A difesa dell’Appello per la scuola pubblica

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A difesa dell’Appello per la scuola pubblica

di Gabriele Boselli

 

La magistrale arringa pronunciata dal P.M. Rita Bortone nell’aula di EDSCUOLA del 16 gennaio contro gli oltre ottomila firmatari dell’Appello per la scuola pubblica mostra come la retorica sia una scienza a torto dimenticata: essa ha il potenziale per far apparire giustificabili le decisioni altrimenti infondate del potere.

Mi sono ignote le ragioni per cui vengono sostenuti con tanto entusiasmo e competenza retorica ignara degli insegnamenti di Perelman i prodotti dei gruppetti –ignoti al mondo della Cultura e della Scienza- che da vent’anni occupano i piani alti del palazzo di via Trastevere. Un palazzo da troppi anni abitato non dalla Politica ma da modesti politici. Il limite dell’Appello per la scuola pubblica è infatti quello di limitarsi a una critica della L. 107/2015 laddove questa non è che la summa di decine di anni di sciocchezze teoriche e di errori pratici per alcuni lustri pervicacemente commessi nella compiaciuta ignoranza sia di seri studi scientifici che di anche dolorose esperienze pratiche di insegnanti, presidi non-manager e ispettori.

Credo di essere in sintonia con molti dei firmatari dell’appello quando discuto, uno, a mio avviso il principale, tra i punti in esso sollevati e retoricamente contestati dalla pur brava dirigente scolastica.

 

Non sacrificare il potenziale cognitivo all’idolo della competenza

La scuola negli ultimi venti anni è stata colpita pesantemente dai bombardieri al servizio dei politici vincenti. Gli effetti sono stati però limitati dalla meritoria resistenza dei docenti, ed è stata sconfitta sul campo (anche se non nella normativa) una ideologia competenziale che avrebbe forse desiderato rendere la mente degli insegnanti annegata nel Lete e fare perdere ai docenti, insieme all’immaginazione, l’identità. Con la prosecuzione in senso certificatorio il bombardamento porta a rendere la scuola spazio al nulla, chiuso a ogni futuro che non sia iterativa affermazione della volontà di potenza dei signori del presente.

La scuola invece sa di essere essenzialmente quel luogo in cui, ricordando, analizzando, sognando, progettando e costruendo, l’alunno giunge a coscienza di sé e conoscenza del mondo. I campi di esperienza –concetto di origine fenomenologica introdotto inizialmente nella normativa attraverso gli Orientamenti per la scuola dell’infanzia del 1991 e ignorato nei documenti ufficiali successivi- sono gli spazi e nel contempo gli squarci con cui la totalità si presenta al soggetto. Il campo che gli alunni potrebbero esperire non é una strut­tura formale precostituita e archiviabile in quadri di competenze né un insieme compiuto di attività didatti­che oggettivamente rilevabili. Le discipline che lo segnano non preesistono ai soggetti dello studiare ma scarti ammuffiti permangono con la forza degli alieni nelle piccole menti degli esperti preferiti dal MIUR.

L’esser del campo disciplinare differentemente e diversamente percorso lo disegna e accresce il patrimonio formale di chi lo at­traversa. L’inconfigurabile esperienza di vita della mente viene ricostruita sul piano simbolico -qui alcune delle parti migliori dell’Appello- attraverso i linguaggi, le arti, le scienze. Le discipline ricreano allora un territorio che non é costituito da sempre in sé e per sé ma che si forma per l’atto di un suo attraversamento da parte di un soggetto e del suo porre/porsi domande che non possono approdare a risposte seriali. Ogni autentica conoscenza di campo è transformativa dei significati originari, ma anche generatrice di signifi­cati nuovi e importanti che gli schemi valutativi inevitabilmente inquadreranno come “errore”, segno di incompetenza.

La scuola buona (in senso non renziano) attiva invece processi di riflessione sul vissuto attraverso le forme culturalmente accreditate, le discipline, forme trascendentali del conoscere. Attraversare un mondo ogni giorno sempre più nuovo non è dare la risposta prevista a domande preconfezionate; vuol dire co-struirle estendendo il nostro orizzonte, fuoriuscendo almeno con il desiderio dalla contingenza; è creare una contro-pressione intenzionale che contrasti la pressione intenzionale sistemica. Formare non copisti ma scrittori di una storia propria.

