Titolo quinto indietro tutta

Titolo quinto indietro tutta

di Gian Carlo Sacchi

 

L’esito contrario alla riforma del titolo quinto della Costituzione Renzi-Boschi, espresso con il referendum dello scorso dicembre, ha cancellato l’impronta di un nuovo accentramento dei poteri e dovrebbe riprendere la trafila della precedente, invece confermata nel 2001, ma fin qui mai applicata completamente. E’ stato rilevato più volte che il tanto vituperato conflitto tra Stato e Regioni è passato per le mani della Corte Costituzionale la quale ha dovuto colmare un vuoto legislativo e soprattutto la “competenze concorrente” si è rivelata confusa proprio perché non avendo posto mano alla modifica delle prerogative dello Stato ed avendone decentrate alcune alle Regioni, anziché coordinarsi nell’ottica della sussidiarietà, di fatto si sono sovrapposti e quindi entrati in collisione.

La bocciatura popolare dovrebbe aver posto fine a manie neocentralistiche di potere mantenendo la tendenza decentralista di governo dei territori avviata nei trascorsi anni settanta . Certo si può pensare che all’atto pratico un passaggio così imponente a regioni ed enti locali avrebbe potuto creare una certa frammentazione nella governance su materie che dovevano essere coordinate a livello nazionale, disagio dovuto, come si è detto, alla mancata riorganizzazione di ciò che doveva fare lo stato, che non doveva mantenere la gestione dei vari processi, ma semplicemente l’indirizzo, il coordinamento e la valutazione.

A distanza di sei mesi dalla consultazione sembra che tutto sia tornato nella palude; le regioni hanno riassunto, con posizioni davvero blande, in altrettanti documenti la situazione sui diversi temi, suffragata dalle sentenze dall’alta Corte, ma lo Stato continua a fare finta di nulla, mantenendo l’atteggiamento di chi avrebbe dovuto tornare al pieno controllo della legislazione, togliendo di mezzo in primis le suddette competenze concorrenti. Le leggi approvate prima del referendum non sono cambiate, ma hanno imposto un cambiamento alle regioni, anziché ricercarne l’intesa. Si pensi al Job act che ha partorito l’ANPAL, un’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, cosa che ha provocato nuovi accordi con le regioni ad esempio sui centri per l’impiego che in passato non prevedevano la presenza diretta dello stato. Ed anche sulla buona scuola il soggetto è l’amministrazione scolastica, le scuole autonome sono il terminale territoriale, ed anche se nella legge 107/2015 si dice di voler completare la loro autonomia, non si passano maggiori competenze, com’era iniziato nel 1997 con le leggi Bassanini, ma ci si mantiene ancorati a quell’autonomia “funzionale” che prevedeva di fatto una delega da parte dello stato stesso.

Si può continuare a sostenere che la variabile regionale può indurre ritardi nei procedimenti, o che nelle regioni siano successe quali nefandezze, ma in primis perché lo stato non fa il suo mestiere e cioè quello di definire dei livelli essenziali delle prestazioni, di indicare le norme generali che devono indirizzare il servizio, i requisiti degli operatori ed i parametri di valutazione. Se questi elementi sono presenti nel servizio sanitario potrebbero anche stare in quello scolastico: possono essere definiti a livello nazionale i requisiti della professione medica, come quelli per l’insegnamento, ma non si potrà contestare alle regioni di scegliere il personale delle ASL o come costruire l’organico (almeno quello di potenziamento) delle scuole. E se il pericolo del decentramento è il malaffare ci sono la magistratura e il controllo sociale sul territorio, ma non si dica che il caso degli acquisti centralizzati della pubblica amministrazione dia maggiori garanzie. Per quanto riguarda poi l’efficienza ci sono strumenti di valutazione ad hoc e la competitività tra regioni potrebbe pure essere un vantaggio.

Non si tratta tanto di privatizzare i servizi, cosa che ingolosisce sempre di più molti amministratori, a beneficio magari delle cooperative, sulle quali bisognerebbe aprire una parentesi, come stanno tentando di fare i decreti applicativi della nuova legge sul welfare, ma di valorizzare il buon governo degli enti locali, anche attraverso una loro riorganizzazione, come ha previsto la legge Delrio. La spending review negli enti periferici è stata realizzata in misura superiore ai ministeri centrali e lo stato però ha continuato a decurtare le risorse finanziarie indirizzate ai territori. E del “federalismo fiscale” che ne è stato ? Si sono fatte prove tecniche, ma di fatto non si è realizzato quel “finanziamento multilivello” che il sistema delle autonomie territoriali, al quale appartiene anche quello scolastico, avrebbe potuto realizzare per mantenere l’ equilibrio finanziario dei servizi locali. I sindaci sanno come si sono potuti chiudere i bilanci (triennali) dei comuni dopo che il governo centrale oltre al taglio dei trasferimenti ha bloccato anche le loro principali leve fiscali. Si pensi all’aggravio di costi per l’utenza e alla diminuzione degli interventi per il diritto allo studio, oltre al calo ad esempio delle domande nei servizi per l’infanzia dovuta alla crisi economica delle famiglie.

La sovranità statale, osserva Sabino Cassese, è condivisa in quanto i poteri statali vengono ridefiniti, divisi, riallocati, con un’azione comune di responsabilità. Il buon governo dunque non sta nell’efficientismo tecnocratico, ma nella espressione democratica di una comunità per la quale i servizi educativi non sono capitolati di appalto, ma la prova della maturità e della volontà di crescita e sviluppo.

Da dove ripartiamo ? Dal territorio, per cementare la coesione sociale e il dialogo interculturale, oggi che le problematiche migratorie non viaggiano solo sui binari dell’accoglienza, ma su quelli dell’integrazione e della cittadinanza.

