L’educazione interculturale

L’educazione interculturale
Dalla paura dell’“Altro” che allontana, all’Intercultura come progetto che avvicina

di Immacolata Lagreca

 

 

Lo straniero

Un uomo stava posando dei fiori sulla tomba della moglie, quando vide un uomo cinese mettere un piatto di riso sulla tomba accanto. L’uomo si rivolse al cinese e con sarcasmo gli chiese: “Mi scusi, lei pensa davvero che il defunto verrà a mangiare il riso?”. “Si”, rispose l’uomo cinese, “quando il suo verrà a odorare i fiori”. Questa storiella ci fa comprendere che le persone sono diverse, pur avendo in comune i sentimenti (nel caso del cinese e dell’altro signore, il sentimento della pietà e dell’amore verso il proprio caro defunto). Allora, iniziamo a non giudicare troppo frettolosamente l’”Altro” considerandolo un “marziano”, come lo straniero estraneo all’umanità.

Fin dai tempi più remoti, secondo il contesto sociale, civile e geografico, l’uomo ha avuto una percezione diversa dello straniero. Spesso egli è percepito in maniera negativa, etichettato come “diverso”, come qualcuno che “non appartiene” e, quindi, di cui non ci si può fidare. Lo stesso termine “straniero”, ha uguale radice dei vocaboli “estraneo” e “strano”, indicando ciò che è “di fuori”, “esterno”, “diverso da me”.

Lo “stra-” iniziale della parola, che deriva dalla forma latina extra, ci consegna l’immagine di qualcosa che “sta fuori” rispetto a “ciò che sta dentro”: «Nelle lingue indoeuropee il termine che designa lo straniero contiene contemporaneamente in sé l’intero repertorio delle accezioni semantiche dell’alterità, e cioè l’estraneo, il forestiero, il nemico, in sintesi tutto ciò che è “Altro” da noi, anche se con noi viene comunque in rapporto»[1]. Siamo dunque di fronte a tre opposizioni: intero/esterno, che rimanda a un luogo, estraneo/proprio, che rimanda a un possesso, strano/familiare, che rimanda alla comprensione.

Per i latini, e più in generale nel mondo classico, l’idea di straniero come “qualcosa che non appartiene” è radicata, perché chi è estraneo al mio spazio, alla mia vita, è “strano”. Ma, inizialmente, non si ha un’accezione negativa del termine straniero.

Nell’antica Grecia lo straniero era il xénos, l’ospite di fuori che deve essere accolto rivestito di dignità e rispetto, poiché era convinzione che gli Dei, sotto mentite spoglie, visitassero gli uomini per testare la loro bontà e ospitalità. L’ospitalità allo straniero, dunque, almeno nella sua prima fase, è accordata senza nessuna condizione, poiché egli era protetto da Zeus[2]. Qualora fosse stato necessario, ci si difendeva dallo straniero solo dopo averlo accolto e averlo stimato come persona ostile. Con l’evolversi della lingua, xénos arrivò a significare “straniero”, e unito a fobia, questa parola inizialmente dall’accezione positiva, cambia del tutto di senso producendo oggi il termine “xenofobia”, paura dello straniero.

Lo stesso vale per gli antichi Romani. Nella Roma arcaica il termine per indicare lo straniero era inizialmente hostis, che pure identificava l’ospite da riverire. Questo è riportato anche in un’interessante testimonianza di Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.), da cui si ricava che il termine hostis indicava colui a cui erano riconosciuti gli stessi diritti del popolo Romano (quod erant pari iure cum populo Romano)[3], diritti garantiti dallo Stato Romano. Successivamente il termine hostis assumerà una connotazione antagonistica e si caricherà di significati, appunto, “ostili”: solo allora lo “straniero” diventerà un nemico[4], mentre per indicare colui “che viene da fuori pacificamente” si cominciò a usare il termine hospes, da cui viene “ospite”.

Tuttavia, anche quando lo straniero, colui che veniva da fuori, divenne nemico, gli antichi non ne facevano una “questione di pelle”, ma un problema politico unicamente legato alla sua manifesta ostilità, sebbene rimanesse aperta la possibilità che egli potesse convertirsi in “ospite” se dimostrava la sua amicizia.

