Torna la Buona Scuola tra Governo e Parlamento

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Torna la Buona Scuola tra Governo e Parlamento

di Gian Carlo Sacchi

 

E’ quasi un adempimento di routine da parte di un neoministro presentarsi alle commissioni parlamentari di riferimento per esporre il programma di governo. Ed è quanto accaduto di recente alla Ministra Fedeli davanti alle settime commissioni di Camera e Senato. Perché questa deve essere una notizia ? Basti guardare il testo dell’intervento: un elenco ponderoso di questioni, tutte urgenti, che dall’inizio dell’anno attendono di dispiegare la loro efficacia, soprattutto se si pensa alle tante deleghe ancora in sospeso dalla legge sulla buona scuola, ed il contesto socio-politico, che non appare per nulla rassicurante, non solo dopo l’esito del referendum, ma anche nell’ipotesi di un periodo di instabilità che prelude ad elezioni anticipate.

Occorre dare atto alla Ministra di aver accelerato l’andatura nel suo governo e di aver cercato di rianimare i provvedimenti con parole prese dal linguaggio educativo e sociale che sembrava essere stato sopraffatto dal managerialismo tecnocratico.

Partecipazione, condivisione, trasparenza, gli imperativi dell’azione ministeriale; mettere al centro gli studenti, introdurre la cultura dello sviluppo sostenibile, combattere la povertà educativa, permettere ai nostri giovani di ritrovare fiducia nel sistema scolastico e formativo, ma i decreti presentati alle camere non sono stati redatti seguendo percorsi partecipati e condivisi (ricordiamo le commissioni pluraliste incaricate di elaborare o applicare le riforme), non certo trasparenti sono i bandi rivolti alle scuole per i finanziamenti.

Il ministero ascolta tutti, dialoga con coloro che rappresentano il mondo della scuola, cioè chi ha titolo a rappresentarlo, ma la legge 107 è stata approvata con un voto di fiducia ed i suddetti decreti sono arrivati in parlamento già confezionati: otto testi da esaminare in tempi rapidissimi. E questa è la seconda parte dell’intervento, quella che si pone in continuità con il governo precedente.

Si vuole riconoscere il lavoro dei docenti, dirigenti e di tutto il personale….motivandoli e valorizzandoli nell’esercizio dell’autonomia e della responsabilità del proprio ruolo professionale, riconoscendo loro un prestigio sociale dimenticato. Per autonomia però non si sa cosa intendere, la responsabilità supponiamo faccia entrare in gioco il sistema nazionale di valutazione, viene fatto un fugace seppur speranzoso accenno al contratto. L’intesa raggiunta sulla mobilità però toglie di mezzo la continuità didattica, uno dei capisaldi della legge 107, se si pensa soprattutto agli insegnanti di sostegno, oltre non assicurare stabilità al sistema. Se si considera il caos generato dalle assegnazioni “algoritmiche” dello scorso anno, si può immaginare che cosa succederà alla ricerca di sedi più comode.

Per quanto riguarda le risorse economiche solo alcuni numeri, la politica dei bonus ed un richiamo ad investire di più, come se fossero gli altri (schoolbonus) a doverci pensare.

La chiamata all’unità del Paese sul valore del sapere e della conoscenza non poteva che essere la chiusa della parte dei grandi principi, che sarà difficile raggiungere con il coinvolgimento delle sole scuole e che richiederebbe, come è stato detto da varie parti, una discontinuità con la legge delega.

Insomma fa notizia il fatto che tra i grandi obiettivi e le scelte concrete, vedremo quali spazi di manovra ci saranno veramente a seguito delle audizioni, non vi sia coerenza. Da una parte si vuole confermare  l’impianto della buona scuola, e, dall’altra, si cerca un accomodamento con i docenti e i sindacati, visto com’è andato il referendum e ad esorcizzare prevedibili risultati elettorali.

Ci si sarebbe aspettato uno sguardo alla governance del sistema, a livello centrale e territoriale, cosa su cui si tace completamente: dei rapporti con l’esterno c’è soltanto l’alternanza scuola-azienda, che non può essere l’unica modalità per valorizzare i crediti formativi, se non si vuole che sia il lavoro, che poi non c’è, l’unica ragione per cui valga la pena studiare. Così come non si dice nulla sull’educazione degli adulti che è l’altra faccia della medaglia di un efficace rapporto fra formazione e territorio per tutta la vita.

Il dibattito in commissione ha spesso riportato il discorso sulle esigenze delle realtà locali, che più evidenziano anche il rapporto tra pubblico e privato, non solo per far giungere richieste risolvibili a livello centrale, ma per indicare il territorio come un elemento decisivo per la capacità del sistema di superare i divari sociali e culturali dei contesti e garantire così il diritto allo studio per tutti: lo Stato deve prevedere le risorse e gli organismi territoriali le devono amministrare, insieme ad altre reperite in loco. Anche la validità dell’anno scolastico deve tornare ad essere una questione locale, senza che poi di fronte ad emergenze reali si debbano trovare escamotages per derogare dagli obblighi di frequenza.

