La risposta a Tiriticco

La risposta a Tiriticco

di Tullio De Mauro

 

Caro Maurizio,

hai ragione a denunciarmi e chiamarmi in causa dinanzi al tribunale dell’amicizia. Ma ai giurati cercherò di dire: ognuno si azzoppa come capita. Io, signori giurati, mi azzoppo accettando troppi impegni. Così, a parte qualche problema famigliare che qui non voglio metter davanti a scusante, vedete la mia agenda, vedete i fogli dove annoto i lavori da fare, le mail cui rispondere, guardate anche i lavori smaltiti negli ultimi mesi, e capirete come e perché il lungo silenzio di un amico caro e poi finalmente la sua riapparizione, in cui mi dava notizia del suo azzoppamento, siano cose rimaste senza una mia apparente reazione. La reazione c’era, in realtà, ma solo mentale ed emotiva, senza che si manifestasse in cenni scritti o orali.

E anche ora, mannaggia, signori giurati, Maurizio mi pone problemi intorno a cui si arrovellano da cinquanta anni e più una parte dei miei lavori di studio e due, tre, anzi almeno quattro libri di apparenza diversa, ma che al fondo, ma anche in superficie, tematizzano proprio le questioni che lo arrovellano, e arrovellano anche me, e dovrei rispondergli con una lettera di pari spessore, ma… Voi, che avete accesso al mio pc e alla mia agenda, vedrete che devo finire uno dietro l’altro prima della prossima settimana tre o quattro diversi lavori, forse insignificanti, ma impegnativi per me, impegnativi, come Gramsci insegnava, anche fisicamente, muscolarmente.

E il tempo per scrivere queste righe lo sto sottraendo a una cosa che devo assolutamente finire in serata, per mandarla a un amico a Tokyo, che deve tradurla appunto entro la prossima settimana. E, guarda caso, parlandosi di Italia linguistica nell’Europa linguistica, sfiora proprio i problemi di Maurizio.

Signori giurati, facciamo così: prima di condannarmi per inadempienza amicale, reato che considero gravissimo, datemi un altro po’ di tempo per rispondere adeguatamente al mio Amico Azzoppato. Consentitemi di dire che io sono d’accordo con quello che dice, ma non sono d’accordo, se così posso dire, con quello che non dice, ossia per quello che tace. E quel che lui tace non è in contrasto con quanto lui dice, è in contrasto con le cose di cui lui dice; è una sequela di contraddizioni oggettive che tessono la storia del nostro Paese, del Paese che, attenzione, è già un signum contraddictionis; lo chiamiamo ininterrottamente Italia dal terzo secolo avanti Cristo. Solo per qualche decennio provarono a chiamarlo Longobardia, ma poi non più. Come mai? Come mai gli abitanti si sono chiamati per secoli in tanti modi diversi prima di cominciare a sentirsi chiamare italiani dagli intellettuali, che avevano sì una lingua comune, ma facevano giri di parole per non chiamarla italiana? E però la usavano, a costo di non farsi capire. Sicuro? Quasi sicuro, perché poi come mai i poveracci delle little Italies sparsi per il mondo (con i loro discendenti di seconda, terza generazione, 60 milioni, un’altra Italia) piazzavano, loro che intellettuali non erano, tra un salame importato di contrabbando e un pacco di pasta Voiello, un busto bruttissimo di Dante? Allora qualcosa arrivava? Domande. Domande di uno scrivente affannato al caro Maurizio. Un abbraccio, già da ora, Tullio

P.S. Per far prima, non rileggo e ti lascio i sadici piaceri dell’antico correttore di bozze che tu sei (e anch’io! fui).