Troppe agende aperte sulla scuola italiana

Troppe agende aperte sulla scuola italiana

di Stefano Stefanel

 

Se c’è una cosa che la scuola italiana non si fa mancare è la costante apertura di nuovi fronti e nuove modifiche, più proposte che attuate. L’agenda della scuola italiana è in perenne movimento e non accenna a fermarsi, resa frenetica anche dall’attivismo declaratorio dei ministri che si succedono al Miur e che spesso lasciano ricordi di innovazioni solo annunciate o di riforme attuate a metà. La legge 107 del 2015 se non altro ha avuto il merito di essere attuata con modalità tali che è molto difficile capire cosa potrebbe essere abrogato qualora andasse al governo una forza politica che lo vuole fare. Sulla questione della legge 107 sembrano essersi però placati tutti i catastrofisti che la vedevano come la pietra tombale della scuola italiana e i richiami alla lotta ormai rimangono appannaggio solo di quei gruppi residuali che chiamano alla lotta su tutto e che nel 68 facevano i contestatori, mentre oggi fanno i restauratori.

L’agenda scolastica in continuo movimento non aiuta però a tirare le fila dell’innovazione, anche perché spesso non si riesce ad avere i tempi materiali per innovare. Ci sono sempre troppi fronti aperti e non conclusi e alcuni errori purtroppo sono stati portati alle estreme conseguenze. Tutto questo dentro dibattiti superficiali e mediatici di poca durata e ancor più esiguo spessore, che non permettono una reale azioni di modifica dell’esistente se non attraverso cambi parziali e un aumento della burocrazia programmatoria, che spesso non riesce ad andare al di là di se stessa e si perde nel dichiarato perché poi non ci sono i tempi, le risorse e le volontà per applicare quello che si è studiato.

 

BOCCIATURE DI SINISTRA

Si stanno moltiplicando, soprattutto sul web, le invettive di molti docenti di sinistra (se ancora l’etichetta dice qualcosa, anche se spesso sono loro che si definiscono così) o comunque legati a sigle ultracontestatrici che attaccano i dirigenti che non vogliono bocciare o il Miur che tende ad eliminare le bocciature dal primo ciclo. La miopia selettiva della destra che ha in Paola Mastrocola il suo elemento di punta e in Ernesto Galli della Loggia il censore che guarda tutto dall’alto dell’Università viene adesso affiancata da una certa sinistra scolastica che attacca la dirigenza scolastica italiana accusandola di non voler bocciare e che paradossalmente si aggrappa a questa vera sciagura nazionale (siamo il Paese Ocse col più alto tassi di dispersione scolastica).

La questione purtroppo è facilmente riassumibile: poiché ai più bravi non si riesce a dare niente di concreto e soprattutto non li si riesce ad occupare a tempo indeterminato poco dopo la laurea, allora gli si dia almeno lo “scalpo” dei peggiori, di quelli destinati ai 1.000 euro al mese o a diventare Neet. Lo spreco di gioventù italiana dovrebbe preoccupare, invece alimenta dispute ideologiche su chi lasciare indietro, non su chi tutelare in alto. Il merito non si misura in alto, ma solo creando un baratro col basso. Una vera disgrazia sociale che ci fa diplomare troppi studenti disallineandoli da un’età anagrafica che è già penalizzante rispetto ai coetanei europei. Invece di plaudere alla leggera diminuzione della dispersione, ci si dispera perché questa dispersione non è a livelli ancora più alti. Non rendendosi conto che alla base della dispersione italiane e di molte bocciature c’è una totale incompetenza valutativa, che scambia autoreferenziali e mnemoniche misurazioni per valutazioni formative (valutazione = dare valore, imposta sul valore aggiunto, non su quello perso).

E’ vero che ci sono alcuni Paesi che fanno uscire dal ciclo dell’istruzione a 19 anni, ma dentro sistemi fortemente orientanti, con dosi massiccie di opzionalità e un ingresso nel mondo del lavoro molto più armonico e precoce che in Italia. Io credo che basterebbe studiare con attenzione i tre elementi che vengono subito evidenziati dalle aziende in un Curriculum vitae per comprendere bene il problema e la sua entità: l’allineamento dell’età anagrafica al titolo di studio, l’ecletticità delle esperienze documentate, la consistenza di quanto documentato.

In questo momento il mercato del lavoro prevede grosse protezioni per quelli della mia età e nessuna protezione per i giovani. Così si trovano sullo stesso piano sia lo studente che si è laureato nella specialistica con 110 e lode a 24 anni, sia quello chi si è laureato nella triennale a 27 anni con 92. Creare perciò condizione di disallineamento tra l’età anagrafica e l’età del diploma o della laurea crea già un problema, soprattutto se l’unica strategia di recupero dello studente in difficoltà nel sistema dell’istruzione è fargli ripetere per due volte le stesse cose, sia quelle poche che sa, sia quelle molte che non sa. Se poi questo esercizio viene ripetuto due o tre volte allora abbiamo studenti che escono dall’istruzione a 21 o 22 anni con possibilità occupazionali legate al proprio titolo di studio prossime allo zero. E’ vero che in Italia esiste l’esercizio non provvisorio della raccomandazione, ma quella si fa davanti a qualunque numero, come ben dimostrano le Università italiane (argomento su cui Galli della Loggia non si spende mai) quando devono sistemare qualche parente. Disallineate, disallineate qualcosa accadrà: spesso accade però che il percorso scolastico è reso inutilizzabile dai suoi ritardi e dal non aver saputo creare le condizioni per un vero recupero laddove necessario.