Si tratta di tornare sull’art.117 della Costituzione del 2001, attualmente in vigore, che richiama chiaramente la potestà legislativa di Stato e Regioni: competenze esclusive e concorrenti, cosa ben lontana dall’impostazione della legge 107 e dai “pareri” espressi dalla Conferenza Unificata; alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni e/o degli standard sui quali peraltro impostare la valutazione di sistema, alle norme generali sull’istruzione. Sappiamo che “fatta salva l’autonomia delle scuole” non porta molto più in là, dato il contenuto di un tale principio di cui si è detto in precedenza.

Ulteriori forme di autonomia, dice l’art. 116, in particolari condizioni, possono essere attribuite alle regioni, non solo a quelle a statuto speciale, con legge dello stato. Questo percorso, che non ha ancora avuto un esito legislativo, è comunque partito attraverso intese non solo per il Trentino Alto Adige, ma anche in Lombardia.

La mancata approvazione del “senato federale” ha fatto venir meno il raccordo tra stato, regioni ed enti locali a livello legislativo, mantenendo le “conferenze” per quanto riguarda quello amministrativo. Si potrebbero coinvolgere direttamente le autonomie territoriali nel procedimento di costruzione delle leggi, per diminuire anche il contenzioso, suggerisce la Commissione Parlamentare per le questioni regionali (2017). Gli fa eco la Conferenza delle Regioni indicando la partecipazione delle predette autonomie alla citata commissione parlamentare.

Un tentativo di applicazione dell’art. 117 e della conseguente legge costituzionale è stato presentato nel 2010 dalla senatrice Bastico e dal senatore Calderoli per intervenire sulle funzioni fondamentali degli enti locali, tra le quali figura quella dell’istruzione. Non se ne è fatto nulla, ma si potrebbe riprendere tenuto conto della legge sul federalismo fiscale (2009) e della legge Delrio (2014) che rimodella il ruolo delle Province e l’unione/fusione dei comuni per intervenire fra l’altro sulla programmazione della rete scolastica.

In questo intricato ma non impossibile quadro legislativo, si inserisce la regione Veneto con una legge sul “sistema educativo”. L’orientamento politico è quello di far pendere a favore della regione il quadro delle materie concorrenti, il che era già stato oggetto assieme alla Puglia di un ricorso alla Corte Costituzionale sulla buona scuola.

Dal punto di vista del governo la regione si candida ad un coordinamento istituzionale integrato e non gerarchico di tutti i soggetti che partecipano a vario titolo alle azioni di risposta alle domande educative della società. L’aspetto più importante sul quale vuole intervenire è il sottosistema istruzione e formazione professionale per farne un modello di scuola regionale, il quale prevede una pluralità di azioni formative di diversa durata e articolazione al termine dei quali si rilasciano certificazioni e riconoscimento dei crediti. Attorno a questi ruotano percorsi flessibili per il conseguimento del diploma di licenza media per i soggetti a rischio di dispersione, cercando di aggirare l’obbligo decennale di istruzione e le attività per gli adulti limitata alla dimensione professionale. In questo settore vuole essere la regione a fornire indicazioni per i piani di studio, un repertorio regionale di standard professionali e formativi, nonché gli obiettivi specifici di apprendimento.

La quota regionale dei curricoli del sistema di istruzione individua gli aspetti di interesse territoriale, promuovendo la specificità e le tradizioni delle comunità locali e valorizzando le autonomie delle unità scolastiche. Un’azione a mezzo fra la Lombardia che regolamenta la quota regionale e l’Emilia Romagna che la devolve interamente alle scuole.

Si parla di standard per la qualità del servizio, dei requisiti per il personale e la sua formazione. I titoli sempre relativi al settore sono: qualifica e diploma professionale. Intese con il MIUR vengono richiamate, in quanto già in atto, per indicare il rapporto tra scuole e centri di formazione professionale circa le modalità di arrivare ai predetti risultati finali.

Il consiglio dei ministri non ha impugnato la legge, ma ne ha chiesto modifiche, che la regione ha promesso. Un percorso inusuale, che farà parte del pragmatismo dialogante introdotto dalla ministra Fedeli. La regione sventola l’obiettivo politico della non impugnativa e il miur richiede modifiche per eliminare i profili di incostituzionalità. Le contestazioni importanti riguardano la durata dei percorsi dell’istruzione professionale indicati in tre e quattro anni dalla regione, mentre lo stato ne prevede cinque e la determinazione dei criteri di certificazione dei titoli e dei crediti per il passaggio tra il sistema della formazione professionale a quello dell’istruzione.

Alcune questioni aperte ci sono ma possono essere risolte nell’ambito delle competenze concorrenti e delle intese già effettuate ad esempio tra ministero e regioni Lombardia e Trentino Alto Adige per il quinto anno in modo da arrivare all’esame di maturità e accedere all’università ed agli istituti tecnici superiori. La proposta quadriennale dell’istruzione e formazione professionale veneta è in parte già presente nel progetto sperimentale sul così detto doppio canale all’italiana messo in atto dal ministero del lavoro con gli enti di formazione ed è sostenuta dalla possibilità di entrare dopo il quadriennio negli IFTS, primo gradino dell’istruzione superiore professionale non accademica.

A questo riguardo il decreto sulla buona scuola tenta un raccordo tra i due versanti che avvicina la legge veneta e benchè non abbia risolto come sarebbe stata necessaria l’unificazione de due filoni, statale e regionale, l’atteggiamento conciliante tra i contendenti fa ben sperare per quanto riguarda un recupero di federalismo che finalmente lascerà in pace la Corte Costituzionale ma soprattutto ridarà al sistema formativo quel ruolo strategico per lo sviluppo del territorio, sul versante professionale ma non solo.