Così in seguito, lo spazio del confine tra il “Noi” e l’”Altro straniero” da geografico e linguistico, diventa politico, culturale e religioso: l’estraneità geografica e linguistica si associa inevitabilmente a quella mentale e lo straniero diventa qualcuno da cui tutelarsi[5]. Nasce così il pregiudizio nei confronti dello straniero.

 

Il pregiudizio

Nato solamente come “giudizio antecedente” (dal latino praeiudicium), la sua espressione è arriva in epoche più recenti a essere dilatata e a essere usata per lo più in senso negativo, indicando un “giudizio anticipato”, quindi un parere immotivato, una opinione arbitraria, di carattere sia favorevole sia malevola. Infatti, il pregiudizio, può essere definito un’opinione precostituita, preconcetta e adottata, un giudizio affrettato o avventato, sprovvisto di giustificazione razionale o espresso a prescindere da una conoscenza precisa dell’oggetto e tale da impedire valutazioni corrette. La persona (o il gruppo) che nutre un pregiudizio nei confronti di un altro tenderà a prendere in considerazione solamente le cose che confermano le sue idee, rafforzando così i preconcetti in cui crede. Infatti, specificità del pregiudizio è la tenace resistenza alle prove dell’esperienza, della conoscenza, della relazione diretta e la cristallizzazione in forme irreversibili.

Lo psicologo sociale Rupert Brown, così definisce il pregiudizio: «Il mantenimento di atteggiamenti sociali o credenze cognitive squalificanti, l’espressione di emozioni negative o la messa in atto di comportamenti ostili o discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo per la sola appartenenza ad esso»[6]. Il pregiudizio, continua Brown, «può essere considerato sia come processo di gruppo sia come fenomeno che può essere analizzato a livello della percezione, dell’emozione e dell’azione individuali»[7].

Il pregiudizio va valutato non solo come un fenomeno puramente cognitivo, ma occorre prestare attenzione anche alle sue componenti emotive e alle sue possibili espressioni comportamentali di gruppo o individuali. Infatti, il pregiudizio è un atteggiamento, e come tale è composto da tre aspetti: una componente cognitiva, che comprende le credenze o i pensieri che compongono l’atteggiamento; una componente emozionale, che rappresenta il tipo di emozione collegata sia all’atteggiamento (ad esempio la rabbia o la gioia) sia all’estremità dell’atteggiamento (l’ansia moderata, l’ostilità incontrollata); una componente comportamentale collegata alle azioni dell’individuo (che agisce individualmente o in gruppo).

Poiché, da un punto di vista logico il pregiudizio può assumere forme sia positive sia negative, esso è dunque è un atteggiamento pregiudiziale di qualifica o giudizio negativo a priori, in cui subentra anche la componente emozionale, sotto forma di simpatia o antipatia per altri individui e gruppi, ma anche per oggetti, idee o istituzioni

Secondo le ricerche, il pregiudizio è acquisito già durante l’infanzia[8] e il fatto che cresca o diminuisca col tempo dipende da circostanze storiche ed educative. Le esperienze fatte nei primi anni di vita possono indiscutibilmente essere responsabili di buona parte dei pregiudizi che si trovano negli individui adulti, ma i pregiudizi possono insorgere in qualunque momento dell’arco di una vita.

La prima conseguenza che realizza un pregiudizio riguarda la creazione di gruppi (Io-Tu, Noi-Voi), cioè la categorizzazione di alcune persone come un gruppo basato su certe caratteristiche e di altri individui in un altro gruppo in base a caratteristiche differenti. La categorizzazione è infatti il tema sottostante della cognizione sociale umana, l’atto cioè di raggruppare gli stimoli in base alle loro somiglianze e di metterli in contrasto in base alle loro differenze[9]. Con la presenza di pregiudizi si formano perciò due tipi di gruppi: ingroup, che si definisce come il gruppo con cui si identificano gli individui e del quale sono membri, e outgroup, il gruppo con cui gli individui non si identificano[10].

