Nuovo regionalismo

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Nuovo regionalismo
Non roviniamo ancora tutto

di Gian Carlo Sacchi

 

E’ ancora vivo il ricordo del processo di modifica del titolo quinto della Costituzione culminato nel 2001 con un referendum confermativo a carattere nazionale al quale ha preso parte circa il 34% degli italiani. Era cominciato con l’idea di federalismo sul modello tedesco, anche se sappiamo provenire da storie diverse, voleva confermare ed ampliare i poteri delle regioni a statuto ordinario mai definiti in modo completo e adeguato, nonché il decentramento dei servizi proposto dalla riforma della pubblica amministrazione. Il dibattito di quegli anni infatti si incentrava sul passaggio di competenze e strutture dal governo centrale a quelli locali.

Ad un certo punto ci fu un’accelerazione del percorso per effetto di uno spirito secessionista che aleggiava in alcune regioni del nord. Questo atteggiamento costrinse anche chi era favorevole all’autonomia dei territori a chiudersi in difesa dell’unità nazionale, valore fondamentale indicato dalla stessa Costituzione. Un altro referendum denominato devolution non ebbe successo. Il messaggio era dunque chiaro: autonomia sì, indipendentismo no. L’obiettivo fin da allora era quello di valorizzare la società civile ed il suo protagonismo nell’indicare le proprie rappresentanze territoriali e nelle regioni la capacità legislativa intermedia per l’amministrazione di una notevole quantità di materie che derivavano dallo stato centrale, il quale aveva perso di efficienza e soprattutto non riusciva ad interpretare le esigenze delle diverse realtà locali, che senza mettere ormai più in dubbio l’unità nazionale, potevano meglio esprimere le proprie potenzialità nell’interesse comune. Si voleva applicare il principio di sussidiarietà che nel frattempo era stato adottato anche nella legislazione europea.

L’acuirsi del conflitto politico non aiutò il completamento del processo in atto, anzi lo rallentò, senza che il nuovo titolo quinto fosse applicato; Stato e Regioni continuamente davanti alla Corte Costituzionale per difendere le rispettive prerogative giocate perlopiù sulla duplicazione dei poteri nelle stesse materie, anzichè la revisione delle competenze statali in termini di “norme generali” e “livelli essenziali delle prestazioni” per la garanzia dei diritti di cittadinanza. Anche la legge sul federalismo fiscale che introduceva modi nuovi per calcolare la spesa pubblica e per considerare le ricadute nella gestione da parte degli enti locali dei tributi dei cittadini, rimase a mezz’aria. Questa situazione di incertezza aveva spinto verso una sorta di controriforma della seconda parte delle nostra carta fondamentale che riportava i poteri di nuovo al centro, senza ottenerne però l’approvazione in un ulteriore referendum. Sulla strada delle autonomie dunque indietro non si torna.

Una cosa buona la Costituzione del 2001 l’ha lasciata: l’art. 116 che prevede la possibilità da parte delle regioni che lo chiedono, con capacità fiscale e oculatezza finanziaria, di ottenere attraverso una legge dello stato approvata a maggioranza qualificata che materie appartenenti alla “competenze concorrenti” tra stato e regioni possano diventare esclusive di queste ultime, per rendere un servizio più qualificato ai propri cittadini, ma soprattutto per potersi meglio relazionare con realtà concorrenti e prendere parte a processi di internazionalizzazione.

La macchina dell’autonomia si è rimessa in moto; il vantaggio è che dai territori si riparte con il consenso di quasi tutte le forze politiche e che le stesse al centro assumano un comportamento coerente, ma il rischio è che lo spirito indipendentista si ripresenti e di nuovo alzi il polverone della ricerca unilaterale di definizione dei termini del contendere in modo che la trattativa centro-periferia si interrompa un’altra volta ed ancora prima di incominciare.

