Notte alla fine degli esami

Notte alla fine degli esami

di Ariella Bertossi

Dopo un periodo di pausa perché impegnata negli esami di maturità, ritorno quest’anno a fare da presidente agli esami conclusivi del primo ciclo. Scuole diverse in province diverse, ma lo scenario è un po’ sempre lo stesso. Poiché questo esame sarà l’ultimo anno a svolgersi con le modalità attuali, pongo delle riflessioni finali.
Personalmente ho visto con favore l’abolizione del commissario esterno, in quanto credo che la regolarità degli adempimenti dovuti in un esame di Stato non sia messa in dubbio. Se poi la funzione di un presidente esterno sia anche quella di vigilare sulla formazione degli alunni, sicuramente non è assistendo ad un esame che essa si possa garantire: l’unica volta che ho avuto l’ardire di porre ad un’alunna una domanda, anche piuttosto banale, ho capito che non era il caso di proseguire. Ho visto invece in queste “intrusioni” in scuole altrui delle occasioni di crescita e formazione sul campo, di percepire il clima vissuto, le prassi organizzative, i documenti richiesti, la condivisione reale di criteri di valutazione e soprattutto le modalità relazionali dei vari docenti e credo che, più degli alunni, sia la componente docente a mettersi in fermento di fronte ad un commissario forestiero.

Osservando i docenti dall’esterno ho potuto porre attenzione a come si pongano con gli alunni in quello che è il momento conclusivo di un percorso triennale. C’è il docente accogliente, l’intransigente, il deluso, l’oratore, il cattedratico, l’annoiato… probabilmente le stesse categorie che ognuno di noi ha ritrovato nei propri studenti. Mi mancherà questo tessuto umano sconosciuto che in pochi giorni diventa quasi famigliare. Per contro credo sarà molto utile vedere come i docenti della scuola che dirigo si rapportano con gli alunni, perché in fondo se li conosciamo dal punto di vista professionale e “burocratico”, difficilmente ormai abbiamo il tempo di entrare in classe e vederli all’opera. Ecco, vedere i “miei” docenti durante gli esami mi darà degli elementi utili per comprendere le loro modalità di insegnamento e di rapporto: si capisce molto osservando come gli esami vengono condotti. Spero pertanto che i miei colleghi dirigenti colgano le opportunità che questa nuova modalità di conduzione degli esami ci darà e che non si sottraggano alla presenza delegando ancora una volta perché assorbiti e affranti per le incombenze di fine anno.

Vorrei ora soffermarmi sulle modalità che portano alla stesura del giudizio finale del candidato. In tutte le scuole in cui sono andata e già come docente, ho visto l’uso costante di griglie pre-costituite a guida della composizione di quel giudizio che dovrebbe accompagnare il voto finale per renderlo esplicativo. Di fronte a tali giudizi sono sempre molto perplessa perché, se dovessero veramente essere tagliati ed esplicativi per ogni singolo studente, non se ne verrebbe fuori: ogni docente ha una visione diversa dell’alunno e metterebbe in luce aspetti che potrebbero non combaciare con quelli dei colleghi. La griglia rende più oggettivi i punti da analizzare e soprattutto la sua stesura più rapida, ma alla fine quel che ne esce a volte mi risulta incomprensibile e non so quale utilità possa avere a chiarire un voto, che per quanto mi riguarda, vedo molto chiaro ed esplicito. 6 vuol dire 6 e tutti sappiamo cosa significhi: sai stato promosso, anche se magari il voto non è un granché. Ma aggiungere che la preparazione è “sostanzialmente valida” oppure “organica” (come se potesse esisterne una inorganica) potrebbe necessitare di una legenda. Il giudizio però viene richiesto e quindi, tra le mille incombenze, si trova la soluzione anche a questo. Trovo molto più chiaro e leggibile da questo punto di vista la modalità organizzativa dell’esame conclusivo del 2° ciclo, dove la parte discorsiva non compare.

C’è poi il problema del punteggio. Se c’è un voto di ammissione nella maggioranza dei casi la tendenza sarà quella di confermarlo e i meccanismi per raggiungerlo tra i più disparati. Ho visto orali da 6 diventare 9 e altre macchinerie per non scontentare o deludere l’idea che ogni docente di quel percorso si è fatto. La valutazione è collegiale ed i voti sono proposti, per cui è legittimo
modificare motivando quanto richiesto, ma se di esame si tratta è giusto anche tenere conto di come quell’esame è andato, per quanto triste possa essere. Sono concorde comunque su tale modalità premiante perché, in fondo, che valore ormai ha il diploma della terza media? Quando questi ragazzi già con una laurea avranno difficoltà ad inserirsi in un mondo sempre più competitivo?