Quando i pregiudizi prendono una forma permanente diventano stereotipi.

 

Lo stereotipo

Nel significato comune i termini “pregiudizio” e “stereotipo” sono spesso associati e accomunati. In realtà hanno significati completamente differenti. Abbiamo visto che il pregiudizio è una valutazione che precede l’esperienza, quindi un giudizio, positivo o negativo, formulato ancor prima di avere a disposizione dei dati necessari per conoscere e comprendere la realtà. Lo stereotipo, invece, è un modello fisso di conoscenza e di rappresentazione della realtà, è una specifica caratterizzazione unilaterale degli “Altri” (gruppo o collettività) che spesso deriva anche dal pregiudizio.

L’origine del termine stereotipo (dal greco stereòs, rigido e tòpos, impronta, modello), può essere ricercato in quella fase del processo di stampa nel quale è prodotto un calco per rendere possibile la riproduzione su pagina di modelli o figure, attraverso appunto una “forma” fissa. Fu il giornalista politico statunitense Walter Lippmann a descrivere l’utilizzo che le persone fanno di calchi cognitivi per poter riprodurre nella loro mente immagini di persone o di eventi. Nel 1922, nel suo Public Opinion[11], egli si riferiva a questi calchi come “quadri mentali che abbiamo in testa”. Lippmann, allora, considerò gli stereotipi: «Una rappresentazione ordinata più o meno consistente del mondo, alla quale si sono adattati i nostri modi di essere, i nostri gusti, capacità, comodità e speranze. Possono non rappresentare un’immagine completa del mondo, ma sono l’immagine di un mondo possibile al quale siamo adattati. In quel mondo le cose e le persone hanno il loro posto fisso e fanno certe cose che sono attese. In esso ci troviamo a casa»[12]. Sostiene lo psicologo sociale Rupert Brown: «Valutare qualcuno attraverso uno stereotipo, significa attribuirgli certe caratteristiche considerate proprie di tutti o quasi i membri del gruppo cui questi appartiene. Uno stereotipo rappresenta, in altri termini, un’inferenza tracciata a partire dall’assegnazione di una persona a una data categoria»[13].

Lo stereotipo nasce poiché il rapporto conoscitivo con la realtà non è diretto, ma mediato da immagini mentali che di quella determinata realtà ciascuno si forma. Questi immagini, gli stereotipi appunto, diventano semplificazioni rigide che si costruiscono sia per comprendere la vasta complessità del mondo esterno sia per giustificare comportamenti impropri. Se questa “immagine fissa” è solamente adottata da una persona è una convinzione personale, ma se è accolta da un gruppo, da una collettività, diventa uno stereotipo.

Tre sono le dimensioni per capire il modo di funzionamento degli stereotipi e per comprendere la forza sociale:

– il grado di condivisione, ad esempio l’estensione quantitativa di una particolare immagine che un gruppo si fa di un altro;

– il livello di generalizzazione arbitraria, ad esempio data una certa immagine di un gruppo, si può essere convinti che pressoché tutti gli individui appartenenti a quel gruppo possiedano le caratteristiche che lo contraddistinguono, oppure che sussistano talmente tante eccezioni che è necessario stabilire volta per volta quanto l’individuo che si ha di fronte corrisponda allo stereotipo stesso;

– il grado di rigidità semantica, ossia qual è il grado di resistenza al cambiamento degli stereotipi[14].

Stereotipi comuni comprendono una varietà di opinioni su gruppi sociali basate su etnia, sessualità, nazionalità, religione, politica e propensioni, ma anche professione, status sociale e ricchezza.

Lo stereotipo sociale assolve a due funzioni principali: rinforza una identità collettiva positiva, se riferiti al proprio gruppo (ingroup), tendono ad avere caratteri spesso discriminanti se riferiti a un gruppo di non-appartenenza (outgroup). Scrive lo psicologo statunitense Gordon Willard Allport: «uno stereotipo è un’opinione esagerata in associazione a una categoria. La sua funzione è quella di giustificare (razionalizzare) la nostra condotta in relazione a quella categoria»[15].

