NO al Referendum Costituzionale

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La riforma della Costituzione rappresenta un momento cruciale per il mondo del lavoro: da una parte la sua approvazione segnerebbe un passaggio chiave nella progressiva subordinazione dei diritti dei lavoratori al profitto privato; al contrario, la vittoria del “NO”, che arriverebbe dopo la sconfitta di Renzi alle amministrative e il voto inglese sulla Brexit,  travolgerebbe gli equilibri di potere esistenti e aprirebbe spazi di iniziativa politica nei quali le soggettività organizzate dei lavoratori potrebbero inserirsi con forza. Considerazioni analoghe valgono per la scuola: la torsione “esecutiva” delle istituzioni voluta da Renzi e Boschi con lo smantellamento della Costituzione repubblicana risponde alla stessa logica della “Buona scuola”, adeguare la scuola a un modello verticistico, aziendalistico e piegato alle necessità delle imprese: chiamata diretta degli insegnanti da parte di dirigenti con potere discrezionale di decidere chi lavorerà, chi sarà premiato perché giudicato meritevole e chi no; lavoro non pagato imposto agli studenti sotto forma di alternanza scuola lavoro, sono tutti meccanismi che entrano in palese conflitto con l’eminente funzione di promozione sociale assegnata all’istruzione da parte della Costituzione del ‘48. Contro questi orientamenti è necessaria una presa di posizione ferma da parte del mondo del lavoro e in particolare del sindacalismo conflittuale. Appaiono inaccettabili le posizioni dei sindacati concertativi, con la Cisl schierata in favore del Sì al referendum e le ambiguità della Cgil, intrappolata nel collateralismo nei confronti del PD e incapace di schierarsi in modo chiaro per il No. USB, che fa parte del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, ha individuato con chiarezza il nesso organico tra riforma costituzionale e attacco ai diritti del lavoro, con l’approvazione all’unanimità da parte del Coordinamento nazionale confederale del 6 febbraio di un documento nel  quale si ribadisce l’impegno da parte del nostro sindacato a sostenere il No. Sappiamo che in questa battaglia abbiamo buoni argomenti da sostenere e diffondere:

1. Veri conservatori sono i favorevoli al sì…

occorre innanzitutto rovesciare il senso comune che è stato costruito in questi mesi dalla propaganda del Governo, amplificata dagli organi di comunicazione compiacenti per cui “conservatore” è  chi si oppone alla riforma. È vero piuttosto il contrario: conservatore è chi vuole mantenere in essere gli equilibri di potere e gli assetti sociali vigenti, veri conservatori sono allora i fautori di una riforma che sbilancia l’equilibrio tra i poteri a netto vantaggio dell’esecutivo e consegna ai governi la possibilità di procedere indisturbati nell’applicazione di politiche di “austerità” basate sui tagli allo stato sociale – e quindi sulla redistribuzione della ricchezza dal lavoro al profitto – che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. Si tratta di un passaggio politico tipicamente “gattopardesco”: all’apparenza cambiare tutto per consolidare la posizione del dominante.

2. … che vogliono l’iperstabilizzazione dell’esecutivo

In sostanza lo sbilanciamento dei poteri in favore dell’esecutivo (alcuni costituzionalisti hanno parlato di un “premierato assoluto”) si produce attraverso vari dispositivi: con la fine del bicameralismo perfetto sarà solo la Camera dei deputati e non più anche il Senato a votare la fiducia al Governo;  il combinato disposto della riforma e della nuova legge elettorale (il cosiddetto “Italicum”) assicurerebbe al partito di maggioranza relativa, anche se risultasse votato da una minoranza esigua degli aventi diritto al voto, la possibilità di governare senza impedimenti. Vengono ampliate le prerogative del Governo che può chiedere alle Camere la votazione prioritaria dei disegni di legge dichiarati essenziali per l’attuazione del programma; le modalità di elezione degli organi di garanzia, primi fra tutti Presidente della Repubblica e membri della Corte costituzionale, subiscono un’alterazione a vantaggio della maggioranza politica espressione del Governo. Insomma, la nuova Costituzione ridurrebbe gli spazi di partecipazione democratica dei cittadini e dei lavoratori, per disegnare istituzioni ritagliate a uso e consumo delle oligarchie dominanti di turno.

3. Una Repubblica fondata non più sul lavoro, ma sul mercato…

Non siamo di fronte ad una riforma puramente “tecnica” che modifica esclusivamente la seconda parte della Costituzione; occorre riconoscere che la riforma interessa in realtà anche la prima parte della Costituzione, i cosiddetti “Principi fondamentali”, a partire proprio dall’art. 1 che definisce la Repubblica “fondata sul lavoro”. È questo il reale obiettivo: l’iperstabilizzazione del Governo serve a blindare le politiche di progressivo smantellamento dei diritti dei lavoratori, che vengono considerati un intralcio rispetto all’efficienza dei mercati. Basti pensare alla lettera inviata al Governo italiano allora in carica dal Presidente della BCE Jean Claude Trichet e dal suo successore designato Mario Draghi nell’agosto 2011, che imponeva all’Italia una serie di politiche ultraliberiste: tagli allo stato sociale (colpendo in particolare le pensioni), privatizzazioni dei servizi pubblici, destrutturazione della legislazione sul lavoro e dei contratti collettivi nazionali, al fine di «ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende.

La lettera rivelava esplicitamente l’ideologia fondativa dell’Unione Europea, vale a dire rendere i diritti dei lavoratori una semplice variabile dipendente dei profitti privati, in questo senso non potevano essere pronunciate parole più chiare di quelle sopra riportate:  «ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende». I diktat imposti dalla Banca Centrale Europea hanno di fatto dettato i programmi dei Governi italiani che si sono da allora succeduti (Monti, Letta, Renzi), i quali non hanno fatto nient’altro se non eseguire gli ordini attraverso le principali “riforme” emanate: legge Fornero sulle pensioni, Jobs Act, “Buona” scuola. Ora tocca alla Costituzione, perché come esplicitamente affermato dalla Banca d’affari JP Morgan nel rapporto del 28 maggio 2013, intitolato “Aggiustamenti nell’area euro”, “I problemi economici dell’Europa sono dovuti al fatto che i sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. (…)«I sistemi politici e costituzionali del Sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori». Insomma, JP Morgan invita l’Italia a sbarazzarsi della Costituzione nata dalla Resistenza antifascista perché tutela i diritti dei lavoratori e quindi è di intralcio per l’efficienza dei mercati: più chiaro di così…

D’altronde, per avere conferma del fatto che la riforma costituzionale sia caldeggiata principalmente dai potentati economici basta guardare all’atteggiamento di Confindustria,  che, con il suo Presidente Francesco Boccia, ha più volte ribadito il suo appoggio al Sì, in quanto «la stabilità e la governabilità sono nel DNA di Confindustria», contribuendo ad alimentare una campagna propagandistica basata sulla paura, paventando una caduta del PIL del 4% in caso di vittoria del No, lennesimo tentativo di strumentalizzare la paura della crisi economica per condizionare e manipolare l’opinione pubblica dei cittadini.

Per queste ragioni USB SCUOLA ribadisce il massimo impegno dell’organizzazione e dei suoi militanti per il NO al Referendum Costituzionale e invita i lavoratori della scuola alla più ampia partecipazione alle iniziative organizzate per la campagna referendaria.

La battaglia contro la demolizione della Costituzione e dei diritti del lavoro oggi si può vincere: e la vittoria del No potrà significare l’inizio di un nuovo ciclo di lotte sociali.