad indicare, seguita da diverse altre, il “sistema integrato” come strumento di governo, tra istruzione e formazione professionale, tra pubblico e privato, specialmente nel settore dell’infanzia, tra le politiche formative e i servizi culturali, sociali, sanitari e sportivi del territorio. Si prepararono così le condizioni per un’effettiva riforma del governo di tutto il sistema a livello regionale, che però non avvenne mai completamente, come si è detto, ne in relazione al mancato decentramento, ne dietro la spinta di una inapplicata riforma costituzionale. E’ qui che si scatenò il contenzioso con la Suprema Corte, lasciando a tutti l’amaro in bocca, tranne a coloro che a livello centralistico hanno sempre bloccato ogni cambiamento in questa direzione e che oggi ci vengono a raccontare che ripristinare lo status quo ante è meglio che rischiare di disperdersi in mille rivoli, salvo non avere mai pensato ad una politica organica tra centro e periferia e dimenticando le motivazioni di un decennio di riforme in senso decentralistico. Ma quello che più sorprende è che chi ci vuole convincere di quest’ultima virata è la stessa maggioranza politica che ci aveva convinto del contrario, attribuendo al centro-destra un indirizzo di carattere privatistico.

L’Emilia-Romagna pensava allora alla generalizzazione della scuola dell’infanzia, alla continuità educativa ed agli istituti comprensivi, di assicurare il successo formativo anche rispetto all’occupazione contrastando l’abbandono, di sostenere le autonomie scolastiche viste nell’ottica del sistema delle autonomie territoriali, fino alla predetta integrazione tra l’istruzione professionale dello stato e la formazione professionale regionale, con annesse funzioni di riorientamento, il che consentiva nel biennio l’assolvimento dell’obbligo di istruzione e per il terzo anno la conquista di due titoli di studio, qualifiche statali e regionali, cosa che poneva le basi per il riconoscimento dei crediti e che continua ancora oggi su tutto il territorio nazionale a titolo sperimentale, proprio per mancanza di un’organica politica nel settore.

Si era arrivati a prevedere “Centri di Supporto e Consulenza” per la qualità del sistema stesso, che sono purtroppo rimasti sulla carta. I poli tecnici e gli istituti tecnici superiori hanno finalmente aperto una finestra sul fronte territoriale in rapporto con il mondo del lavoro. Qui per fortuna se ne ricava traccia in una legge nazionale (L.40/2007).

Del vecchio impianto è rimasto l’obbligo di frequentare almeno un anno di scuola superiore prima di accedere alla formazione professionale regionale, con le deroghe piuttosto consistenti, come si è detto, per chi non riesce a conseguire il diploma di licenza media. Addirittura la Regione aveva istituito vere e proprie scuole specializzate, di cui non vi è più traccia.

Venne considerato l’apprendimento per tutta la vita, anche per quanto riguarda le competenze non formali, tema oggi ripreso dalla legge 92/2012 che attraverso un’intesa stato-regioni del 2014 affida a queste ultime la governance del settore. Staremo a vedere se ci sarà una nuova iniziativa, per ora, come si è detto, anche l’Emilia-Romagna si è adagiata a sostenere i CPIA, nonostante nella sua legge fossero previsti ben tre articoli capaci di intervenire su tutto l’orizzonte delle opportunità formative per la popolazione adulta, compreso il finanziamento delle così dette università della terza età.

Il cambiamento dell’indirizzo politico che ci porterà al nuovo referendum inizia a prender corpo per effetto dell’abolizione delle province e della riorganizzazione/fusione dei comuni con le relative competenze che hanno riempito lo spazio del decentramento/autonomia. Anche l’Emilia-Romagna ha legiferato in tale ambito (lr n.15/2015),cercando di ridefinire l’assetto delle funzioni qui considerate, limitandosi perlopiù ad “indirizzi” di programmazione, quasi che avendo percepito l’aria che tira non sia il caso di rivendicare tanti spazi di azione politica, ponendo la regione già in una posizione esecutiva o superflua, solo appunto per indirizzi, magari già preconizzando quella caratteristica di “area vasta” che potrà restare a loro dopo l’abolizione delle province. Praticamente si tornano a ripercorrere le varie materie indicate nella legge 12, ma con un atteggiamento più soft, da delega ex provinciale, quasi a non disturbare il ritorno di un centralismo statale, che in maniera non troppo nascosta è condiviso, che manterrà ben salde le funzioni amministrative.

Sembra di percepire un atteggiamento autoriduttivo ante litteram, prima ancora cioè che un risultato affermativo del referendum lo confermi. E se lo dice l’Emilia-Romagna c’è da crederci; per questo è tornata ad essere la mosca cocchiera, in passato alla ricerca di nuove prospettive politiche e istituzionali, ora come simbolo dell’accondiscendenza con il potere centrale. Per fortuna le competenze di province e comuni sono stabilite in primis da una legge nazionale (L. 23/1996).

Contente saranno quelle regioni che non avevano fatto alcuna legge specifica, ma si sono limitate ad applicare deleghe; sarà questo il futuro per tutte, a scapito della capacità legislativa ?

E’ una pagina, quella del così detto primato del territorio, che rischia di chiudersi per sempre, con il suggello del popolo. Il referendum infatti pone due questioni importanti e contrapposte: la diminuzione dei costi della politica e il ritorno al centralismo statalista. E’ difficile in questo modo prendere due piccioni con una fava, ammesso che questa classe politica ci creda veramente nella democrazia.