 

La dignità del conoscere e la cassetta delle competenze del robottino

Oggi più che mai il potere è dissociato dal conoscere; lo disprezza, non lo vuole. La Politica con la maiuscola prevederebbe la capacità di pensare, immaginare e disegnare con consapevolezza e rigore il mondo venturo; ma è pressochè scomparsa e i politici professionals non hanno idee. Né quelli che comandano né quelli che aspirano a comandare.

Al di là delle leggi come la 107 scritte per un Potere senza idee da alcuni cortigiani esiste per fortuna una perenne teleologia alto-politica e pedagogica che assegna alla scuola finalità di alto profilo: la promozione di una migliore qualità della vita, la maturazione dell’identità, la conquista dell’autonomia. A tal fine è importante tutelare le discipline dall’approccio prestazionale, economicistico, di un’azione condotta in vista del raggiungimento di obiettivi e traguardi prestabiliti senza curarsi troppo di aiutare la formazione del pensare il mondo, dell’interrogarsi nel confronto con gli eventi, con il novum che le discipline seriamente studiate annuncerebbero.

L’enfasi sulle competenze induce a trascurare la capacità di conoscere ed esprime una subalternità della scuola al mondo dell’economia; si tratta per lorSignori di far sì che i soggetti siano messi nelle migliori condizioni per rispondere alle esigenze di quei settori più statici del mondo della produzione (quelli cui piace Trump) che chiedono alla scuola di formare individui che sappiano adattarsi al mercato. La centrazione sulle competenze (con messa in secondo piano dei saperi e della capacità di conoscere) appare fortemente riduttiva perché enfatizza quel che altrimenti è un aspetto periferico e strumentale del sapere. A mio avviso la competenza non può collocarsi al centro e rappresentare la prospettiva dominante di impegno pedagogico nemmeno nelle scuole direttamente professionalizzanti.

La competenza viene invece impostata dai documenti ministeriali e dalle circolari IRRSAE quale unico metro di valutazione prestazione poiché misurabile e certificabile. Quel che non è misurabile non esiste.  Le conoscenze sono in questa prospettiva ammesse solo come “apparati serventi”; asservite pertanto alla produzione di risultati. Conta l’esito, il raggiungimento del traguardo…..

“Traguardi”? A nostro parere, il rischio è quello di offrire una traccia pretenziosa ma nel contempo molto debole del processo di crescita, soprattutto nelle età più intensamente evolutive della vita. Decisamente parziale e miope soffermare l’attenzione solo su ciò che è al momento osservabile.

E’ la conoscenza e il modo in cui si interagisce con essa che consente alla mente di formarsi. Si tratta di aiutare il ragazzo a costruirsi disposizioni affettive, cognitive, relazionali, modi di guardare il mondo che abbiano un valore di tipo non replicativo ma generativo.

La competenza è la capacità di produzione di fatti sistemicamente indotti e poi premiati. S/R, come con i cani di Pavlov. La conoscenza è Atto; nella sua auspicabile incondizionatezza è apertura allo stato puro sul divenire del mondo e delle scienze. Sul piano epistemologico vale anche se oggi non conta molto la costruzione della conoscenza, valgono i saperi: sono semmai le competenze a essere effetti secondari , graditi ma secondari, in quanto capacità di uso e di applicazione dei saperi.   Le competenze sono, per quanto utili, sottoprodotti dell’attività del conoscere. Costituiscono la pur positiva scoria di processi di comprensione. Non si dà nemmeno autentica competenza senza conoscenza (la terra), senza cultura. Un soggetto educato principalmente a dimostrare “oggettivamente” competenza ignorerà ogni quadro teorico in grado di render ragione dei fenomeni culturali e fisici nella loro complessità e interezza.

 

Suggerimento

A.Melucci Innovare in politica e in pedagogia in Senso della politica e fatica di pensare, a cura di Antonio Erbetta, Bologna, CLUEB, 2003