Così, considerando come elementi discriminanti alcune caratteristiche particolarmente salienti e socialmente significative, si punta a valutare le persone non per quello che realmente sono, e dunque nella loro irripetibile singolarità, bensì in funzione della loro appartenenza a un certo gruppo, che viene di fatto considerato omogeneo. Ciò avviene a partire in genere dalle caratteristiche fisiche, ma include quasi sempre tutta una vasta gamma di caratteristiche psicologiche e culturali: i tratti di personalità, i valori, le motivazioni e, secondo le interpretazioni più spinte, perfino le stesse capacità intellettive. Così particolari caratteristiche fisiche o culturali ci portano a designare tutti gli individui che compongono il gruppo a quale si fa parte: tutti gli ebrei sono avidi di denaro e cospiratori; tutti i musulmani sono fanatici e potenziali terroristi; tutti i clandestini sono un potenziale delinquente; tutti gli “zingari” sono accattoni, scansafatiche e ladri e rapiscono pure i bambini. Ecco dunque aprirsi la strada che porta inevitabilmente alla xenofobia, al razzismo, alla discriminazione e all’esclusione sociale: «Il tipo di pregiudizio che assale così numerose società del mondo contemporaneo e che richiede con tanta urgenza di essere da noi capito è quello negativo: il trattamento guardingo, timoroso, sospettoso, spregiativo, ostile, o in ultima analisi mortifero di un gruppo di persone da parte di un altro gruppo”[16].

 

L’intercultura come “medicina” per i pregiudizi e gli stereotipi

I pregiudizi e gli stereotipi non sono tuttavia innati. Essi hanno il loro fondamento nelle influenze familiari, sociali, ambientali ed educative. Pertanto, se vogliamo eliminare o almeno cercare di limitare il più possibile l’insorgere di pregiudizi e stereotipi, è fondamentale intervenire a livello scolastico, familiare e sociale per fare della diversità una vera ricchezza, un nuovo paradigma educativo e per stimolare le persone, a iniziare dai bambini e dai ragazzi, a pensare criticamente senza cadere nella tentazione di adottare false immagini.

Già il riconoscere l’esistenza di pregiudizi o stereotipi è il primo passo per cambiare gli elementi che costituiscono l’atteggiamento e, quindi, anche il comportamento. Smettere di “inventare l’Altro” è il successivo passo che ci accompagna pian piano sulla giusta strada dell’”incontro”, che a sua volta apre le porte all’educazione all’intercultura, ossia all’educazione alla differenza e alla cultura dell’accoglienza, creando i presupposti per decostruire la logica e i fondamenti dell’”invenzione dell’Altro”[17].

Prima di procedere nel nostro discorso, come per “pregiudizio” e “stereotipo”, occorre fare una distinzione tra i termini “multiculturale”, “multietnico” e “intercultura”, che non sono affatto sinonimi.

Il termine “multiculturale”, usato oggi come analogo a “multietnico”, non è un equivalente corretto che si può associare a società. Infatti, una società multietnica, ossia un sistema sociale in cui convivono soggetti con identità etniche diverse, può essere multiculturale; al contrario una società multiculturale non implica la multietnicità, in quando una stessa etnia può avere sistemi culturali differenti. Si ricorda che l’aggettivo etnico è generalmente servito a connotare solo le identità e le forme di organizzazione politica e sociale dei contesti non occidentali.

Anche i termini “multiculturale” e “intercultura” non sono affatto equivalenti ma fanno riferimento a situazioni e pratiche diverse e sottendono concezioni sociali ed educative differenti. Una distinzione tra questi due termini è quindi utile.

La multiculturalità è assieme uno stato e un dato di fatto, risultato di flussi migratori e di incontri tra le culture. L’interculturalità è invece un processo educativo intenzionale, che deve essere progettato dagli educatori per rispondere alle esigenze formative della società d’oggi. Il multiculturalismo, invece, batte la via opposta. In luogo di promuovere una “diversità integrata”, promuove una “identità separata”, promuove l’identità “separata” di ogni gruppo e spesso la crea, la inventa, la fomenta, e spesso la crea. Il risultato è una società a compartimenti stagni e anche ostili, i cui gruppi sono molto identificati in se stessi, e quindi non hanno né desiderio né capacità di integrazione. […] il multiculturalismo non supera il pluralismo, lo distrugge[18].

