Il diverso regionalismo scolastico

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Il diverso regionalismo scolastico

di Gian Carlo Sacchi

In vista dell’apertura delle trattative con il Governo sui contenuti dell’autonomia da parte delle tre Regioni pronte al decollo, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, iniziano a trapelare le modalità che ciascuna vorrebbe adottare nella gestione delle politiche dell’istruzione e formazione. La diversità delle proposte è visibile nella storia della loro legislazione in materia, che oggi trova la possibilità di espandere poteri e responsabilità a condizione che lo Stato accetti di cambiare ruolo, come peraltro è già previsto nel Titolo Quinto della Costituzione approvato nel 2001, sul quale dovrà basarsi il colloquio che si va ad aprire.

Esse hanno molte cose in comune, come l’istruzione e formazione professionale, ivi compresa quella superiore, già di competenza esclusiva delle regioni, che dovranno esprimere la necessaria capacità di aderire alle caratteristiche del sistema produttivo e del lavoro territoriale, fermo restando che a livello nazionale ed europeo venga adottata una valutazione e certificazione comuni che permetta lo scambio delle qualifiche (EQF), superando definitivamente la frammentazione dei titoli e consentendo il loro riconoscimento reciproco. A questo proposito lo stato dovrà decidere se mantenere inalterato il ruolo degli istituti professionali, applicando il recente decreto (D.Leg.vo 61/2017), approvato dalla buona scuola, oppure arrivare finalmente al “doppio canale”, statale e regionale, in modo da interpretare correttamente il dettato costituzionale che ha introdotto nel settore professionale un nuovo indirizzo che accomuna istruzione e formazione.

I poteri delle Regioni da inserire in una legge ordinaria devono innanzitutto riferirsi a quelle materie che l’art. 117 della Costituzione prevede già come “competenze concorrenti”; si dovranno definire gli spazi di “ulteriore autonomia”, senza mai giungere però a farle diventare esclusive delle stesse come accade in quelle a statuto speciale: trasformazione che si vorrebbe in Veneto. Ma l’occasione potrebbe essere utile anche per completare il decentramento delle prerogative statali, iniziate nel 1998 e continuate con diversi quanto inapplicati provvedimenti, tra i quali spiccano le “funzioni fondamentali” degli Enti Locali contenute nei decreti applicativi della legge sul federalismo fiscale, rimasta anch’essa in gran parte lettera morta.

In questo intreccio c’è anche da riconsiderare l’autonomia delle scuole, che la Costituzione vuole salvaguardare, ma che deve essere ridefinita in quanto “espressione dell’autonomia funzionale” (DPR 275/1999). Si tratta di un’autonomia terza che deve essere a sua volta destinataria del decentramento ministeriale, operazione avviata e via via riassorbita dal centralismo burocratico, ed entrare a far parte del sistema delle autonomie territoriali.

Da come è impostato il predetto art. 117 sembra che una sua efficace applicazione non passi solo per l’ampliamento dei poteri regionali, ma anche, come si è detto, per la riconsiderazione di quelli statali, a partire dal completo decentramento. Lo Stato anche in relazione alle indicazioni europee deve emanare “norme generali sull’istruzione”, invece il nostro è ancora radicato nella gestione totalizzante delle varie azioni di sistema e la legge sulla buona scuola ne è un esempio, in quanto arriva a prevedere bandi per progetti con finanziamenti direttii alle scuole anche per la didattica, dimenticando il tentativo sperimentale di accreditare le risorse in un unico capitolo del bilancio, lasciando a queste ultime le scelte e le modalità di impiego.

Dalla Lombardia viene la richiesta di sostituire lo Stato con la Regione, rischiando un nuovo centralismo che avoca a sé la programmazione della rete ed il dimensionamento degli istituti, il controllo degli organi di autogoverno delle scuole e quindi il condizionamento dell’autonomia degli stessi, che dovrà essere a questo punto funzionale al nuovo staterello.