Complicata è anche la questione dell’ecletticità del Curriculum vitae: l’alternanza scuola lavoro introdotta nei Licei ha aperto una porta su questo delicato elemento, che Luigi Berlinguer aveva ben compreso introducendo però il pasticcio del credito formativo (dove purtroppo spesso si affastellano certificazioni di attività alto livello formativo e semplici corsi e corsetti o attività studentesche che danno il credito al solo scopo di avere pubblico sugli spalti). La questione è importante, perché la struttura monolitica dello studio contenutistico italiano stenta ad essere messa in discussione e i CV spesso sono avvilenti e mostrano solo tradizionali percorsi scolastici che poco dicono sul ragazzo. L’introduzione del curriculum dello studente con la legge 107/2015 va nella direzione giusta, ma spesso le scuole fanno finta che quel comma non esista. E le commissioni d’esame sono interessate a proporre prove e domande nozionistiche, ma non a comprendere percorsi.

Ancora più complessa è la questione della consistenza di quanto inserito a curriculum: la poca propensione italiana a documentare ciò che non da titolo di studio e non risponde a canoni tradizionali per la scuola, ma spesso astrusi per il mondo del lavoro, porta ad affastellare esperienze interessanti insieme a semplici partecipazione a corsi e a corsetti. Non parliamo poi dell’ambito del volontariato o di quello sportivo dove viene certificato tutto o il suo contrario e spesso si indicano esperienze di grosso spessore orario (tre-quattro allenamenti a settimana) per soggetti che si fanno vedere in palestra una tantum. Qui c’è molto da fare perché l’alternanza scuola lavoro sta facendo vedere come si possono introdurre a scuole eccellenti proposte e ottimi percorsi, ma anche come si può far perdere tanto tempo a studenti ed insegnanti con improbabili simulazioni d’impresa o fantasiosi rapporti con il mondo del lavoro.

 

IL LICEO DI QUATTRO ANNI

Anche l’idea logica di un percorso scolastico differenziato per studenti molto bravi che abbrevi il periodo scolastico è stata fagocitata nell’ennesimo dibattito ideologico. Ogni Liceo ha molti studenti d’eccellenza perfettamente in grado di fare tutto in quattro anni: la legge già glielo concede già oggi, ma le scuole frenano sull’argomento e gli studenti non colgono quell’occasione se non in sparuti casi. E frenano ancora di più sui Licei sperimentali di quattro anni, contro cui si sono scagliati i sindacati. Anche qui il segreto è di Pulcinella: se la sperimentazione parte in 100 Licei e in queste classi confluiscono gli studenti migliori la sperimentazione avrà successo e dunque sarà chiaro a tutti che si può fare. Per cui bisogna bloccare la sperimentazione, altrimenti poi la macchina non si ferma più.

E’ un po’ come la questione del bonus premiante il merito osteggiata da sindacati e docenti: al secondo anno di erogazione non fa più notizia, gli insegnanti se lo aspettano e laddove si richiedono le candidature queste arrivano. Basta sperimentare qualcosa col buonsenso e si vede subito se funziona o no. Infatti la chiamata diretta non funziona perché non è diretta e perché viene annegata tra diritti, trasferimenti, assegnazioni in tempi troppo estivi e troppo stretti. Ma il bonus non ha affatto creato clientele, ma soltanto fatto emergere molto lavoro sommerso.

Il Liceo di quattro anni facoltativo è un’opzione interessante, ma i conservatori della scuola hanno subito attaccato la scelta perché tocca il caposaldo della marmorea immobilità della scuola italiana.

 

LE PROTESTE DEI DIRIGENTI

Le organizzazioni sindacali più estreme hanno inneggiato tutta l’estate alla “ribellione” dei dirigenti scolastici. E questo dovrebbe far riflettere: se la scuola viene destabilizzata dai suoi dirigenti qualcosa nel sistema proprio non funziona. E se i Cobas si dichiarano solidali coi dirigenti allora più di qualcosa non funziona. Però le azioni di lotta non pare abbiano sortito grandi effetti: perequazione ferma, allineamento dello stipendio dei dirigenti scolastici a quello della altre dirigenze là da venire, carichi di lavoro sempre in aumento. La questione delle reggenze non ha scaldato nessuno (che sia assegnata a domanda o d’ufficio è un problema personale che non altera il sistema nervoso né degli utenti né dello stato), la chiamata diretta sia fatta sia non fatta non ha mutato il faraonico sistema dei trasferimenti per anzianità, la mancata compilazione del portfolio non ha toccato l’opinione pubblica che non sa neppure cos’é e non sembra aver sconvolto l’apparato statale che ha reso più dolce senza annullarla la valutazione.

Molto spesso nella scuola le proteste e le richieste sono legate a meccanismi così complessi che il cittadino non è in grado di capire di cosa si sta parlando. D’altronde una categoria come quella dei dirigenti scolastici, ancora denominati presidi, sfugge alla comprensione dei molti cittadini che il 10 giugno chiedono a noi dirigenti se la scuola è finita e quindi non lavoriamo più e il 10 settembre se è ripresa dopo le lunghe vacanze. E questo senza neppure sospettare che molti non smettono di lavorare spesso neppure quando sono in ferie. Se un problema non è compreso difficile comprendere allora le proteste ad esso connesse.

Dopo questa serrata di protesta oggettivamente maggioritaria la questione però non potrà più rimanere invariata, perché se anche i dirigenti si oppongono allo stato che dirigono allora la filiera di comando da qualche parte è saltata. E credo che continuare a riempire l’agenda di cose nuove senza che quanto annunciato venga almeno sperimentato non aiuta a tenere stabile una scuola che di sommovimenti non ne può più.