La multiculturalità non presuppone necessariamente l’attivazione di momenti di contatto, acculturazione e scambio tra le culture. Essa è una tipologia di carattere descrittivo, che si esaurisce nel verificare la presenza in un dato territorio o in un’istituzione sociale di culture diverse.

La multiculturalità trova la sua perfetta realizzazione nella creazione di nicchie etniche/religiose/culturali, di piccoli quartieri in cui ciascuna cultura sussiste e si cristallizza senza curarsi delle altre comunità. Così ogni nazionalità, etnia, gruppo religioso, gruppo culturale è rinchiuso nella propria zona fisica e culturale, continuando a praticare le proprie abitudini e le proprie tradizioni senza essere sottoposto all’incontro con l’alterità. La risposta del multiculturalismo nei confronti di una pacifica convivenza posta dalla società multietnica è la tolleranza, che «si sostanzia, innanzitutto, in un fondamentale riconoscimento della differenza, a partire dall’affermazione della pari dignità di ogni cultura»[19]. Tuttavia, nel momento in cui una crisi economica o delle tensioni religiose o etniche o altri fattori rompono l’equilibrio, le differenze taciute possono esplodere in modo violento e irrazionale.

L’interculturalità «oltrepassa la tolleranza, presuppone il confronto e lo scambio tra le culture, pone il problema della cittadinanza e della partecipazione, esercita la legittima e reciproca critica, concepisce le differenze culturali come un valore»[20]. In pratica, «Non si tratta di integrazione delle diversità, ma della loro valorizzazione. In altre parole, le differenze sono chiamate a convivere, a confrontarsi e a produrre uno spazio politico e sociale che continuamente si ridefinisce plasmando incessantemente le regole dell’agire e del comunicare»[21].

La prospettiva interculturale concepisce le diverse identità culturali come mutevoli e in continua trasformazione, presuppone che l’identità, per potersi arricchire e sviluppare, necessita del confronto con l’alterità. La concezione per cui, in una società multiculturale, le diverse identità culturali debbono vivere separate l’una dall’altra, senza scambi e contatti, è pericolosa e regressiva.

Partendo dal presupposto che l’identità non è qualcosa di dato, bensì si determina in relazione all’”Altro”, al differire da sé, e cioè è un prodotto dell’interazione sociale, le relazioni sociali sono fondamentali per la costruzione di una propria identità attraverso il riconoscimento della diversità e del valore altrui: «La relazione è al cuore dell’identità. L’alterità e l’identità non sono concepibili l’una senza l’altra, non soltanto nei sistemi sociali […] ma anche nella definizione istituzionale degli individui che corrisponde loro»[22]. Le relazioni sociali aperte, dinamiche e costruttive, danno l’opportunità di riconoscere nell’”Altro” la possibilità di riconoscere se stessi, in uno scambio profondo e fecondo[23]. Per questo occorre neutralizzare la carica di ostilità che connota la figura dell’”Altro”, dello straniero, creando condizioni affinché autoctoni e stranieri entrino in contatto, accorgendosi profondamente della presenza reciproca, incontrandosi. Già la conoscenza con persone che vengono da altri contesti, elimina almeno una parte della paura del “diverso”, riducendo l’ostilità e la diffidenza.

Progetto di interculturalità, quindi, e non di multiculturalità, poiché – come afferma l’antropologo francese Jean-Loup Amselle – la seconda è in realtà solo una forma di razzismo “gentile”: immobilizza le differenze, rifacendosi a origini ancestrali inesistenti[24]. Armonizzare identità e alterità dovrebbe essere la naturale dialettica dell’era globale.