Non si è ancora visto il documento ufficiale, ma dalle aperture dei giornali si nota un refrain della proposta di legge della Lega Nord del 2010. L’apertura solenne era dedicata alla disciplina regionale delle funzioni di organizzazione e amministrazione di carattere generale, nel quadro dei principi fondamentali stabiliti dallo stato: affermazione più debole di quanto non siano le norme generali indicate dal più volte citato art. 117. Le regioni, prosegue la proposta di legge, definiscono le linee programmatiche di sviluppo dei servizi e le autonomie locali sono competenti per la loro gestione. Qui è la Regione a prendere in mano il ruolo di indirizzo programmatico, di coordinamento, monitoraggio e valutazione degli esiti, pur evocando i principi di sussidiarietà e di autonomia. Sarà il federalismo fiscale a finanziare sulla base dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) e dei costi standard le funzioni fondamentali degli enti territoriali, incluso il personale. i LEP sono sì stabiliti dallo Stato, ma la Regione li può “migliorare”, facendo valere la maggiore ricchezza regionale e sganciandosi dall’equilibrio nazionale. Da qui derivano spazi di intervento sull’offerta formativa, in nome delle esigenze locali.

I lombardi poi sono molto interessati al controllo della disciplina attuativa della parità scolastica, pensando ad una versione sempre più legata all’economia privatistica della formazione.

Ma quello che più sta a cuore a questa regione è il trasferimento delle funzioni amministrative del personale: reclutamento, regolamentazione delle funzioni e livello autonomo di contrattazione integrativa; tutela (sic ?) della libertà di insegnamento; ruoli regionali e relativi concorsi, organizzazione del lavoro. L’offerta formativa deve trovare coerente realizzazione nella potestà regionale di allocazione delle risorse umane disponibili sul territorio ed anche se lo stato giuridico ed economico rimangono oggetto di trattativa nazionale, l’organico dipenderà dalla regione, così come la valutazione dello stesso. Anche se non sembra tornare lo slogan : “prima i lombardi”, si ha motivo di credere alla reintroduzione della chiamata diretta da un albo regionale degli insegnanti, per una successiva dipendenza funzionale dalle scuole.

La proposta leghista si conclude con un’attenzione particolare al curricolo, una parte del quale è già affidata alle regioni dalla legislazione in vigore ed è finalizzata alla “conoscenza del territorio”. In Lombardia sono già stati deliberati interventi in questo senso e piani regionali di formazione professionale sono presenti nei corrispondenti istituti statali.

Aumentare il numero delle regioni a statuto speciale, sostituire lo stato con la regione, oppure integrare i due versanti come propone l’Emilia Romagna. Non si tratta perciò di aumentare le prerogative di una parte a spese dell’altra, anche se, come si è detto, occorre prima portare a termine l’operazione di decentramento, ma di ripartire, ognuno con le competenze che la Costituzione prevede per arrivare ad un sistema allargato e integrato che arricchisca maggiormente il territorio ai diversi livelli e renda più efficiente i rapporti con l’economia ed il lavoro. Per far sì che questo approccio sia efficace bisogna evitare le duplicazione degli interventi, andando a mettere ordine nei poteri statali ed assegnando a quelli regionali la giusta dimensione, affinchè resti un unico sistema nazionale, orientato all’Europa (norme generali, personale e parte del curricolo, riconoscimento dei titoli) e si allarghi la presenza della regione per il valore aggiunto di cui è portatrice (programmazione, integrazione, qualificazione) per contribuire al costante miglioramento dell’intero sistema. La legge regionale emiliano-romagnola del 2003 affidava fin da allora il curricolo regionale all’autonomia delle scuole.

In questo orizzonte politico composto da elementi permanenti per tutto il Paese, compresa l’applicazione del principio di sussidiarietà verticale e orizzontale, ed i caratteri variabili per i vari territori, che più direttamente coinvolgono l’aspetto economico, ci può finalmente entrare il riconoscimento della dimensione pedagogico-didattica, incarnata dall’autonomia delle scuole, che così ha senso veder tutelata dalla Costituzione. Le scuole non possono più essere ormai un’appendice amministrativa e benchè governate da un’azione partecipativa non assomigliano ad un comune. Oltre all’autonomia giuridica ne esiste una che potremmo definire epistemologica in virtù dello specifico compito che svolgono. Non si tratta di cambiare padrone, ma di entrare a far parte di un “sistema” delle autonomie a beneficio delle comunità locali e nazionale.

La legge sulle autonomie regionali dunque potrebbe essere lo strumento per far arrivare a compimento questa realtà che attende da tanti anni e che la buona scuola ha clamorosamente mancato.