E. Rasy, L’estranea

Un altro esempio di donna forte

di Antonio Stanca

La romana Elisabetta Rasy ha sessantanove anni e da quando ne aveva venti, da quando era all’Università, ha cominciato a scrivere per giornali e riviste. Seriamente impegnata è stata fin da giovane nella difesa dei diritti delle donne, accesa femminista si è dimostrata. Negli anni ’70, insieme ad altre intellettuali, aveva fondato a Roma la casa editrice Edizioni delle Donne, presieduta da Dacia Maraini, e d’allora aveva iniziato quella collaborazione con la televisione e la radio che sarebbe durata fino a tempi recenti. L’attività giornalistica degli inizi sarebbe stata continuata presso quotidiani quali “Paese Sera”, “La Stampa”, “Corriere della Sera”, “Il Sole 24 Ore” e periodici quali “L’Espresso” e “Panorama”.

Sempre presente avrebbe voluto essere, sempre si sarebbe interessata a quanto avveniva in ambito culturale, letterario, artistico, civile, sociale, in particolare a quanto succedeva circa la posizione della donna nel contesto contemporaneo. Sia come giornalista sia come critica d’arte, come saggista, la Rasy avrebbe dedicato molta della sua attenzione alle donne. Avrebbe trattato di quelle donne che nel corso del XX secolo si erano dedicate all’attività della scrittura in Italia e all’estero, avrebbe indagato nelle loro opere e nella loro vita. Di figure note e meno note, di scrittrici e pittrici avrebbe scritto ché importante per la Rasy era dimostrare le grandi potenzialità possedute dalle donne, ricavare dai casi presentati una serie di esempi che confermassero tale sua convinzione. Sono stati questi i propositi che l’hanno resa instancabile, inarrestabile nella sua attività compresa quella di scrittrice. Questa ebbe inizio nel 1985 con il romanzo La prima estasi e sarebbe continuata fino ai giorni nostri con altri romanzi e racconti che le avrebbero procurato molti riconoscimenti. Alcuni sarebbero stati tradotti in lingue straniere.

Come narratrice la Rasy si mostra incline al genere autobiografico, tende a dire di sé, della sua vita, della sua famiglia, delle sue esperienze. Anche ne L’estranea, romanzo pubblicato la prima volta nel 2007 presso la casa editrice Rizzoli di Milano ed ora ristampato per conto della stessa Rizzoli nella serie BUR, la Rasy dice di sé, stavolta dell’assistenza prestata alla madre durante gli ultimi tempi della sua vita e dopo che si era saputo della sua grave malattia. Era stato un periodo durato dagli anni ’90 al 2000 e tra gli altri della famiglia era stata lei a rimanere sola vicino alla madre ammalata, ad assistere alla lenta, graduale, inesorabile, inevitabile trasformazione del suo volto, del suo corpo, del suo sguardo, dei suoi gesti, della sua voce.

Era stata una bella donna la madre della Rasy e tale era rimasta fino a ottant’anni. La sua bellezza aveva resistito ai disagi, alle paure che la seconda guerra mondiale aveva seminato ovunque, ai gravi problemi, alle sofferenze che la situazione familiare le aveva procurato. Ne era uscita indenne, era rimasta una donna altera, sicura di sé, ordinata nelle sue cose, decisa nelle sue volontà, ardita nelle sue ambizioni. Neanche la scoperta della grave malattia le aveva fatto rinunciare a quanto era stato sempre suo, del suo carattere, della sua figura. Molte saranno, pertanto, le difficoltà che la figlia Elisabetta incontrerà nell’accudire una madre che, pur sapendo di essere gravemente ammalata, non intende adattarsi a questa situazione perché significherebbe dover rinunciare a quel sistema che si era formato dentro e fuori di lei, ai pensieri, alle azioni che sempre avevano fatto parte della sua mente, del suo corpo. Con una madre malata che non vuole curarsi si troverà Elisabetta, con una malata che non intende conoscere ambulatori, centri diagnostici, ospedali, che non accetta di vedersi circondata da medici, infermieri perché li ritiene estranei alla sua vita di sempre.

Gravi diventeranno le incomprensioni tra madre e figlia ma succederà pure che col tempo, con l’aggravarsi della malattia, con la comparsa sempre più frequente dei segnali, dei disturbi ad essa collegati, l’anziana donna si convinca della necessità di visite specialistiche, controlli periodici, cure e degenze in ospedale. Mai, tuttavia, rinuncerà a sé stessa, alla sua maniera di porsi, di esigere. Non lo farà neanche nei momenti di maggiore sofferenza. E così fino alla fine che per Elisabetta non sarà una liberazione ma un dolore che si aggiungeva a quello delle tante altre cose della sua vita che aveva perso perché ormai passate. Di queste dice pure nel romanzo, continuamente la narrazione si sposta dal passato al presente, da quando era una bambina felice, una ragazza, una giovane piena di speranze, di sogni, da quando viveva in famiglia tra Roma e Napoli, dove c’era la casa paterna, dai tempi, dai luoghi, dalle persone di allora, da quando nessuna ombra sembrava potesse oscurare i suoi pensieri, ad ora che la malattia e la morte della madre l’avevano fatta accorgere di quant’altro, insieme a lei, aveva perso della sua vita. Di quella vita che improvvisamente, inaspettatamente era ricomparsa a riempire i suoi pensieri, ad aggravare il suo dolore.

Abile è stata la Rasy nel fare del suo stato d’animo il motivo principale dell’opera e della madre che muore un altro esempio di quella donna forte nella quale ha sempre creduto. Stavolta il confronto era con la morte ma neanche questa ha spaventato quella donna.