 

L’educazione interculturale

Un progetto interculturale si esprime non certo in prediche e insegnamenti teorici, né con tecniche di persuasione, ma prima di tutto sperimentando quotidianamente la realtà. La scuola ha certamente un ruolo privilegiato per l’educazione all’intercultura, perché in essa si concretizza, anche grazie alla presenza di allievi stranieri. Infatti, la scuola, attraverso l’educazione interculturale può fare la sua parte per la nascita di una società attenta ai valori della differenza, del pluralismo delle culture, dei diritti umani, della pace. Essa è il centro propulsore dell’intercultura in quanto impegnata ad accogliere in numero sempre più crescente gli allievi stranieri, e a gestire l’eterogeneità delle lingue e delle culture che la contrassegna.

Il professor Claude Clanet definisce l’educazione interculturale come «l’insieme dei processi –psichici, relazionali, di gruppo, istituzionali – generati dalle interazioni delle culture, in un rapporto di scambi reciproci e in una prospettiva di salvaguardia di una relativa identità culturale dei partecipanti alle relazioni»[25]. Più specificatamente nella relazione tra le persone culturalmente diverse, l’educazione interculturale si preoccupa di far crescere atteggiamenti di disponibilità, di apertura e di dialogo, in quanto progetto educativo che si fonda sull’incontro e sulla reciproca contaminazione. L’obiettivo dell’educazione interculturale «si delinea come promozione delle capacità di convivenza costruttiva in un tessuto culturale e sociale multiforme. Essa comporta non solo l’accettazione ed il rispetto del diverso, ma anche il riconoscimento della sua identità culturale, nella quotidiana ricerca di dialogo, di comprensione e di collaborazione, in una prospettiva di reciproco arricchimento»[26]. È dunque il superamento di una situazione statica a favore di un processo basato sull’incontro-confronto, sul dialogo tra i valori proposti da persone diverse, prima ancora che da diverse culture.

Si può comprendere come tale modello, nato sulla spinta dell’arrivo degli immigrati, si sia poi sviluppato nei termini di una dimensione interna all’educazione stessa, uno “sguardo” […] da promuovere in tutti. […] L’educazione interculturale diviene così un’attitudine alla relazione con l’altro nella sua complessità umana, culturale, storica[27].

Per i professori Duccio Demetrio e Graziella Favaro, l’educazione interculturale è l’esplicazione propria di una «pedagogia relazionale»[28], che «è un educarci ed un educare (noi e gli immigrati) ad un pensiero che non si irrigidisca mai. Ad un pensiero in movimento»[29].

Gli elementi strutturali senza i quali non è possibile parlare di educazione interculturale sono intenzionalità, interazione, empatia, decentramento, transitività cognitiva.

Poiché l’educazione interculturale non appartiene ai fenomeni naturali, essa deve essere voluta, provocata, progettata[30]. Essa deve essere dunque intenzionale.

L’interazione indica un processo relazionale bidirezionale che esige uno scambio paritetico tra storie, saperi, attese, progetti di vita e vissuti quotidiani diversi. L’educazione interculturale deve avere in sé la componente dell’interazione.

Grazie all’empatia si diminuisce la distanza, poiché essa è quell’elemento della relazione umana grazie alla quale l’individuo percepisce di vivere con l’“Altro” una specie di comunione affettiva, in conseguenza della quale l’interlocutore non è sperimentato solo come protagonista di una serie di fatti e storie, ma anche come portatore di emozioni e sentimenti in grado di dare un peso differente e delle connotazioni personali e soggettive a vicende che per certi versi si somigliano.

Attraverso il decentramento si scopre la presenza, oltre a quelli personali, di altri valori di riferimento, di altre usanze, costumi e regole di condotta. L’educazione interculturale, grazie al decentramento, diventa la scoperta che le possibilità di rappresentare una data realtà sono molte, più di quelle in nostro possesso e tutte con una loro coerenza e giustificazione logica.

La transitività cognitiva è per il professor Carlo Nanni, pedagogista del “Centro Educazione alla Mondialità”, il cuore dell’interculturalità, ciò che «provoca sul nostro sistema cognitivo una perturbazione, uno spiazzamento cognitivo»[31]. Si tratta di un pensiero divergente in cui i soggetti del rapporto riescono ad aprirsi sino al punto da assumere come propri alcuni degli elementi cognitivi dell’altro.