Non c’è dubbio che il segnale referendario di Veneto e Lombardia abbia fatto alzare la cresta a chi cerca di goderne della paternità politica, anche perchè vista l’alta partecipazione le diverse forze in campo stanno cercando di condividerne il merito, ma se davvero c’è questa volontà allora non servono fughe in avanti che determinerebbero un’altra resistenza, ma il rispetto dell’iter procedurale indicato dal predetto articolo 116, davanti al quale c’è la legge ordinaria per tutte quelle regioni che lo vorranno e che ne avranno i requisiti. Si tratta di una responsabilità del nuovo Parlamento e di una campagna elettorale che dovrà orientare in tal senso i suoi futuri componenti.

Con un po’ di fantasia si potrebbe pensare di riuscire nella prossima legislatura a mettere ancora mano ad una riforma costituzionale in senso autonomistico che possa portare a termine definitivamente un regionalismo efficiente, ma responsabile e solidale, anche senza cambiare la geografia del Paese. Non si tratta infatti di egoismo localistico, di cui alcuni parlano, ma le risposte a questi referendum dimostrano che i cittadini hanno ancora attenzione alle attività di governo, se li interessano direttamente, mentre è sempre inferiore la partecipazione a consultazioni mediate dalla politica. Attraverso le regioni si contribuisce a costruire una più efficace identità europea, la loro autonomia consente infatti una più diretta capacità di competere senza dover passare attraverso le burocrazie nazionali.

Non può essere i residuo fiscale in astratto la materia del contendere, ma l’autonomia si gioca sulle materie alle quali ovviamente corrispondono i finanziamenti e quindi anche la tassazione, ma far leva solo sul significato evocativo di quest’ ultima è un modo sbagliato sia di premere sull’autonomia medesima, sia di blandirla con la solita promessa elettorale della diminuzione delle tasse per tutti. E’ sul trasferimento di poteri e responsabilità che si può costruire un progetto per tutto il territorio nazionale, spingendo anche regioni in difficoltà a mettersi in regola, ma soprattutto è sulle competenze che danno origine ai servizi che responsabilizzano gli amministratori (ai quali si può anche minacciare la non ricandidatura, com’era già previsto in uno dei decreti applicativi del federalismo fiscale) e coinvolgono i cittadini.

Non si possono nemmeno inseguire le regioni a statuto speciale, non tutte sono tra l’altro un esempio virtuoso, questo è un problema che deve vedere superate le rispettive ragioni storiche, ma una maggiore autonomia potrà consentire a quelle confinanti un rapporto più duttile e produttivo.

Nel pacchetto di misure da trasferire ci saranno sicuramente quelle relative all’istruzione e formazione professionale, oggi considerate un perno della strategia formativa. E’ questo l’orizzonte entro il quale andrà definita l’autonomia delle istituzioni scolastiche, che esca finalmente dall’ottica ministeriale e si avvii ad essere una componente del sistema delle autonomie territoriali, senza aver paura che si producano disuguaglianze nel sistema se lo stato assumerà davvero il compito di indirizzo e di controllo, come già indicato dal predetto titolo quinto. Non può essere questa l’occasione per trasferire in modo esclusivo le competenze alle regioni su tutto il comparto scuola, come per quelle a statuto speciale, ma sul fronte dell’istruzione e formazione professionale, dei rapporti con il mercato del lavoro, per tutte quelle attività di sostegno agli studenti, la programmazione del servizio e ciò che maggiormente inerisce alle caratteristiche della domanda sociale in materia si deve andare fino in fondo con il decentramento cercando risposte sul territorio.

Si possono dunque riaprire le trattative con il governo nazionale se l’obiettivo è, come si è detto, quello delle materie da trasferire, anche se qui non siamo all’anno zero, anzi è quasi già tutto fatto con i decreti applicativi della legge sul federalismo fiscale, che descrivono sia gli oggetti che definiscono le “funzioni fondamentali” dei vari enti, sia le modalità di determinare le coperture finanziarie, in una gestione così detta “multilivello”. Evitiamo dunque di uscire dal seminato, vanificando così anche il voto di tanti, perché sarebbe un vero peccato sprecare un’altra occasione, visto che i cittadini ci hanno consegnato una visione autonomistica del nostro sistema, nel 2001 e lo hanno ribadito nel 2016. Se anche questa volta ci sarà chi vorrà ottenere di più del consentito per farne oggetto della solita contesa politica, non ci si lamenti poi della disaffezione e dei ritardi istituzionali.