La normativa pone in mano all’assemblea plenaria la scelta dell’attribuzione della lode: poiché si tratta di un’eccezionalità, la sua ratifica prevede che ci sia l’unanimità. Rispetto all’attribuzione di questo ulteriore punteggio ho assistito a discussioni furenti che non condivido. Partiamo dal punto di vista dell’alunno, che probabilmente di fronte ad una lode negata si potrebbe chiedere: che cosa avrei dovuto fare di più? Ecco, credo che a volte la risposta del docente sia basata su sensazioni. Il suo punto di vista spesso è infatti quello opposto: non ha fatto, non ha dimostrato, non ha esposto secondo l’idea di come per noi deve essere un alunno da lode. Nell’assemblea plenaria iniziale vengono esplicitati i criteri oggettivi per l’attribuzione della lode, per cui a mio avviso, qualora si ritenga un alunno non rientri in tali criteri per la trasparenza cui ha diritto, andrebbe spiegato perché la lode, nonostante la media del 10, non è stata attribuita. Poiché la valutazione per gli studenti dovrebbe essere sempre formativa non capisco questo accanimento nel negare quel “di più” che in genere la maggior parte dei docenti vuole attribuire, ma che spesso trova l’opposizione di pochi che difendono la posizione per la quale l’eccezionalità debba essere per forza rara. Se i criteri di valutazione sono veramente condivisi e non risentono di quanto il docente si prende a cuore l’alunno meritevole, allora la lode non avrebbe motivo di trovare tanti contrasti. Non capisco poi come sia possibile votare contro un ragazzo di un’altra classe, che non si conosce e del quale non si è assistito alle prove d’esame, ma questo è quanto prevede la normativa, quindi tutto sommato si vota sulla fiducia. Accade quindi che spesso si trova più facile concordare sulla lode di alunni di altre classi, che non si conoscono, rispetto agli alunni delle proprie.

Da ultimo ancora un discorso sulle competenze e la loro certificazione. Di fronte a questo documento, ormai non più sconosciuto, le scuole si sono attrezzate affinché la loro certificazione non sia episodica e un trasferimento automatico del voto disciplinare. Le competenze vanno osservate e certificate, ma soprattutto favorite, insegnate, sviluppate. Come faccio a certificare competenze se la mia didattica rimane frontale e tradizionale? Come posso pretendere che un alunno si orienti con sicurezza nelle prove nazionali se non ho creato degli ambienti di apprendimento perché possano essere sviluppate? Se anche ho addestrato a destreggiarsi in prove non più solo disciplinari, la didattica ha subito la stessa rivoluzione? Perché si sente dire che i ragazzi non sanno orientarsi nelle prove nazionali, che non sanno applicare quanto imparano e non sanno comprendere veramente un testo… ma siamo proprio sicuri di averglielo insegnato?

In questi anni ho raccolto le osservazioni degli insegnanti e, facendo una sintesi, diversi di essi ritengono che l’aver inserito la prova nazionale all’esame, per il timore che gli alunni più deboli non raggiungano la sufficienza, ha portato generalmente ad alzare il voto di ammissione. Le prove d’esame inoltre, sempre più comuni a tutte le sezioni di una scuola, vengono calibrate verso il basso, per non mettere in difficoltà nessuno. Tutto questo però comporta che anche i meno bravi alla fine arrivano a voti inspiegabilmente alti (forse perché magari più competenti di chi studia senza riflettere…rispetto a chi studia poco ed è costretto a pescare tutte le risorse che ha), mentre gli eccellenti non emergono più. Insomma l’esame così concepito porta a dei voti in uscita tendenti generalmente al rialzo, ma non adeguati e non sono quelli realmente relativi ai criteri di valutazione condivisi, frutto di una media matematica che con i vari arrotondamenti arrotonda sempre per eccesso.

E’ con amarezza dunque che molti insegnanti infine dicono che i livelli si sono abbassati, che tutto è sempre più facile, gli alunni sempre più problematici e quindi alla fine si da’ il 6 che però è sempre un 5: ha cambiato soltanto nome. Carità pelosa: si alza l’asticella, ma il livello è sempre lo stesso.

La richiesta europea di maggior scolarizzazione, di aumento dei ragazzi in possesso di diploma, della lotta alla dispersione chiede che il ragazzo possa veramente recuperare, possa raggiungere una sufficienza meritata, non un finto 6. Questo è forse l’errore più grande si possa fare: un 6 regalato, consente all’alunno il passaporto per la classe successiva, ma di fatto non gli da’ gli strumenti per
affrontarla. Ritengo pertanto che finché non si comprenderà che aumentare il numero degli studenti promossi non significa essere più buoni, ma aver veramente colmato delle lacune, non potremo veramente dire di aver migliorato il successo scolastico dei nostri alunni: è come barare al solitario. Con l’organico potenziato, con i finanziamenti, con tutti i PON banditi per il disagio e il recupero i nostri ragazzi in difficoltà dovrebbero arrivare ai minimi contenuti in ogni disciplina, ma soprattutto a livelli di competenza base, senza i quali il futuro cittadino non avrà strumenti di cittadinanza e strategie metacognitive per affrontare con successo il suo futuro.

Il nostro investimento pertanto sarà utile essere nella formazione dei docenti, affinché trasformino realmente le classi in ambienti adatti alla didattica differenziata, alla convivenza di alunni con livelli sempre più diversi, così com’è la società, dove non si vive per categorie, ma si convive tutti insieme. Non sarà più necessario un piano di inclusione con i numeri di quanti disagi, separazioni, stranieri, e via dicendo ci sono, perché tutto ciò sarà una normalità e l’attenzione verrà posta finalmente alla singola persona, non ad un programma da seguire in una classe. Credo che imparare a lavorare personalizzando sarà l’unica soluzione per il docente, che potrà avere a disposizione le tecnologie, sistemi di peer tutoring, un organico potenziato e quant’altro, ma soprattutto dovrà rivedere il proprio sistema di insegnamento e di posizione all’interno di una classe sempre più laboratorio di idee. Concludo dunque citando Don Lorenzo Milani e il suo “Non c’è niente di più ingiusto di fare parti uguali tra diseguali”, messaggio ancora oggi sempre più attuale.