Lo specifico dell’educazione interculturale è dunque costituito dai processi di apprendimento che portano a conoscere altre culture e a instaurare nei loro confronti atteggiamenti di disponibilità, di apertura, di dialogo.

Attraverso l’educazione interculturale si propongono i concetti della reciprocità e del dialogo, della complessità e della convivenza delle differenze, del conflitto e della pace.

La reciprocità implica l’idea dello scambio reciproco: l’educazione interculturale dovrebbe far acquisire l’abilità di allacciare rapporti corretti con i propri simili, che si concretizzano nello scambio “del dare e dell’avere”. Per questo l’educazione interculturale va intesa come un “movimento di reciprocità” attraverso il quale l’una cultura e l’altra e quindi gli individui portatori di una cultura e di un’altra ‒ indipendentemente dalle differenze o proprio utilizzando tali differenze ‒ sono meglio in grado sia di comprendere se stessi e di correggere il “senso” che le stesse condizioni esistenziali differenziate hanno per ciascuno di loro, sia di continuamente rivedere e riadattare il proprio sapere e di conseguenza i propri comportamenti[32].

La complessità oggi è un dato di fatto, per questo, sotto il profilo educativo, occorre andare oltre i propri particolarismi, essere preparati ad affrontare nuovi scenari non più governabili da una logica unitaria, poichè sottoposti a cambiamenti accelerati[33]. Quindi, l’educazione interculturale consiste «non semplicemente alla conoscenza delle differenze riscontrabili in soggetti di origine culturale diversa, ma nell’educare alla transitività (o mobilità) cognitiva»[34].

Nell’educazione interculturale importante è la consapevolezza che possono sorgere conflitti, che non devono essere negati, ma gestiti. Ed educare al conflitto in un’ottica interculturale significa proprio insegnare a gestire i conflitti perché questi non siano distruttivi, ma costruttivi della relazione[35].

Nello stesso tempo, educare alla pace significa non solo promuovere una buona gestione dei conflitti, ma comporta una più globale educazione ai valori che sono costitutivi della pace stessa, quali giustizia, solidarietà, verità[36]. Perchè la pace è un “valore” e non un “obiettivo”. Quindi essa deve essere intesa come virtù universalmente riconosciuta e voluta, come accettazione delle differenze, come educazione alla complessità, come ricerca della relazionalità dei rapporti interpersonali e interstatuali, come disarmo delle culture e della politica.

Pace, dunque, come dominio della giustizia in assenza di violenza (sia quella visibile sia quella subdola e indiretta), ma anche come valore universale di rispetto per la vita, la libertà, la solidarietà, la tolleranza, i diritti umani e l’uguaglianza tra uomo e donna[37].

L’educazione interculturale, dunque, rappresenta una risorsa per la crescita, un espediente capace di promuovere identità in grado di assegnare al caotico processo di globalizzazione un volto più umano.

  


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[1] R. Paternoster, Guerrocrazia. La cultura e la politica armata, Aracne, Roma 2014, p. 293.

[2] Cfr. F. Giustinelli, Letteratura e pregiudizio. Diversità e identità nella cultura greca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 113-116.

[3] Cfr. A. Accardi, M. Cola, Guerra e partnership. Una riflessione sull’ambivalenza di Hostis, in «I Quaderni del Ramo d’Oro», n. 3, 2010, pp. 228, http://www.qro.unisi.it/frontend/sites/default/files/Guerra_e_partnership.pdf

[4] Cfr. L. Solidoro, Sulla condizione giuridica dello straniero nel mondo romano, «Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze», Vol. 1, 2006, pp. 21-36, ora anche nella versione online: http://www.rivista.ssef.it/www.rivista.ssef.it/file/public/Dottrina/41/L1.A1001001A08F10B84609F80386.V1.pdf

[5] Cfr. R. Paternoster, Guerrocrazia, cit., pp. 277-309.

[6] R. Brown, Psicologia sociale del pregiudizio, trad. it., il Mulino, Bologna, 1997, p. 15 (orig. 1995).

[7] Ivi, p. 7.