Per combattere la dispersione scolastica non si può far leva solo sull’ingresso precoce nel mondo del lavoro, ma ci sono altre modalità, magari le reti di adulti/educatori in determinate realtà sono indicate per l’accompagnamento degli adolescenti e la prevenzione della devianza e delle dipendenze, in modo che sia possibile, ha detto la Ministra, esercitare la funzione educativa come responsabilità sociale.

Come si è detto le scuole da sole non bastano, men che meno se esse rappresentano il canale terminale dello stato dal quale dipendono completamente. Non dobbiamo più fare gli italiani ipotizzati da D’Azeglio, ma bisogna sostenere la loro crescita, in base al mutamento della società: pur essendo una parte del sistema nazionale la scuola è soprattutto il “presidio pedagogico del territorio”. Su questo la Ministra non ha detto nulla, nessun decreto è stato predisposto per la revisione degli organi collegiali, di cui tutti sentono la necessità; l’autogoverno delle scuole e la loro rappresentanza nelle varie reti di servizi territoriali costituiscono il punto di ripartenza per il miglioramento delle relazioni sociali e culturali del Paese. Sono le reti/associazioni di scuole, non quelle previste dalla 107 e costituite dagli USR, gli interlocutori dell’amministrazione scolastica, la quale potrebbe risparmiare qualche ufficio periferico, portando a termine il decentramento iniziato nel lontano 1998 ma ahimè dimenticato.

E’ qui, sull’autonomia, che la Ministra avrebbe dovuto dire parole chiare, su come realizzarla, invece la citazione rimane marginale come nella legge che ne prevede lo sviluppo fino ai confini definiti dall’amministrazione.

Scuole aperte, palestre dove ci sono, come luoghi di aggregazione non possono essere oggetto del solito bando ministeriale: se ci sono soldi si distribuiscano ai territori e se non ci sono le si lasci operare autonomamente dando la possibilità di partecipare ad associazioni, reti o altre modalità che possano consentire di reperire anche altre risorse, magari togliendo questi servizi dal patto di stabilità cui sono sottoposti gli enti locali.

Istituti scolastici, università, amministrazioni locali possono lavorare insieme per progettare e realizzare lo sviluppo del territorio stesso: poli tecnico-professionali, adozione di emergenze artistiche e naturali, educazione allo sviluppo sostenibile a partire dalle caratteristiche delle diverse comunità e dai propri bisogni formativi. Edilizia scolastica, sicurezza, tutte questioni che non si risolvono in un sistema centralistico; si dovrà definire anche il destino delle superiori in seguito all’agonia delle province avviata dalle legge Delrio. Le scuole sono un organismo vivo, hanno bisogno, come si è detto, di rapporti con realtà amministrative e sociali immersi nel cambiamento delle comunità, non possono essere lasciate languire in enti dismessi.

L’innovazione non può soggiacere ai bandi, essi andranno superati anche nella formazione professionale e nei servizi per l’infanzia dove le regioni per questioni di stabilità del servizio vanno preferendo la logica dell’accreditamento, non solo per quanto riguarda soggetti privati. Occorre un’azione di sistema, si tratta di una “competenze concorrente”. Così anche il diritto allo studio dovrebbe interessare i “livelli essenziali delle prestazioni”, come per la sanità si parla  di “livelli essenziali di assistenza”, per arrivare a fabbisogni e costi standard.

Dai lavori delle commissioni parlamentari, in relazione all’audizione della rappresentante del governo, si ricava un atteggiamento contraddittorio, che mostra come la soluzione dei problemi venga influenzata dalle modalità di governo del sistema. L’imperativo della legge 107 infatti è quello dell’azione centralistica: la qualità della scuola dipende dalla regìa amministrativa, mentre essa sarà veramente buona se saprà crescere al suo interno ma anche contribuire a sviluppare sul suo territorio il senso di comunità, che vuol dire anche efficienza, ma soprattutto partecipazione e condivisione, come si vorrebbe far credere, cosa che si vede rappresentata da coloro che sentono alle spalle una domanda di servizi con coloriture sociali ed educative. E’ un’esperienza che ancora una volta mette in evidenza un ruolo di sistema dello stato centrale nel garantire i suoi impegni per le scuole della Repubblica, le quali però per realizzare gli obiettivi culturali e pedagogici, che pur si riferiscono a standard nazionali, devono poter avere mano libera per potersi immergere nei fabbisogni del territorio. Ad una vera autonomia può corrispondere un’efficace valutazione ed una politica di merito e di premialità.