[8] Cfr. M.C. Barbiero, Noi e gli altri: atteggiamenti e pregiudizi nel bambino, Guida, Napoli 1985; F. Zannoni, Stereotipi e pregiudizi etnici nei pensieri dei bambini. Immagini, discussioni, prospettive, in «Ricerche di Pedagogia e Didattica», 2, 2007, http://rpd.unibo.it/article/viewFile/1538/911.

[9] Cfr. H. Tajfel, J.P. Forgas, La categorizzazione sociale: cognizioni, valori e gruppi, in V. Ugazio (a cura di), La costruzione della conoscenza. L’approccio europeo alla cognizione del sociale, Franco Angeli, Milano 1997, pp. 139-198 (ora 2007).

[10] Cfr. M.E. De Caroli, Categorizzazione sociale e costruzione del pregiudizio. Riflessioni e ricerche sulla formazione degli atteggiamenti di “genere” ed “etnia”, Franco Angeli, Milano 2005.

[11] In italiano, L’opinione pubblica, Donzelli, Roma 2004.

[12] Ivi, p. 95.

[13] R. Brown, Psicologia sociale del pregiudizio, cit., p. 103.

[14] Sugli stereotipi cfr. anche B.M. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi, il Mulino, Bologna 1997; L. Arcuri, M.R. Cadinu, Gli stereotipi. Dinamiche psicologiche e contesto delle relazioni sociali, il Mulino, Bologna 1998.

[15] G.W. Allport, La natura del pregiudizio, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1973 (orig. 1954), p. 266.

[16] R. Brown, Psicologia sociale del pregiudizio, cit., p. 13.

[17] Interessante sull’argomento è M. Kilani, L’invenzione dell’Altro. Saggi sul discorso antropologico, trad. it., Dedalo, Bari 2015 (orig. 1994).

[18] G. Sartori, La democrazia in trenta lezioni, a cura di L. Foschini, Mondadori, Milano 2008, p. 100.

[19] B. Henry, A. Pirni, La via identitaria al multiculturalismo: Charles Taylor e oltre, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, p. 117.

[20] M. Disoteo, Multiculturale/Interculturale, Dicembre 2013,

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[21] R. Paternoster, Guerrocrazia, cit., p. 319.

[22] M. Augé, Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 50.

[23] Cfr. J. Kristeva, Stranieri a se stessi, trad. it., Feltrinelli, Milano 1990, (orig. 1988).

[24] Cfr. J.L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1999 (orig. 1990).

[25] Cit. in C. Desinan, Orientamenti di educazione interculturale, Franco Angeli, Milano 1999, p. 23.

[26] A. Casillo, Interculturalità e curricolo nella scuola elementare, in Quadrante della scuola, 1990 n.2, p. 71

[27] M. Santerini, La scuola nella società multiculturale: orientamenti per l’Italia e l’Europa, in AA. VV., La scuola nella società multietnica, La Scuola, Brescia 1994, p. 65.

[28] D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale, La Nuova Italia, Firenze, 1992, p. 11.

[29] Ivi, p. 16.

[30] A. Nanni, L’educazione interculturale oggi in Italia, in Quaderni dell’intercultura EMI, Bologna 1998, p. 30.

[31] Ivi, p. 49.

[32] P. Bertolini, L’educazione interculturale: riflessioni pedagogiche, in «Scuola Viva» (supplemento a «Tuttoscuola»), 1991, n. 4, p. 28.

[33] Cfr. L. Caimi, Per una scuola educativa nella complessità socio-culturale, in «Quaderno di aggiornamento per operatori della formazione professionale”, n. 20, 1993, p. 26; Cfr. M. Callari Galli, M. Ceruti, T. Pievani, Pensare la diversità: idee per un’educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma 1998.

[34] D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale, cit., p. 15.

[35] Cfr. A. Rosetti, La gestione dei conflitti e l’educazione interculturale, Casa delle Culture, Ravenna 2005.

[36] Cfr. P. Roveda, La pace cambia. Proposte pedagogiche, La Scuola, Brescia 2000.

[37] R. Paternoster, Guerrocrazia, cit., p. 345.